L’esito degli ultimi scontri a Gaza pare segnalare la tenuta di un fronte unito della resistenza palestinese, preoccupando un Governo israeliano sempre più spostato su posizioni estreme, col rischio di un allargamento del conflitto su più fronti.

di Romana Rubeo* – Centro per la Riforma dello Stato

Sono almeno 156 i palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno da Israele. Tra questi, le 33 vittime dell’ultima offensiva militare contro la Striscia di Gaza, partita il 9 maggio, durata quattro giorni e chiusa, almeno per il momento, con un cessate il fuoco mediato dal solito Egitto.

Nella serata di sabato 13, dopo l’annuncio della tregua, migliaia di palestinesi si sono riversati nelle strade, non solo a Gaza, ma anche nei campi profughi dell’area di Nablus e Jenin, per festeggiare quella che viene, a tutti gli effetti, percepita dai palestinesi come una vittoria.

Dal canto suo, la politica israeliana ha parlato, senza troppa enfasi a dire il vero, di successo militare e di annientamento dei gradi più alti delle Brigate di Al-Quds, braccio armato del gruppo di resistenza che fa capo al Jihad Islamico in Palestina (JIP).

Che vi siano due narrazioni opposte e inconciliabili è fatto del tutto naturale in ogni confronto armato.

Sono evidenti, tuttavia, dei segnali che parlano di un cambiamento significativo, che riduce notevolmente lo spazio di manovra per Israele, a partire dalla possibilità di fare ricorso alle guerre contro la Striscia di Gaza come strumento per uscire, automaticamente, dalle crisi politiche interne.

Nomina sunt consequentia rerum

Dopo la firma degli Accordi di Oslo, Israele e i suoi alleati credevano di aver sopito definitivamente la spinta rivoluzionaria del popolo palestinese.

L’istituzione di un apparato parastatale come l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) andava esattamente in quella direzione, soppiantando, neanche troppo gradualmente, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Nomina sunt consequentia rerum. Da una istituzione che mirava alla ‘liberazione’ e dunque al compimento delle ambizioni nazionali di un popolo a un organismo che agiva da stato, pur in assenza dello Stato. Un organismo, l’ANP, che normalizzava, per molti versi, l’occupazione; e che si impegnava addirittura a mettere il proprio braccio armato non già a servizio della lotta di liberazione nazionale ma in un ambito di “cooperazione per la sicurezza” con la forza occupante.

Questo nuovo scenario ha avuto l’effetto immediato di dividere il popolo palestinese. Come spiega l’intellettuale palestinese Ramzy Baroud: “I palestinesi vengono divisi in due campi, gli ‘estremisti’ e i ‘moderati’”. In altre parole, si andavano a marginalizzare i palestinesi che erano ancora dediti alla muqawama (resistenza), bollandoli come ‘estremisti’; e si legittimavano formalmente coloro che erano disposti a deporre le armi, salvo poi continuare a lamentare, da parte israeliana, l’impossibilità di un dialogo con un partner credibile.

Se la Seconda Intifada era un primo, spontaneo tentativo di ribellarsi a questa nuova situazione, è indubbio che la spaccatura fosse ormai evidente. Su un piano politico e teorico, con l’esasperazione del fazionalismo; su un piano geografico, con la distinzione sempre più netta tra la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza.

A partire dal 2006, poi, anno delle ultime elezioni presidenziali e politiche in Palestina, il divario sembra farsi incolmabile. Nelle elezioni legislative del 25 gennaio, l’ampia vittoria di Hamas (76 seggi contro i 43 di Fatah) non viene riconosciuta dal Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e da quel momento, Fatah resta al potere in Cisgiordania mentre Hamas prende il controllo sulla Striscia di Gaza, su cui, l’anno successivo, vengono imposti un rigido blocco e un totale embargo.

Questa situazione andava, come è evidente, a tutto vantaggio di Israele, che da sempre, come ogni potenza coloniale, aveva operato basandosi sul principio del divide et impera.

La Muqawama, la Resistenza palestinese, era ormai, nella narrazione comune, un fenomeno limitato a Gaza, tutto in capo alle forze islamiste, e dunque facilmente identificabile come “terrorismo islamico”, in un occidente che sembrava imbarcarsi nella nuova crociata dello scontro di civiltà.

