Facciamo una premessa. E la premessa è questa:

«Cari studenti, in merito a quanto accaduto lo scorso sabato davanti al Liceo Michelangiolo di Firenze, al dibattito, alle reazioni e alle omesse reazioni, ritengo che ognuno di voi abbia già una sua opinione, riflettuta e immaginata da sé, considerato che l’episodio coinvolge vostri coetanei e si è svolto davanti a una scuola superiore, come lo è la vostra. Non vi tedio dunque, ma mi preme ricordarvi solo due cose. 

Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti. ‘Odio gli indifferenti’ – diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i fascisti chiusero in un carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee. 

Inoltre, siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni.

Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza.

Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura. Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene cento anni fa ma non è andata così.»

ANNALISA SAVINO
Preside del Liceo “Leonardo da Vinci” di Firenze


Per un momento astraiamo il contenuto della lettera della preside del Liceo “Leonardo da Vinci” ai suoi studenti dalla lettera stessa. Che cosa ne resta?

La risposta più immediata, che tanto un insegnante quanto una ragazza o una ragazza potrebbero avere nell’immediatezza è: una lezione di educazione civica che poggia su una analisi storica degli accadimenti che possono ciclicamente riproporsi nella società.

In parole molto semplici, la preside ha scritto non un elogio di Antonio Gramsci, dell’antifascismo, della nonviolenza o della solidarietà, tutti temi peraltro per cui si dovrebbe solo lodare un dirigente scolastico e non minacciarlo di conseguenze a livello ministeriale, ma ha messo nero su bianco alcuni concetti fondamentali per un comportamento civile e, quindi, civico.

Che può e che deve fare parte della nostra quotidianità, del nostro modo di intendere un consesso sociale e, se vogliamo, per estensione, senza alcuna iperbole, della nostra Repubblica tutta quanta.

Invece, il ministro Valditara legge in quella lettera una provocazione politica, un andare oltre il ruolo burocraticamente inteso di preside, come grigio amministratore periferico degli ordini e delle ispirazioni anche morali (e culturali) che sono gradite maggiormente al governo.

E’ una segnale distintivo proprio anche del potere in quanto tale, ma soprattutto di una incultura di destra che è tesa all’uniformità, al livellamento delle coscienze, all’antitesi del criticismo, all’espunzione della forma dialettica come elemento di crescita vicendevole, al dialogo e al confronto.

Noi dovremmo accettare senza discutere le idee del ministro e del governo di cui fa parte sulle foibe, sul comunismo, sulla sinistra, sulla Seconda guerra mondiale e, magari, anche su temi meno divisivi sul piano del raffronto tra Storia e attualità, mentre per una preside è impossibile mostrare agli studenti il pericolo di una involuzione recrudescente di atti offensivi, di violenze gratuite che, guarda caso, riguardano proprio i giovanissimi di cui lei ogni giorno si occupa?

Non esiste una logica che possa stabilire una corrispondenza lineare tra questi due diversi comportamenti: il ministro nega agli altri ciò che invece reclama per sé stesso. Se la preside è andata oltre il suo ruolo – cosa che non ha fatto, rimanendovi bene al di qua proprio scrivendo quella lettera di alto valore morale, civile e sociale – allora il ministro è andato oltre la Storia con la esse maiuscola.

L’opinabilità appartiene ad ogni minuscola parte della materia di questo disgraziato mondo. E, proprio perché così è e continuerà ad essere, ciò che preme è che ognuno possa confrontarsi liberamente secondo i dettami di quel patto comune che è la Costituzione repubblicana su cui la nazione si fonda libera e democratica (almeno formalmente) da oltre settantacinque anni.

L’attacco portato dal ministro alla preside del Liceo “da Vinci” è scomposto, inopportuno e, se dovesse concretizzarsi in un provvedimento esecutivo contro la dirigente scolastica, avrebbe la chiara connotazione di un redarguimento censoreo, di una stigmatizzazione di Stato, di una concretizzazione sostanziale di un metodo repressivo di cui verrebbe stabilito il precedente e con cui si continuerebbe ad intimorire l’intero corpo degli insegnanti e dei dirigenti della scuola della Repubblica.

