In vista del congresso PD non v’è ancora nessuno, e men che meno fra i candidati alla leadership, che abbia accennato, anche minimamente, a una analisi dei misfatti recenti. Solo chiacchere e politologie sulla ‘forma’, la storia, il destino.

Caos, il congresso PD

Di Fausto Anderlini*

Ma che processo costituente del menga!? Missione, identità, visione del paese, periferie sociali da recuperare, modello di partito, se solido o liquido, correnti, fusione mal riuscita e via ciarlando.

Le grandi sciagure non vengono mai da lontano, ma da molto vicino, cioè dalle azioni e dalle omissioni adottate a catastrofe incombente (e del tutto preventivata).

L’avvento della destra al potere, il tracollo del centro-sinistra e la debacle elettorale del Pd è stato uno dei più colossali e grotteschi harakiri che la storia ricordi.

Il risultato di una incredibile successione di errori capitali. Una intiera classe politica accecata da una sorta di demenziale cupio dissolvi. E che ora. Totalmente incosciente rispetto alla condotta tenuta e ostinatamente incapace di riconoscerla, si aggroviglia in uno stato confusionario da neuro-delirio.

Possiamo anche tralasciare gli errori e gli orrori più remoti: tutti quelli ascrivibili ai governi renziani e culminati nella debacle del 2018 e poi anche i pop corn masticati sul divano col semaforo verde al varo del governo giallo verde e ancora, la condotta ubiqua nel Conte due, col risultato di azzopparlo proprio quando con il Recovery found e la gestione della pandemia toccava il massimo del consenso.

Lo strascico delle colpe di Renzi, sino al colpo finale della detronizzazione di Conte, e l’insondabile biascichio di Zingaretti (dal Mes al ‘cambio di passo’) – una delle più meteoriche e misteriose apparizioni sulla scena politica, malgrado un consenso quasi plebiscitario e la tenuta alle regionali sembrassero farne un vincitore designato.

Basta mettere in fila gli eventi succeduti all’avventuristica iniziativa di Mattarella di mettere un ‘suo’ governo, a guida tecnico-carismatica e col concorso eterogeneo e paradossale delle forze politiche ingabbiandole in un gioco nel quale l’unico beneficiario era chi ne stava fuori (ovvero FdI).

Ma è il ritorno di Letta il vero turning point dell’intera vicenda. Costui, pure investito di un potere emergenziale, ne combina di ogni in un sequel che lascia veramente dubitare sulla sua sanità mentale.

Letteralmente si sdraia al seguito della cricca improvvida e avventurista di Draghi e Mattarella, persino ignaro del dualismo di ambizioni e personalità che grava sulla coppia ed esplode all’atto delle Quirinarie. Fa dell’agenda Draghi la propria missione e assiste come testimone di pietra all’assurda iniziativa scissionistica ordita da Draghi e di Maio per scavallare il leader della più importante forza a sostegno del governo.

Un episodio letteralmente inaudito. Inoltre segue Draghi, con cieco fanatismo, nell’allineamento atlantico dell’Italia a seguito della guerra Russo-Ucraina.

Caduto anzitempo il governo (come era scritto nelle cose, essendo impossibile per Conte non reagire all’opa ostile nei suoi confronti) Letta, abbacinato dalla sua folle coerenza, decide di rompere l’alleanza coi 5Stelle e di andare tutto solo, dopo essersi fatto buggerare da Calenda, allo scontro con la destra. La quale destra non è certo al top dei consensi.

Con il sistema elettorale vigente e con le modalità geografiche di distribuzione dei voti un centro-sinistra basato sull’alleanza Pd 5S verdi Si e art. 1 e attestata sul 40 % e rotti dei suffragi (senza contare il probabile risucchio di un certo sovrappiù dall’astensione) sarebbe in grado, sulla carta, di vincere (e comunque non perdere). Rivendicare il Conte 2.

Un governo di successo, sarebbe certo una proposta di governo più allettante che affidarsi a una agenda di un tizio nel frattempo eclissatosi nel nulla. Ma questi non solo sono piagati da una irredimibile volontà d’impotenza. Neanche sanno far di conto. E partecipano alle elezioni accusando la legge elettorale (varata a suo tempo dal Pd medesimo) e inneggiando a una guerra che sconcerta la più gran parte dell’opinione pubblica.

Come risultato servono alla destra, in sè minoritaria, una vittoria schiacciante su un piatto d’argento. Ma non solo. Per una necessaria nemesi consegnano anche a Conte, la vittima predestinata, il primato nella sinistra.

Dopo tali prove di fanatica inettitudine qualsiasi partito con un minimo di serietà avrebbe provveduto a una impietosa analisi autocritica, rispedendo all’istante il primo irresponsabile nei campi di prigionia francesi e nominando in sua vece un ‘dittatore democratico’ con pieni poteri emergenziali e di garanzia. Che so, nel caso un Cuperlo, un Orlando, qualcuno fra i meno compromessi. Invece no, pur dimissionario,

Letta insiste e sebbene privo di ogni autorevolezza su una ciurma ormai in preda all’anarchia resta per ‘guidare’ il processo ri-costituente. Come fosse un’aspirina o un integratore.

A tutt’oggi non v’è alcuno nel Pd, e men che meno fra i candidati alla leadership, che abbia accennato, anche minimamente, a una analisi dei misfatti recenti. Solo chiacchere, professioni rigeneranti, erudite politologie sulla ‘forma’ Pd, la sua storia, il suo destino.

Persino con la promessa di proseguire nell’esercizio a primarie avvenute. Un congresso permanente come la nation di Renan, come il Concilio di Trento. Forse un partito può fare a meno di una identità chiara, di una forma riconosciuta. Di certo non può fare a meno dell’analisi politica.

In questo ambaradan è stupefacente il contributo generoso quanto confusionario di Art. 1. Rientra nel Pd (senza autocritica per esserne uscito) e svolge i fondamentali con appassionata coerenza costituente.

Azzeccatosi a Letta come una cozza, da un certo momento in poi, cioè con il preannunciarsi delle imminenti elezioni, ha di fatto condiviso con lui tutti i misfatti succedutisi almeno dalla scissione tentata da Draghi Di Maio ai danni dei 5 stelle, forse animato dall’improvvida idea che una uscita di scena di Conte avrebbe aperto chissà quali praterie alla ‘vera’ sinistra. Distinguo su tutto, nessuno sui fatti di linea politica.

E adesso si appresta a sostenere una candidata ‘radical’ con un’opa esterna sul Pd via primarie perfettamente in linea con le pratiche liquide, mai tanto criticate come adesso, del veltro-renzismo. Col, paradosso di consegnare quel po’ che c’è del ‘partito solido’ nelle mani della destra bonacciniana. Mai eterogenesi dei fini (e delle idee professate) fu più eclatante.

* Grazie a Fausto Anderlini

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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