Falciare il prato’

È in questo contesto che può svilupparsi una dottrina dai postulati agghiaccianti, che viene però veicolata senza alcun imbarazzo dagli analisti israeliani o più vicini a Israele: quella che vede la necessità, per Tel Aviv, di “falciare regolarmente il prato”.

“È come falciare il prato, è un lavoro duro e costante,” scrive ad esempio David M. Weinberg, del Jerusalem Institute for Strategy and Security sul Jerusalem Post, nel maggio del 2021. “Se non lo fai, le erbacce crescono e i serpenti si annidano tra le siepi”.

Con “lavoro duro e costante”, Weinberg fa riferimento alle operazioni reiterate e sanguinose che Israele conduce sulla Striscia di Gaza e che comportano enormi perdite di civili, tra cui moltissimi bambini; le “erbacce tra cui si annidano i serpenti” sono invece, semplicemente, i palestinesi, che osano resistere a una forza occupante che viola il diritto internazionale sin dal momento della sua fondazione.

Come queste parole possano essere accolte senza un’ondata di sdegno e disgusto dall’opinione pubblica e dalla nostra stampa è un discorso diverso, tutto attinente a quell’eccezionalismo israeliano che ha radici profonde nell’attuale assetto geopolitico internazionale.

Quello che, però, rileva in questa sede è l’analisi della dottrina che si accompagna a tale metafora: quella della capacità di “deterrenza” da parte di Tel Aviv.

La strategia delle deterrenza è cruciale sin dagli albori del sionismo. Sviluppata da uno dei primi ideologi del movimento sionista, Ze’ev Jabotinsky, viene completamente abbracciata da David Ben-Gurion, padre fondatore di Israele e primo capo dell’esecutivo.

A partire dal 2008, quindi immediatamente dopo l’imposizione del blocco sulla Striscia, la strategia della deterrenza si esplica soprattutto in continue operazioni militari ai danni di Gaza, tese a creare uno stato di minaccia latente, e dunque a impedire al ‘nemico’, la Resistenza palestinese, di condurre operazioni che possano mettere a rischio la ‘sicurezza’ del Paese.

L’Operazione cosiddetta Piombo Fuso, nel 2008, uccide 1.400 palestinesi, in massima parte civili. Un rapporto delle Nazioni Unite, oltre a indagini di organizzazioni internazionali per i diritti umani, trovano prove evidenti di crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano. Oltre ai bombardamenti dal cielo, Israele procede a una letale invasione da terra. Dopo 24 ore dall’inizio delle ostilità, già 230 palestinesi erano stati uccisi. Intere famiglie furono letteralmente spazzate via, e fu addirittura dimostrato l’uso di armi al fosforo bianco in zone densamente popolate e contro due ospedali.

In quel caso, il grado di capacità di difesa da parte della Resistenza, rappresentata per lo più da Hamas, fu praticamente nullo. Israele diede una dimostrazione di forza decisa e apparentemente definitiva, riportando notevoli risultati presso il proprio elettorato sul piano politico interno.

Tra l’altro, Israele si è sentito a lungo inattaccabile grazie anche alla tecnologia antimissilistica, e principalmente all’Iron Dome, che sembrava conferirgli un ampio margine di deterrenza, garantendo la sicurezza della propria popolazione mentre l’esercito trucidava palestinesi a Gaza.

Ma negli anni, la situazione è cambiata. Già nella guerra del 2014, pure molto sanguinosa per la popolazione palestinese, l’invasione da terra aveva portato alla prigionia di due soldati e due presunti civili israeliani, con notevoli ripercussioni nell’opinione pubblica interna.

Parallelamente, la capacità militare della Resistenza si è poi notevolmente ampliata nel corso del tempo. Se il Qassam 1, primo razzo lanciato circa vent’anni fa, aveva un raggio di pochissimi chilometri, nel 2021, le Izz-ed din Al Qassam, braccio armato di Hamas, hanno impiegato l’Ayash 250, che ha colpito l’aeroporto di Ramon, ai confini con la Giordania, a ben 220 chilometri da Gaza.

