I lavoratori francesi dimostrano di essere disposti a lottare fino in fondo per difendere i nostri diritti. E noi?

 di Alessandra Ciattini  

Come è noto ormai quasi a tutti, in Macronia, utilizzando l’antidemocratico articolo 49-3 della Costituzione, accompagnato da misure antisciopero e da violenti attacchi della polizia contro i manifestanti, il 14 aprile il Consiglio costituzionale ha comunicato la sua decisione; decisione che non ha sorpreso nessuno. Questo organismo è stato istituito nel 1958, quando il generale De Gaulle fece il suo colpo di Stato dando alla luce la Quinta Repubblica [1], e la sua funzione è quella di stabilire la legittimità costituzionale delle leggi organiche e dei regolamenti parlamentari, inoltre vigila sullo svolgimento delle elezioni. È formato da nove membri non eletti, ma scelti dal presidente della Repubblica, dal presidente dell’Assemblea nazionale e da quello del Senato, i quali provengono dagli ambienti vicini al potere e agiscono come guardiani di quest’ultimo.

Con questa decisione si è considerata legittima la cosiddetta riforma del sistema pensionistico, secondo la quale i francesi dovranno lavorare fino a 64 anni (prima fino a 62), dovranno versare allo Stato i contributi pensionistici per due anni di più, e sono aboliti i regimi speciali che sancivano trattamenti rispettosi dei diversi tipi di attività. Ma il Consiglio costituzionale non si è limitato a questo: ha respinto anche l’ipotesi di celebrare un referendum su questa importantissima questione, ossia ha rigettato il RIP (Référendum d’Initiative Partagée) proposto da NUPES, ossia il raggruppamento politico diretto da Jean-Luc Mélenchon. 

La Costituzione della Quinta Repubblica è stata concepita per superare il parlamentarismo e rafforzare l’esecutivo in un’ottica che fa della Francia un paese retto da un regime semipresidenziale, ossia anticipatore delle molte trasformazioni subite in questi ultimi decenni dai cosiddetti paesi liberi e democratici, compresa l’Italia. In particolare, il rafforzamento dell’esecutivo si è palesato nelle varie “emergenze” che ci hanno angustiato e ci angustiano, dopo la pandemia la guerra con la quale è riapparsa in maniera chiara e arrogante la censura.

Eppure per alcuni il semipresidenzialismo alla francese non sarebbe nemmeno sufficiente per governare un paese nel mondo d’oggi; tra questi si distingue la signora Giorgia Meloni, la quale va ripetendo che la riforma in senso presidenzialista, o meglio l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo farebbe di quest’ultimo l’espressione della volontà popolare, darebbe stabilità al paese e ne potenzierebbe lo sviluppo. Purtroppo non ci spiega le ragioni di tutte queste meraviglie e, d’altra parte, quando si aspira a comandare senza controlli e mediazioni, l’impiego di argomentazioni rappresenta solo una perdita di tempo. Questa detestabile convinzione accomuna tutti i nostri capi partitici e ha reso la politica, forse la più nobile attività umana, un volgare e risibile contrasto tra slogan banali e inefficaci, nei quali spesso si manifesta la crassa ignoranza o il bieco opportunismo dei loro proclamatori. La Russa docet.

Facendo le pulci ai paesi liberi e democratici, scopriamo, guarda un po’, che quando l’URSS fu pilotata verso la sua dissoluzione, di cui ancora oggi paghiamo le tristi conseguenze, per dar vita a un nuovo organismo politico, i suoi capi si ispirarono al modello della Quinta Repubblica, ossia a un regime semiparlamentare, in base al quale Vladimir Putin è quel leader autoritario quotidianamente detestato. Purtroppo, se le cose stanno effettivamente così, l’autoritarismo non sta fuori del cosiddetto Occidente, ma proprio nel suo cuore, nella patria dei diritti umani, rispettati a parole e quando si conviene. Ma allora la contrapposizione tra mondo libero e autoritarismo cade? E cosa resta?

Resta un conflitto profondo e devastante che probabilmente segnerà il passaggio da un sistema egemonico a un altro scandito da fasi di pericolosa instabilità e di eterogenei rimescolamenti, che potrebbero schiudere il varco – ce lo auguriamo – a radicali trasformazioni progressive. Restano anche gli stratosferici guadagni delle multinazionali dell’energia e del complesso militare-industriale [2], tutti fatti sulle spalle dei lavoratori già sfiancate da decenni di politiche antipopolari; guadagni cui, con le loro prossime rinunce, i francesi sono ora chiamati a dare il loro contributo sia pure indiretto.

Tuttavia, nonostante la portata dell’attacco, i lavoratori francesi non vogliono essere trattati come quelli italiani che, sebbene in seguito alla pandemia la loro aspettativa di vita si sia ridotta di due anni, dal 2019 accedono alla pensione a 67 anni. Lo hanno pure scritto sui loro cartelli in risposta a Macron che indicava l’Italia come il buon esempio da seguire.

