In Occidente, nessuno, specialmente negli Stati Uniti, presta particolare attenzione al fatto che una rete di circa 800 basi militari americane sia stata stesa su ogni paese e continente della terra. Ce ne sono 172 nella sola Germania, 113 in Giappone, 83 in Corea del Sud, e altre ancora altrove, in 80 paesi tra i quali Australia, Bulgaria, Colombia, Qatar, Kosovo e Kenya. Ma i principali media occidentali si sono coalizzati per richiamare l’attenzione sulla nave da guerra cinese che di recente è partita dal porto militare di Zhanjiang, diretta verso il Gibuti per aiutare a istituire la prima base militare all’estero di Pechino.
L’agenzia stampa Reuters con base a Londra riferisce [in Inglese] che la comparsa di questa base militare cinese nel Corno d’Africa è già una fonte di grande preoccupazione per l’India, che teme che diventerà “un’altra componente della “fila di perle” di alleanze militari e possedimenti della Cina che circondano l’India, e che includono Bangladesh, Myanmar e Sri Lanka”.
Ma le basi militari non si materializzano all’improvviso sulle mappe senza il consenso del paese ospitante. Pechino e Gibuti hanno svolto un dialogo amichevole e di buon vicinato per diversi anni, secondo “l’interesse comune dei popoli di entrambe le parti”, e sotto questi auspici la Cina ha accettato di costruire una base navale per sostenere le sue navi militari che solcano sempre di più i mari del mondo. La descrizione ufficiale spiega che “la base garantirà l’esito delle missioni della Cina, come la scorta, il mantenimento della pace e gli aiuti umanitari in Africa e in Asia occidentale”.
Tuttavia, questo non è un elenco esaustivo delle missioni che la base navale cinese in Gibuti intraprenderà. Naturalmente i suoi compiti prioritari saranno le missioni militari della Repubblica Popolare Cinese, tra cui la cooperazione militare e le esercitazioni congiunte. La base difenderà gli interessi della Cina all’estero e garantirà la sicurezza delle sue vie strategiche internazionali.
L’agenzia di stampa britannica ha citato l’affermazione del People’s Liberation Army Daily secondo la quale l’impianto “aumenterà la capacità della Cina di garantire la pace globale, specialmente per via del fatto che ha schierato molti militari delle Nazioni Unite in Africa, ed è stata molto coinvolta nei pattugliamenti anti-pirateria”. Questo è in realtà un dettaglio interessante: la ricalibrazione delle zone d’influenza in Africa ha generato una serie di conflitti sanguinosi, i cui beneficiari sono stati tradizionalmente Francia, Regno Unito e Stati Uniti. La Cina in Africa è il nuovo arrivato nel quartiere, ma negli ultimi dieci anni si è già ambientata nel mercato africano, grazie ai suoi beni e servizi offerti a buon mercato, eliminando la Gran Bretagna e indebolendo significativamente la posizione della Francia. Tuttavia gli Stati Uniti stanno ancora esportando minerali e altre risorse dal continente africano.
Negli ultimi anni la Cina ha superato la Francia nella ricerca di risorse africane, e sta guadagnando terreno sugli Stati Uniti, rafforzando un conflitto di interessi che darà forma al futuro di tutta la regione africana. Non è stato un caso che non appena la Cina ha stabilito una presenza palpabile in Africa, gli Stati Uniti hanno creato il comando militare AFRICOM, nel 2008. Con un contingente fisso di marinai, la base militare è in grado di intraprendere missioni in qualsiasi paese africano. Ma ora il lavoro principale dell’AFRICOM è quello di addestrare gli eserciti africani in Etiopia, Sudan (Darfur), Uganda, Ruanda, Congo, Seychelles, Mali, Niger, Senegal, Nigeria, Liberia, Camerun, Gabon, Kenya, Sudafrica e Tanzania. Sin dall’inizio, quegli eserciti sono stati obbligati ad essere alleati degli Stati Uniti. Inoltre, a questo elenco dovrebbero essere aggiunte le compagnie militari private (PMC) come Protection Strategies Inc., DynCorp International, AECOM e Pacific Architects and Engineers, incaricate di contrastare sia la minaccia agli interessi americani che l’Islam radicale, così come, cosa abbastanza comprensibile, la crescente influenza della Cina in Africa.
Ma non sarà così facile strappare l’Africa agli Yankee a questo punto…
I precedenti in Afghanistan, Iraq, Libia, Somalia, Yemen e Siria – rispetto a quanto illustrato nel Libro Bianco della Cina, che descrive dettagliatamente “la politica cinese in Africa” – sono troppo disastrosi perché i leader dei paesi africani li trascurino. La Cina non bada a spese per promuovere i suoi interessi economici, ha investito grandi somme non solo nella costruzione di impianti produttivi, ma anche per migliorare le infrastrutture dei propri partner. E nel frattempo, nessuno a Pechino chiede di rispettare i diritti umani, la democratizzazione o l’ambiente, perché per i Cinesi le solite critiche riscontrate nel repertorio dell’Occidente non contano nulla. Alcuni ritengono che la stessa “Primavera araba” sia stata incoraggiata dagli Americani per via della loro crescente rivalità con la Cina nella regione. Tutti ricordano che il più grande sostenitore dell’operazione militare contro la Libia nel marzo 2011 fu la Francia, per accedere ai giacimenti libici di petrolio e gas che potevano essere sfruttati, e anche per essere libera di promuovere le merci prodotte dal suo complesso militare-industriale sul mercato africano.
Ma quanto conta un piccolo paese di 750.000 abitanti che vivono tra il Golfo di Aden e il deserto, rispetto ad una collisione globale tra gli interessi di Pechino e l’Occidente? Una possibile risposta lo suggerisce: all’interno dei 24.000 chilometri quadrati della nazione del Gibuti ci sono quattro – e adesso cinque! basi militari. La base statunitense è la più grande dell’Africa, in più ci sono basi appartenenti all’Italia, al Giappone, alla Francia e adesso – alla Cina. Gibuti è una città portuale allo sbocco del Mar Rosso, ed è la porta del canale di Suez. Attraverso essa passa tutto il traffico da e per Suez e la metà delle esportazioni provenienti dall’Etiopia. Assieme alla sua zona di libero scambio, Gibuti ha un grande interesse economico, ma la cosa più importante è la sua capacità di accogliere navi da guerra statunitensi grandi come gli incrociatori e di fornire loro carburante, acqua e cibo.
Gli Americani sono stati i primi a posizionare le proprie guardie davanti a questa “via d’accesso”, attraverso la quale transitano circa 17.000 navi e circa un miliardo di tonnellate di merci ogni anno (dati del 2015). Ovviamente non sono interessati ad avere nuovi vicini cinesi, e anche se la Cina attualmente vanta solo una base navale contro le loro 800, questa è comunque una vittoria per Pechino. La versione cinese della conquista dell’Africa ha una probabilità molto migliore di successo nel Gibuti, che ha un PIL pro capite di meno di 3.000 dollari l’anno (che lo mette al 167º posto) e dove metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. E anche se le portaerei cinesi Liaoning e Shandong (che è stata varata e sta venendo preparata per il servizio attivo) non sono in grado di entrare nel porto di Gibuti a causa delle loro dimensioni, la prima base navale all’estero della Cina rappresenta una pietra miliare nell’espansione geopolitica di Pechino .
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Articolo di Elena Pustovoitova pubblicato su Strategic Culture il 28 luglio 2017.
Traduzione in Italiano a cura di Raffaele Ucci per SakerItalia.
[le note in questo formato sono del traduttore]