Una rinnovata unità

È proprio il maggio 2021 che segna un punto di svolta. All’operazione militare di Israele, denominata Guardiano delle Mura, la Resistenza palestinese risponde in modo unitario, con un’operazione definita ‘Spada di Gerusalemme’.

La potenza di fuoco dimostrata in quell’occasione ha colto di sorpresa Tel Aviv. Anche gli analisti militari più vicini all’Israeli Defense Army hanno ammesso che, a lungo termine, la strategia della Resistenza determina necessariamente una riduzione delle alternative in campo per Tel Aviv.

Scrivendo sul sito del Washington Institute for Near East Policy nel giugno del 2021, ad esempio, l’analista militare israeliano Assaf Orion ammette che “il lancio di razzi massiccio e continuato… avrebbe velocemente neutralizzato la capacità di intercettazione del sistema missilistico, con notevoli perdite in termini di popolazione e infrastrutture”.

Le vittime tra la popolazione palestinese sono moltissime: oltre 260 nel giro di 11 giorni. Ma è lo stesso Benny Gantz, ex capo delle forze armate israeliane e ora tra i leader politici dell’opposizione, a dichiarare a Canale 13 che l’intenso lancio di razzi e il coinvolgimento nella Resistenza dei cittadini arabi di Israele “hanno lasciato una ferita aperta nella memoria del Paese.”

Con questa dichiarazione a caldo, Gantz sembra cogliere perfettamente il punto militare e politico di quel cambiamento: da una parte, la capacità di deterrenza tattica sembra essersi spostata nelle mani del fronte unitario della Resistenza; dall’altra, l’unitarietà non è stata solo quella delle armi.

Nel maggio del 2021, infatti, sono i palestinesi tutti, da Sheikh Jarrah a Ramallah, da Gaza ai campi profughi del Libano, a sollevarsi con manifestazioni, scioperi, proteste, a sostegno della Resistenza di Gaza e del popolo palestinese. È, per certi versi, un ritorno alla Muqawama, un superamento fattuale della fase di stallo di Oslo e dei balbettii della ANP. Per quanto il rovesciamento della situazione politico-istituzionale palestinese non sia stato immediato, qualcosa è cambiato in modo definitivo.

Guerre lampo isolate

Sull’onda di quella che, dal popolo palestinese, viene percepita come una prima vittoria, dopo il maggio 2021 torna prepotente lo strumento della lotta armata per conseguire l’obiettivo della liberazione anche al di fuori della Striscia di Gaza.

Nei campi profughi della Cisgiordania, e particolarmente a Nablus e a Jenin, nasce una nuova generazione di combattenti palestinesi, intenzionati a superarare il fazionalismo paralizzante della politica e ad agire trasversamente per un obiettivo comune.

A questo movimento forte e deciso, Israele risponde sul piano politico partendo sempre da assunti militari. Decide cioè di procedere a mini operazioni lampo, molto definite sul piano geografico e rivolte non al fronte unitario della Resistenza o ad Hamas – che ne costituisce la forza principale – ma solo a un gruppo isolato alla volta.

È in questa chiave che va letta l’operazione diretta esclusivamente contro il Jihad Islamico palestinese nell’agosto del 2022. In quell’occasione, Hamas decise di non intervenire e questo fu letto da molti come una nuova spaccatura nel fronte unitario della Resistenza palestinese.

Tuttavia, le ragioni di questo parziale immobilismo vanno ricercate nella dottrina che ispira già da qualche anno le azioni di Hamas e del fronte della Resistenza: la volontà di non lasciare a Israele la possibilità di dettare, da solo, le tempistiche del conflitto, e di annunciare vittoria con toni trionfalistici solo per guadagnare terreno sul fronte interno.

In questo quadro, la risposta della Resistenza palestinese, ormai unita nella cosiddetta Sala delle Operazioni – che include forze di matrice sia islamista sia socialista – deve essere ragionata e non emotiva. Questa dottrina si è esplicitata anche nell’attesa, lunga ben 35 ore, di una risposta all’operazione israeliana “Scudo e freccia”, avviata il 9 maggio scorso.

Sebbene il Jihad Islamico sia stato alla guida dell’operazione di risposta, denominata “Vendicare il popolo libero”, più volte è stata ribadita l’unitarietà nelle decisioni e nelle azioni.

