E’probabile che la Storia un giorno dica che s’era visto anche di peggio e che, forse, le “consultazioni” di Meloni con le opposizioni riguardo la riforma (semi)presidenzialista che le destre caldeggiano nella loro settantennale storia, dal MSI al centrodestra berlusconiano, passando per quello salviniano e approdando ora all’era della nuova fiamma fratellitaliana, siano alla fine meno peggio dei tentativi di assalto all’impianto parlamentare della Repubblica messi in essere da bicamerali fallite, referendum altrettanto tali e proposte strampalate varie, ma non per questo meno pericolose.

Eppure, l’inusialità di queste procedure contribuisce alla costruzione di una specie di sentimento comune, quasi condiviso, sulla necessità impellente di una riconfigurazione dei rapporti istituzionali, degli equilibri tra i poteri dello Stato, di conversione ad un moderno modello di gestione della cosa pubblica che veda maggiormente energizzato il ruolo del governo, affidandogli più poteri, quindi più margine di manovra rispetto al Parlamento e alla Magistratura, nonché alla terzietà della Presidenza della Repubblica.

Una necessità su cui si dibatte: il PD è favorevole ad una sorta di “cancellierato” alla tedesca, ad un governo più forte ma non all’elezione diretta del Capo dello Stato. Cincischia su quella del Presidente del Consiglio e, del resto, il terreno pseudo-culturale in merito lo si è preparato da tempo: l’uninominale maggioritario delle leggi elettorali truffa con cui sono stati eletti deputati e senatori, formate maggioranze e costituiti esecutivi negli ultimi trent’anni, ha sancito la fine della proporzionalità in tutto e per tutto.

Nel fare questo si è decretata la volontà di fare spazio ad una politica non basata sul contributo di ognuno, bensì sul carisma del leader, sulla rappresentanza dall’alto con una legittimazione per acclamazione da un basso sempre più basso, infimamente relegato ad un ruolo di plaudente osservatore degli eventi, di subente spettatore delle decisioni prese molto al di là della delega popolare nell’elezione del Parlamento e, come Costituzione vorrebbe, nella trasmissione di questa volontà sovrana in tutti gli altri ambiti dello Stato.

Il cuore della Repubblica sono le Camere in un rapporto di perfetta parità di azione e di legislazione. Ma, siccome l’argine agli eccessi antidemocratici, rappresentato proprio da questo controllo del Parlamento sugli altri organi delle istituzioni, da questa sua funzione di fulcro dell’attività pubblica, delle norme approvate dopo un intenso dibattito, una dialettica che dovrebbe uniformare ogni aspetto della vita sociale, politica e civile del Paese, è già da tempo stato messo in discussione, è del tutto evidente che oggi ci si senta legittimati a proporre una alterazione molto più complessa del rapporto tra rappresentati e rappresentanti.

Il semipresidenzialismo cui le destre guardano si ispererebbe – dicono – al modello francese. Oppure il presidenzialismo che piace è quello americaneggiante. Entrambe queste costruzioni costituzionali e amministrative ci stanno, a dire il vero, rivelando tutta la loro fragilità proprio nel rapporto con le più ampie fasce di popolazione che si trovano a subire le recrudescenze di un liberismo pienamente sostenuto dai rispettivi governi di Macron e di Biden, senza che assemblee nazionali o congressi abbiano il potere di mettere dei contrappesi negli eccessi di governo.

Laddove, per “eccessi” si intende la sicurezza di poter esercitare un ruolo senza dover tenere conto tanto del malumore sociale quanto degli equilibri parlamentari. O si scavalcano questi pseudo-ostacoli con l’applicazione di normative previste proprio per cautelare gli esecutivi presidenziali da un salutare controllo delle assemblee legislative; oppure si procede a suon di decretazioni e di interventi a gamba tesa.

Meloni e alleati propongono uno schema di applicazione del (semi)presidenzialismo che diventerebbe parte di un combinato disposto, di una genesi dei fini che prenderebbe il via dalla interazione tra un governo centrale rafforzato nelle sue prerogative e un regionalismo altrettanto tale a cui sarebbero demandate tutte le decisioni sulle più imporatanti questioni riguardanti la vita dei cittadini: salute, scuola, infrastrutture, cura dei territori.

