Fabrizio Casari
Riuniti a Hiroshima in un vertice autoreferenziale, i cosiddetti grandi della terra, il cui metro di grandezza è il rispettivo debito, hanno affermato che il mondo continuerà ad andare come vogliono loro e nei tempi che vogliono loro. Non è mancata l’ennesima parata di Zelensky, con il solito abbigliamento e i simboli nazisti al braccio, la solita sicurezza nell’interpretazione del testo redatto dalla Casa Bianca e la solita telenovela intitolata “la controffensiva”.
Sull’Ucraina è stata lanciata una fatwa imperiale: niente negoziati, business per la ricostruzione, guerra a oltranza e nuove sanzioni, perché le migliaia passate finora non funzionano. Simbolicamente l’emissione del comunicato finale ha coinciso con l’annuncio ufficiale di Mosca della presa di Bakhmut, centro strategico per il controllo del Donbass.
Nuove sanzioni. Anche se solo 50 dei 193 Paesi della comunità internazionale applicano sanzioni contro Mosca, il G7 annuncia che ci saranno sanzioni anche per chi non le applica. Inutili i tentativi di coinvolgere India, Sudafrica e Brasile nell’operazione: pur non condividendo l’invasione dell’Ucraina, non ritengono necessario schierarsi contro la Russia, alla quale riconoscono delle ragioni. In ogni caso, non hanno alcuna intenzione di rallentare il loro sviluppo commerciale a favore dell’impero statunitense.
Se le sanzioni precedenti non hanno funzionato, le nuove sanzioni funzioneranno? No, i dati mostrano che i sanzionati sono le vittime finali delle sanzioni. I sanzionati, peraltro, hanno già adottato tutte le contromisure che hanno attutito l’impatto delle sanzioni, compensate dall’aumento delle entrate derivanti da nuove rotte commerciali e finanziarie. Il PIL della Russia nel 2022-2023 è cresciuto più della media dei PIL occidentali e il debito di Mosca è trascurabile rispetto a quello di Stati Uniti e Giappone, per non parlare di quello italiano, che ha raggiunto il 147% del PIL.
Credere che l’India, il Brasile o il Sudafrica, il Pakistan o l’Arabia Saudita possano decapitare le loro economie e genuflettersi a favore dell’impero abdicando al loro ruolo di potenze emergenti per sostenere la crociata russofoba, è frutto di analisi fantasiose nate da un ego collettivo ipertrofico ma ormai privo di qualsiasi realtà.
Ricostruzione dell’Ucraina? Fanno finta di discutere, ma saranno le aziende statunitensi a fare la parte del leone nei contratti, come in Iraq e in tutti i Paesi in cui gli Stati Uniti optano per la distruzione piuttosto che per una guerra chirurgica con un colpo di Stato. Questo è anche il motivo per cui la guerra continua: più distruzione c’è, più ricostruzione ci sarà e quindi più business, che nel gergo della Casa Bianca accompagna sempre i morti.
Più armi? In Ucraina ne sono arrivate più che in tutto il resto del mondo, senza che la posizione della Russia sul terreno arretrasse di un solo metro. Dopo i tank, la contraerea, i droni e i missili, ora è il turno degli F-16, i caccia della NATO che dovrebbero arrivare nelle mani degli ucraini. Nel frattempo, saranno addestrati i piloti. È sul piano politico, più che su quello militare, che la decisione è di notevole importanza, in quanto apre anche formalmente il confronto tra la NATO e la Russia, che potrebbe avere un impatto sulle scelte di fondo del Cremlino su come condurre il conflitto. Mosca ha già avvertito il G7 che “corre un rischio colossale”.
Negoziati diplomatici? No, cinesi, vaticani o africani che siano: una svolta diplomatica certificherebbe la sconfitta della banda nazista di Kiev e dei suoi sostenitori a Washington e Bruxelles. Ma la pace è un rischio enorme per il puzzle di Washington, che cerca una guerra permanente nel cuore dell’Europa per cercare di rovesciare il governo di Mosca. Persiste la convinzione che altre decine di migliaia di morti ucraini potrebbero favorire le condizioni interne e internazionali per un complotto di palazzo a Mosca che rovesci Putin in nome della cessazione della guerra. Una pia illusione, secondo tutti gli analisti internazionali esperti di Russia.
E la Cina? Stesso menu: minacce e sanzioni. Minacciata (dovrà astenersi dall’aiutare Mosca), ignorata (niente negoziati diplomatici) e convocata (avrà bisogno del suo denaro per ricostruire l’Ucraina). Così il Paese più popoloso del mondo, con la seconda economia del mondo, viene prima minacciato, poi ignorato, poi gli viene ordinato di pagare. Come se fosse il Canada o l’Australia, Pechino è ridotta al rango di una provincia, contro la quale, peraltro, tutto l’Occidente collettivo è unito nell’opporsi alla sua crescita economica e alla sua iniziativa politica.