Compito del ministro non è rinverdire le infelici sorti della scuola del Regno sotto il Ventennio o delle università costrette a privarsi di illustri docenti che non avevano aderito al Partito Nazionale Fascista. Compito del ministro, dunque, non è l’uniformità politica dettata da presunti valori morali messi a guardia di perimetri entro cui il preside o il docente si devono muovere senza sgarrare.

No, compito del ministro è favorire invece la pluralità delle discussioni, comprendere gli errori là dove si verificano e condividere sempre la libertà d’iniziativa di tutto il corpo dirigente, docente e degli studenti nella loro interezza.

Ma questo, un governo di estrema destra non lo può capire, perché legge, ordine e disciplina sono parte di una radice culturale antica, antitetici allo spirito della Costituzione perché declinati in una inversione di proprozionalità tra l’ultimo e il primo termine citato.

E’ un trittico tratto fondante di un conservatorismo regressivo, di un nazionalismo antipatriottico che vede nella mortificazione delle minoranze la norma e che assume il liberalismo come semplice cerimoniale di governo, come protocollo piuttosto formale per gestire il potere e poterlo conservare.

Ed è proprio questo modo di intendere le istituzioni e il loro rapporto con i cittadini che relega, ancora oggi, buona parte delle forze della maggioranza parlamentare in un ambito estraneo ai valori democratici e veramente repubblicani, per non parlare delle mai veramente accettate, perché sentite proprie, fondamenta antifasciste della Repubblica Italiana.

Del resto, se i fratelli e le sorelle d’Italia sono allegoricamente post-fascisti, così come i leghisti sono post-indipendentisti e post-padaneggianti, perché altrimenti sarebbe impossibile arrivare a Palazzo Chigi con il consenso esplicito delle classi imprenditoriali e finanziarie non solo italiane in una cornice della modernità liberista che esige una chiarezza di rapporti con le altre forze politiche continentali, è altresì vero che, nella patria della democrazia per antonomasia, fino a poco tempo fa, troneggiava il peggior sovranismo possibile: quello di Donald Trump.

Dovremmo intenderci sul fatto che gli spazi che la democrazia concede anche ai propri avversari o critici intransigenti sono una generosità inestinguibile e insostituibile. Soprattutto insuperabile per non rischiare di andare proprio oltre la democrazia stessa. Sono, se vogliamo, una contraddizione abbastanza evidente, ma più che per noi che ci riconosciamo appieno nella Costituzione, nelle fondamenta antifasciste e nella democrazia a tutto tondo, rappresentano un dilemma proprio per le destre che oggi governano.

Possono pensare di fare a meno degli strumenti di delega popolare con cui sono giunti al potere, ma non possono pensare poi di rappresentarsi come forze modernamente democratiche e persino liberali. Le contraddizioni, un po’ come le disgrazie, non vengono mai sole.

Sarebbe un bel gesto se il ministro si dimettesse, dando prova di rappresentare, contrariamente a quanto malignamente pensiamo noi, una destra moderna, che sa quando oltrepassa i limiti e che ammette i propri errori (si sarebbero, a questo proposito, già dovuti dimettere altri ministri e sottosegretari e pure presidenti di commissioni e membri del COPASIR…). Ma questo non avverrà spontaneamente.

La destra dei suoi errori fa dei dogmi irrisolvibili, dei nuovi pilastri antietici, immorali e incivili per adattarsi alle circostanze e rimodulare la propria aggressività verbale e istituzionale (quella fisica la lascia agli ancora più mediocri che la circondano nei territori, per sconfessarli come gesto di coerenza e di buona volontà).

Sarebbe un bel gesto se il Presidente della Repubblica, con la consueta eleganza e con tutta l’aderenza possibile al galateo istituzionale, si esprimesse in un elogio delle parole della preside del Liceo “da Vinci“.

Dall’arbitro che rappresenta l’unità nazionale, la concordia e la disciplina delle relazioni tra i poteri dello Stato, verrebbe un segnale anche di distensione ma, in particolare, di ripristino di una correttezza del dibattito socio-politico-culturale in un Paese che ha bisogno di tutte e tre questi elementi: socialità, politica e cultura adoperate nell’interesse unico della comunità.

Contro ogni indifferenza, contro ogni omofobia malcelata, contro ogni razzismo spacciato per tutela degli interessi degli italiani, contro ogni repressione spacciata per opportuno esercizio delle proprie funzioni di ministro della Repubblica.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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