Una simbiosi mai vista, incredibilmente realizzabile tra una specie di federalismo esasperato, egoisticamente autonomista e non solidaristicamente federalista, che andrebbe ad incrociarsi con uno squilibrato rapproto di poteri nazionali: la funzione del Quirinale passerebbe dall’essere terza nel custodire le fondamenta della Nazione, della sua Repubblica e dello Stato ad essere parte dei tre poteri, avendo così davanti a sé anche il problema di una sindacabilità degli atti di governo da parte di una Magistratura che rimarrebbe presieduta dal Capo dello Stato.

Non è ancora chiaro cosa si interenderebbe fare in questo frangente, per tutelare l’indipendenza assoluta del potere giudiziario rispetto agli altri due. Quello che balza vistosamente agli occhi è lo scompaginamento totale che subirebbe la Costituzione, il sovvertimento di un ordine che, laddove non ha funzionato, è stato solo a causa della pessima interpretazione del ruolo politico delle istituzioni, adoperate come strumenti per il consolidamento di interessi particolari, personali, privatissimi e comunque molto raramente volti alla tutela del pubblico e del sociale.

Sull’erosione di una democrazia distrutta dal suo interno da una pletora di guardiani delle prerogative imprenditoriali e finanziarie, attaccata esternamente da una idea di Stato forte e non “soltanto” democratico, ma risoluto nell’essere il difensore del capitalismo italiano nel contesto di una globalizzazione esasperante (per le classi deboli, si intende…), si costruisce una ulteriore inedia dei rapporti sociali e civili, di una immoralità della politica che diventa cultura condivisa, quasi tradizione e regola non scritta. Una alternativa incostituzionale ad una Repubblica parlamentare che, se rispettata in quanto tale, funzionerebbe al meglio con una legge elettorale soltanto proporzionale pura.

Ma, come ovvio, le Costituzioni sono patti che diventano mezzi da utilizzare concretamente nella loro estensione quotidiana, proprio nella più stretta intimità tra cittadino e res publica, tra chi cerca la delega e chi la consegna. Chi la cerca, per l’appunto, con una vena di opportunismo che è andata crescendo con l’impronta privatizzatrice del consenso, con il leaderismo assunto a programma di governo, con il “sindaco d’Italia” ed altre scempiaggini che sono state accettate nel consesso dell’opinione pubblica, fatte patrimonio di una decostruzione anticivica, di un imbarbarimento esponenziale dei rapporti tra noi e le istituzioni stesse.

Tanto si è ridicolizzata la proporzionalità del consenso dato e ricevuto che oggi non siamo quasi più in grado di parlare seriamente di una legge elettorale da affidare alle norme costituzionali, da inserire nella Carta del 1948 come pilastro dell’equipollenza; ancora di più se questa legge riportasse alle modalità di elezione del Parlamento così come avvenuto fino alla fine della cosiddetta “prima repubblica“, fino a quel calare del sipario sul Pentapartito, sul potere democristiano e craxiano (ché definirlo “socialista” sarebbe altamente inopportuno e storicamente revisionante).

Per innervare la Repubblica di quella modernità interattiva tra cittadini e potere, di quel connubio ritrovato ma gestito soltanto dall’alto con la partecipazione spettatrice dal basso, non si pensa – giustamente – ai modelli che avevano dato seguito ad un progressivo sostanziamento della democrazia e ad un rispetto reciproco anche tra collerici avversari.

E giustamente. Questa del melonismo, diventa l’epoca della instaurazione di un compromesso di maggioranza tra le spinte autonomiste (ex indipendentiste) della Lega e la smania presidenzialista di ex missini che hanno bisogno, oltre che di soddisfare le esigenze della classe imprenditoriale riguardo al rapporto con lo Stato, anche di assecondare un bisogno di rivincita storica sulla Repubblica democratica, parlamentare, resistenziale e antifascista.

Tutto si inserisce nel solco di una narrazione pluridecennale che ci parla della necessità di un aggiornamento costituzionale che riguardi, essenzialmente, l’amministrazione dello Stato. Come se da questa non dipendesse la garanzia dell’egualitarismo declinato in ogni sua forma e sostanza. Come se le parti della Carta fondamentale della Repubblica si potessero separare e ciascuna potesse vivere di vita propria, indipendentemente dall’altra.

