Gabriele Germani

Il FMI ha erogato un nuovo prestito di quasi tre miliardi di dollari al martoriato Sri Lanka in cambio delle solite “riforme”. La cosa ha una serie di implicazioni non di poco conto.

Il caso Sri Lanka e il FMI

Ricorderete la vicenda del default dello Sri Lanka, della crisi alimentare ed energetica che lo colpì durante l’anno passato.

A inizio settimana, il FMI ha erogato un nuovo prestito di quasi tre miliardi di dollari in cambio delle solite “riforme”.
La cosa ha una serie di implicazioni non di poco conto.

I debiti che lo Sri Lanka (chiunque) contrae con il FMI legano il paese agli interessi occidentali (USA, Europa, Giappone che sono poi i big dell’organizzazione) e a precise politiche economiche (che a dispetto della neutralità, sono di carattere ideologico).

Gli analisti occidentali indicano la svolta come positiva (nell’immediato sicuramente questa avrà un impatto positivo per la popolazione), ma non tengono conto del meccanismo auto-alimentante tra prestiti e politiche neoliberiste.

La storia dei processi di decolonizzazione e post-coloniale ci racconta di come i prestiti occidentali (o delle organizzazioni internazionali in mano a attori occidentali) siano stati spesso i cavalli di Troia per una politica economica rapace. Noi stessi, in Europa e Italia, abbiamo sperimentato (in parte sperimentiamo) i rigori della disciplina economica al potere: i greci hanno subito le bacchettate di questo Robin Hood al contrario.

I vari finanziamenti allo Sri Lanka saranno legati indissolubilmente all’azione politica del governo; ricorderete le montiane “riforme”. Questo termine dall’apparenza progressista, in realtà ormai utilizzato per indicare presunti canoni oggettivi (che non possono essere fissati come tali, essendo economia e politica parte delle dinamiche sociali e quindi necessariamente di parte), finiscono sovente a indicare la macelleria sociale a cui i paesi debitori sono costretti.

I paesi perdono la sovranità (tramite il meccanismo del rilascio a più tranches legate alla riforme), questa perdita non è mai breve o temporanea, tende a stabilizzarsi. Di solito non riescono a ripagare i debiti, finendo nuovamente in balia dei creditori, altre volte vengono legati indissolubilmente a uno o più poteri occidentali (stati o multinazionali) che abusano della loro posizione per aumentare i guadagni.

In alcuni casi, i paesi riescono tramite una politica di compressione salariale e spiccatamente favorevole al capitale, ad attirare investitori e ad uscire dalla povertà. Tutto questo, avviene però di solito con molte cessione al capitale, una totale compressione dei diritti del lavoro e nessuna attenzione a diritti o ambiente.

I media occidentali continuano a colpevolizzare la Cina di quanto accaduto nell’ultimo anno, ma buona parte dei debiti era detenuto da investitori privati; tra i governativi il ruolo della Cina non era poi molto diverso da altri. Anche qui, dovremmo forse indagare il ruolo avuto dal colonialismo e dai suoi strascichi successivi, dalla rivalità con l’India (talvolta fomentata dall’Occidente, in funzione anti-indiana), al capitombolo successivo all’avvicinamento con la Cina.

Avanzo una suggestione (che ha il valore che ha, non datele peso): in questa epoca di rivoluzioni colorate e spread, la cacciata di un presidente -con rivolta popolare, più che comprensibile- aperto agli investimenti cinesi (e quindi alla Via della Seta e alla strategia del filo di perle nell’Oceano Indiano) e la sostituzione con uno nuovo che decide di chiedere aiuto al FMI (perché non alla Nuova Banca di Sviluppo dei BRICS?), può essere interpretato in tanti modi.

Tempo fa, Trinidad e Tobago -uno stato caraibico- dovendo scegliere tra un prestito FMI e uno cinese ha preferito il secondo. Le condizioni erano nettamente vantaggiose (tasso di interessi più vantaggioso, nessuna pretesa sulla politica interna -a differenza del FMI-, obbligo ad usare parte del prestito in macchinari o medicinali cinesi -quindi in prodotti utili alla popolazione).

Meccanismi come questo non sono generici, non sono idee astratte, non sono scelte dei governi. In Occidente sono i meccanismi che tutti abbiamo sostenuto votando, iscrivendoci a un sindacato, pagando le tasse, ecc.

Tempo fa un amico dalla Russia scrisse (parafraso): “Quando la popolazione occidentale capirà cosa vuole dire veramente l’ascesa cinese e dei BRICS, il multipolarismo, la resistenza russa all’allargamento UE e NATO e come questo impatterà sul suo tenore di vita e consumi cambierà rapidamente idea e chiederà alla propria classe dirigente la guerra”.

Risposi scettico, pensavo che la popolazione occidentale avesse capito il limite ecologico ed economico-politico dello “sviluppo”, pensavo che alla fine la catastrofe sarebbe stata evitata: inizio ad avere qualche dubbio al riguardo.

Inizio, anzi, a temere che il pensiero di sinistra (specie quello cresciuto nel clima del boom, convinto che le risorse siano infinite e con un’idea dicotomica del potere) sia una sorta di laicizzazione del giustificazionismo cristiano dei propri peccati, una sorta di confessione collettiva.

Come ho detto in passato: l’esercito di riserva dell’imperialismo siamo noi, i produttori di ricchezza anche nei momenti di svago, i consumatori di quella ricchezza, i guardiani dell’ordine costituito.

Noi siamo già tutti inquadrati come un grande esercito e per il nostro svago del sabato sera siamo ben disposti a lavorare in una fabbrica di napalm. Tanto cadrà molto lontano da casa nostra…

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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