In risposta alle grandiose manifestazioni e proteste, che hanno visto anche assalti alla Borsa di Parigi, alla sede francese di BlackRock (interessata all’istituzione di fondi pensione privati) e la consistente partecipazione giovanile, Macron cerca di voltare pagina e di intrattenere il suo pubblico su altri temi: l’indispensabile rapporto con la Cina, il riscatto dalla subordinazione agli USA, il suo nuovo slogan (lavoro, ordine, progresso che si richiama addirittura a Auguste Comte).

Ovviamente a sostegno della riforma di Macron si è espresso l’ex presidente Nicolas Sarkozy, il quale nel 2010 fece approvare una riforma analoga (spostamento dell’età pensionabile da 60 a 62 anni) sempre nel vortice del malessere popolare, dell’opposizione dei sindacati e di forti manifestazioni di protesta. Giustificò la necessità di questa precedente riforma con l’esigenza di mantenere in equilibrio i conti pubblici, di far fronte alla crisi finanziaria del 2008, ma guardandosi bene dal tassare le rendite delle grandi imprese come chiedeva la CGT. Questa richiesta condivisibile si fondava sul fatto che nel 2009 la Corte dei conti francese stimava che l’evasione fiscale di queste ultime giungesse a circa 10 miliardi di euro.

Mentre alcuni settori sindacali sembrerebbero voler trovare un compromesso con Macron (quale?), è stata proclamata per il primo maggio la tredicesima giornata di mobilitazione contro la riforma delle pensioni, la quale a Parigi partirà da place de la République per raggiungere place de la Nation. 

Questi scioperi e manifestazioni, nei quali negli ultimi decenni in Francia si è coagulato il crescente disagio sociale (si pensi ai gilet gialli), costituiscono certamente la risposta alle misure antipopolari prese di volta in volta dai vari governi, ma inevitabilmente finiscono per mettere in discussione tutto il sistema economico-sociale sempre più in crisi. Infatti, le critiche dei manifestanti si sono estese al carattere antidemocratico e autoritario della Quinta Repubblica, alla necessità di varare una nuova Costituzione e con essa la Sesta Repubblica, di abolire il conservatore Consiglio costituzionale etc. Insomma, lo sciopero da sindacale è diventato politico e si rivolge ora contro la politica complessiva (anche estera) di Macron, il quale sembra annaspare senza avere le idee chiare sul da farsi. 

Certo non possiamo fare a meno di chiederci fino a quando i lavoratori francesi riusciranno a mobilitarsi per costringere il governo a un cambio di rotta. Per ora hanno ricevuto solidarietà da molti sindacati europei e non europei, i cui lavoratori in alcuni casi, come in Grecia, si sono mobilitati dinanzi l’ambasciata di Francia. Naturalmente ciò è importante, ma credo non sufficiente perché sarebbe opportuno organizzare proteste serie sugli stessi temi che sono agitati dai lavoratori francesi: impoverimento del mondo del lavoro, precariato, distruzione di quel che resta dei servizi pubblici, avvisaglie di guerre devastanti per lo stesso genere umano. In Italia, invece, il primo maggio, mentre i sindacati celebrano il solito concertone a San Giovanni per ammansire le masse, su iniziativa della Meloni si terrà un significativo Consiglio dei ministri su temi rilevantissimi per i disoccupati e i lavoratori che metterà il solito decreto legge sulla cosiddetta riforma del reddito di cittadinanza che fornisce per brevi periodi somme miserevoli agli interessati, sulla riduzione del cuneo fiscale, voluta dagli imprenditori che risparmieranno sul costo del lavoro; inoltre si ribadisce il precariato in quanto questi ultimi potranno assumere lavoratori con contratti temporanei di 12 mesi senza indicarne la cagione. Oltre a ciò è previsto un nuovo condono sulla scia di Conte che prevede riduzione di tasse, sanzioni e rateizzazioni. Come se ciò non bastasse lo scorso novembre, dolendosi come la Fornero, il ministro delle dell’Economia e finanze Giorgetti ha firmato il solito decreto con cui si stabilisce che saranno rivalutate al cento per cento solo le pensioni più basse, mentre quella a partire da 2.100 euro lordi riceveranno una rivalutazione sempre più irrisoria. La colpa sarebbe della crisi e non della nostra subordinazione agli USA che ci vede ogni giorno inviare armi all’Ucraina. Ben 10 miliardi del costo di quelle armi provengono dalle nostre pensioni tagliate

In definitiva, mentre continuano a spremerci senza nessuna pietà ancora nessuno ha pensato di fare come in Francia.

Note: 

[1] De Gaulle si fece nominare capo di un governo di unità nazionale e pretese la modifica della Costituzione prima vigente.

[2] Proprio oggi 22 aprile Macron ha sostenuto che l’artiglieria necessaria all’Ucraina e promessa dall’UE si deve comprare nel continente per consentire la dismissione degli armamenti obsoleti e per favorire le industrie nostrane

https://www.lacittafutura.it/editoriali/facciamo-come-in-francia

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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