E’ ovvio che un regionalismo calderoliano esasperato, chiamato anche “autonomia differenziata” (che, per l’appunto, differenzia non per favorire una mutualità e una consociazione di diritti e di aspettative, ma per esaltare quelle peculiarità delle regioni più ricche a discapito di quelle povere e meno avvantaggiate), potrebbe trovare spazio solamente in uno Stato non bilanciato nei suoi rapporti tra centro e territori, tra Paese e regioni, centralismo limitato e localismo portato alle estreme conseguenze.

In una deformazione costituzionale che abbia connaturata in sé l’improntitudine della diversità come elemento dissociativo e discriminante, le specificità territoriali sarebbero maggiori opportunità per chi ha già il vento in poppa, mentre sarebbero una penalizzazione per chi deve recuperare terreno. Il (semi)presidenzialismo cui mira la maggioranza di governo calza a pennello in questa disarmonia tra Stato e regioni, tra Repubblica e inegualità tra cittadini stessi.

Il bisogno di un governo forte è un pretesto per garantire a maggioranze instabili un cammino che non sia turbato dalle vellità democratiche, da quel primordiale bisogno di congiunzione tra le tante differenze del Paese, tra i tanti rispetti che la Repubblica deve, dovrebbe e dovrà alle particolarità di ciascuno, alle esigenze di tutti. La scissione che si cerca di operare è, prima di ogni altra cosa, tra fiducia politica e bisogno sociale, tra diritti e doveri, tra comprimarietà apparente nella partecipazione formale al voto e partecipazione vera ad un continuo processo di inclusione nelle faccende pubbliche.

Il Presidente della Repubblica a capo di un governo, oppure il Presidente del Consiglio con maggiori poteri non risolveranno i problemi storici di questo nostro Paese. L’Italia, per la sua origine politico-amministrativa, ha bisogno di una unità popolare, di una socialità che si esprima nella reciprocità e non nella suddivisione regionalista che guardi al particolare, perdendo di vista un interesse veramente nazionale.

I primi nemici della Nazione sono proprio i nazionalisti stessi. I primi avversari della democrazia sono quei liberali moderni che si capacitano di mettere insieme Stato e liberismo: proprio come teorizzatto negli anni ’70, quando questa nuova evoluzione capitalistica globale stava emergendo e necessitava di un esercitare un controllo fermo degli apparati di governo. Cosa ci possiamo attendere dalla sfilata delle opposizioni alla corte di Giorgia Meloni? Dei cahiers de doléances? Delle controproposte innovative?

La Presidente del Consiglio ha fatto sapere che non accetterà sulle sue riforme costituzionali alcun “Aventino“. Richiamo quanto meno infelice ad un momento storico in cui gli antifascisti, o comunque i critici ed oppositori del regime mussoliniano, si astrassero dal lavoro parlamentare per scongiurare un sovraordinamento di una dittatura crescente. Per molte ragioni, anche tanto diverse fra loro, per altrettante coincidenze infauste, la protesta non prese la piega voluta e fallì.

Aventinizzarsi oggi non avrebbe senso e si correrebbe, comunque, il rischio di una ripetizione di antichi errori. Davanti al pericolo di una torsione autoritaria, di una deformazione della Costituzione in questo senso, di una subordinazione della Repubblica ad un insieme di disvalori disegualizzanti, la soluzione non è allontanarsi dalla partecipazione, ma organizzarsi per far cadere questo governo e sostituirlo con uno che sia nominato secondo le regole e non “eletto” come comunemente ormai si recita in televisione o su Internet in ogni occasione di abile disinformazione.

La soluzione non è nemmeno quella di pensare di condividere con le destre una riforma (semi)presidenzialista dello Stato. Sarebbe peggio dell’Aventino del nuovo millennio. Invece di dialogare con la maggioranza, di aprirle praterie di credito, come della parti del centro renziano e calendiano, sarebbe opportuno fare massa critica, fare l’unità delle opposizioni e contrastare qualunque tentativo di sovvertimento della Repubblica parlamentare, bicamerale, democratica e antifascista.  Quattro aggettivi. Se ne salta uno, possono saltare tutti.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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