Mentre Hamas confermava la piena assistenza logistico-militare, il portavoce delle Brigate di Al-Quds, Abu Hamza, ringraziava la Sala Comune delle Operazioni e soprattutto le brigate Izz ad-Din-Al Qassam, sostenendo che il tentativo di isolamento da parte del “nemico” israeliano non fosse andato a buon fine.

Il fatto che, da solo, il Jihad Islamico abbia avuto in questa occasione una capacità di risposta ben più decisiva che in passato; e il fatto che Hamas, ben più organizzato e con un armamento di gran lunga più potente, si sia riservato di intervenire solo qualora necessario, ha fornito al fronte palestinese proprio quella capacità di ‘deterrenza’ che Israele sembra aver perduto.

Le alternative possibili

Come deve muoversi Israele ora, soprattutto tenendo a mente l’attuale composizione del Governo? Il premier israeliano Benjamin Netanyahu non è mai stato più limitato nella capacità di azione politica.

Da una parte, i processi che pendono come una spada di Damocle sul suo futuro e che gli impongono di mantenere una tenuta di coalizione. Dall’altra, gli alleati dell’estrema destra ultranazionalista, veri protagonisti di questa stagione politica, che rendono le condizioni oggettive per la tenuta del Governo molto difficili.

Ministri come Itamar Ben-Gvir, Bezalel Smotrich e Orit Stroke avanzano richieste che hanno più a che fare con la loro becera propaganda razzista che non con una analisi del reale. Domandano, per esempio, a gran voce di invadere Gaza e di annetterla a Israele, ma come spiegato da Anchal Vohra sul Foreign Policy, si tratta di minacce vuote e irrealizzabili.

Resta allora da colpire la Cisgiordania, nel tentativo di domare la nuova armata di Resistenza. Tuttavia, se è vero che le perdite tra i palestinesi sono ingenti, è altrettanto vero che le operazioni di respingimento e assalto ai checkpoint, nei campi profughi e in prossimità degli insediamenti coloniali illegali hanno creato, negli ultimi mesi, una situazione incandescente. Premere troppo su quell’acceleratore potrebbe determinare una nuova, compiuta Intifada, che andrebbe ad aggiungersi come un secondo fronte alle preoccupazioni di Tel Aviv sulla “sicurezza”.

Non va dimenticato, poi, che il fronte potrebbe ulteriormente espandersi, soprattutto nelle mutate condizioni geopolitiche che caratterizzano una nuova stagione in Medio Oriente.

Dopo l’accordo a mediazione cinese tra Iran e Arabia Saudita, infatti, l’estrema polarizzazione che aveva garantito un certo margine di tranquillità a Israele con i cosiddetti Accordi di Abramo sembra sfumata. Anche la riammissione della Siria agli incontri della Lega Araba va a testimoniare un cambiamento rapido e significativo dello scenario regionale.

È in questo contesto che vanno letti i timori di Tel Aviv verso eventuali operazioni da parte dei suoi ‘vicini’. Subito dopo l’attacco indiscriminato dell’esercito israeliano contro i fedeli raccolti in preghiera nella moschea di Al Aqsa, nello scorso mese di aprile, una pioggia di razzi è arrivata su territorio israeliano sia dal sud del Libano, con il placet del gruppo filo-iraniano Hezbollah, sia dalla Siria.

Anche in occasione dell’ultima aggressione su Gaza, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, non ha esitato a lodare la resistenza del gruppo del Jihad Islamico – peraltro da sempre vicino alla sfera filo-iraniana – e a promettere assistenza in caso di necessità. In questi giorni, poi, si sta svolgendo un’esercitazione militare nella regione libanese mediorentale che preoccupa non poco Netanyahu e il suo governo. D’altra parte, il nome dato all’operazione – Sana’bur, letteralmente “(Presto) attraverseremo” – non deve apparire rassicurante agli occhi di Israele.

In conclusione, se le scelte politiche obbligate a livello interno vanno, sempre più, nella direzione di un esasperato estremismo, le condizioni esterne potrebbero determinare una situazione di conflitto su più fronti, sempre più difficile da gestire per Tel Aviv.

*Romana Rubeo è caporedattrice del “The Palestine Chronicle”. I suoi articoli appaiono in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata 

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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