E che la Cina sia il prossimo obiettivo è facile da intuire: a nessuno interessa Taiwan, se non altro per i semiconduttori che produce. Ma Taiwan è importante per il suo controllo militare del Mar della Cina e perché lo stesso G7 sta aspettando da anni di sapere quando l’economia cinese supererà quella statunitense, finora la più grande del mondo. Le previsioni vanno dal 2026 al 2037, ma la discussione verte proprio sul quando, non sul se.
Proprio per questo motivo, per mettere in discussione il se e non solo il quando, gli Stati Uniti hanno posto la loro sovranità assoluta su tutto l’Occidente come precondizione per fermare la minaccia cinese al dominio statunitense.
In attesa della prossima guerra che colpirà la Cina con il pretesto di Taiwan, la richiesta statunitense di una rottura commerciale e politica di tutta l’Europa, di Canada e Australia con Pechino, emerge come obiettivo a medio termine del G7. Almeno nelle intenzioni di Washington, che è costretta a frenare la sua furia solo di fronte all’opposizione dell’UE e dei suoi alleati, coinvolti in un rapporto molto profondo con il gigante asiatico.
Addio alla globalizzazione
Un incontro, quello di Hiroshima, da cui non è emersa alcuna idea se non la ripetizione ossessiva di precedenti vertici falliti. L’incapacità di vedere il mondo com’è e non come si vorrebbe che fosse, fa di questi incontri un momento di intrattenimento e non di analisi e proposte, una pausa pubblicitaria per salvaguardare ciò che resta del marchio.
Nato nel 1975 con l’obiettivo di monitorare l’omogeneità delle politiche economiche e della crescita dei Paesi occidentali e poi formalizzato nel 1986 come gruppo intergovernativo, il G7 avrebbe dovuto essere il forum di coordinamento delle politiche economiche mondiali. Ma non è stato così per almeno due decenni. Nessuna delle sette economie riunite a Hiroshima si trova più in un ciclo espansivo. Si muovono tra una crescita di pochi decimali e la stagflazione, anche se le (loro) agenzie di rating e i loro uffici contabili (FMI e BM), all’unisono, predicono storie fantastiche in cui l’Occidente vince e il resto del mondo perde, per poi svegliarsi e vedere la differenza tra la propaganda e i numeri reali.
Non sembrano avere chiara la quotidiana e inarrestabile perdita di efficacia delle ricette e la concretezza delle minacce che le accompagnano, dovuta al fatto che, ormai, la maggior parte della ricchezza prodotta su scala planetaria viene costruita da un numero sempre maggiore di Paesi non occidentali che non tengono conto dell’affievolirsi della leadership dell’Occidente.
Sono proprio i dati macro a certificare senza appello la malattia senile del modello a guida statunitense. Dal punto di vista demografico, il G7 rappresenta il 10% della popolazione mondiale. In termini di PIL, se fino al 1990 rappresentava il 66% del PIL mondiale, nel 2020 si è già ridotto al 46%. Lo stesso vale per il commercio dei membri del G7: nel 1990 rappresentava il 52% del commercio mondiale, nel 2020 scenderà al 30%.
Oggi, dei 102 trilioni di dollari di PIL mondiale previsti per il 2023, solo 45 trilioni di dollari saranno prodotti dai Paesi del G7, che, pur rappresentando oggi non più del 40-45% del PIL mondiale e non certo la totalità, sono tornati a essere il centro delle decisioni economiche e politiche a trazione occidentale e a devozione americana.
Gli enormi problemi legati alla trasformazione del ciclo produttivo in Occidente e alla crescita delle economie emergenti, la necessità di riposizionare merci, capitali e persone, l’urgenza di ridurre il debito del Sud globale, la terrificante liquidità cinese immessa nei mercati, che fanno di Pechino il maggior prestatore di ultima istanza, rendono marginale il ruolo delle organizzazioni finanziarie internazionali, l’emergenza climatica e la sostanziale inadeguatezza del dollaro, la moneta del 25% del PIL che pretende di comandare il restante 75%, l’inarrestabile ascesa degli accordi regionali nei cinque continenti che di fatto scavalcano le decisioni del G7, sono solo alcune delle questioni che dovrebbero preoccupare il club dei vassalli che si sentono feudatari, ma che preferiscono ignorare.
Quello che ha preso vita a Hiroshima è un G7 pienamente politico-militare, una versione del capitalismo di fine globalizzazione che presuppone l’accentramento forzato delle diverse esigenze dei Paesi membri per ricondurli a una disciplina dottrinaria che vede gli Stati Uniti a capo del mondo e l’aggressione politica, economica e militare contro chiunque prefiguri l’autonomia e il governo condiviso del pianeta.
Proprio ad Hiroshima, dove l’umanità ha vissuto il volto terribile della modernità, ci sarebbe stata l’occasione per parole di pace e per un riequilibrio delle disuguaglianze planetarie. Dal Sudafrica, dove a fine Agosto si riuniranno i BRICS, arriverà la risposta ad un G7 arrogante ed insufficiente. Per il momento, nel luogo in cui sono morte la decenza e la pietà, diventato simbolo dei crimini americani contro le popolazioni civili, proprio lì, dove l’impero del Sol Levante ha finito i suoi giorni, è ufficialmente nato l’impero calante.
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