Signora mia, non ci sono più le mezze stagioni. Non so se esistano delle statistiche in proposito, ma immagino che le condizioni del tempo siano uno degli argomenti di cui parliamo più frequentemente. E ne parliamo inutilmente. Sono passati molti anni da quando il colonnello Bernacca era il solo che poteva dirci se il giorno successivo ci sarebbe stato il sole o la pioggia e in un angolo delle nostre cucine stava appeso, sostanzialmente ignorato, il barometro. E siamo vissuti in famiglie che, seppure inurbate e impiegate per lo più nell’industria e nei servizi, ricordavano bene cos’era la vita delle campagne e quanto questa dipendesse dalle condizioni climatiche, e proprio per questo avevano rispetto per i suoi cambiamenti. Adesso ci sono canali televisivi dedicati esclusivamente alla meteorologia, dal telefono consultiamo di continuo i siti specializzati, e ci sentiamo tutti un po’ esperti. E i nostri discorsi sono spesso dedicati alle condizioni del tempo. Inutilmente. Perché poi quando piove – non piove più come una volta, adesso fa solo disastri – continuiamo a inanellare le solite desolanti banalità.
E anche quando la pioggia provoca alluvioni e inondazioni, ne parliamo moltissimo, i siti di informazione dedicano gran parte delle loro homepage al disastro, i giornali e le televisioni mandano i loro inviati nelle zone colpite, viviamo minuto per minuto quei tragici avvenimenti, magari appassionandoci a qualche storia particolarmente commovente, tipo il cane che salva il padrone o il bambino estratto vivo dalle macerie dall’eroico pompiere. A dire la verità non ne parliamo sempre con tanta dovizia di particolari. Se un uragano devasta il Texas provocando la morte di trentotto persone sappiamo praticamente tutto, quell’uragano ha un nome e ogni ora c’è un aggiornamento delle notizie, ma delle piogge monsoniche, assolutamente anonime, che da settimane devastano ampie zone dell’India, dallo stato del Bihar a est alla regione di Mumbai a ovest, non sappiamo praticamente nulla. I morti in quel paese sono stati più di milleduecento – e il bilancio, mentre io scrivo e voi leggete, è destinato a crescere – e i danni sono al momento difficili da quantificare, anche se probabilmente molto ingenti, visto che sono coinvolte più di quaranta milioni di persone: tra gli altri edifici, sono state distrutte moltissime scuole, e quindi per centinaia di migliaia di bambine e bambini indiani c’è il rischio concreto di perdere il diritto all’istruzione. Anche nello Yemen in questi giorni ci sono state delle violente alluvioni, ma non sappiamo nemmeno dove sia lo Yemen, figurarsi se ci importa qualcosa delle vittime.
Comunque anche quando ne parliamo, i nostri discorsi sono assolutamente inutili, come quelli che facciamo la mattina al bar per lamentarci del troppo caldo o della troppa pioggia. Perché parliamo tanto di pioggia, ma il nostro unico problema è sapere se domenica prossima pioverà, perché abbiamo in programma di rinchiuderci in un centro commerciale – e quindi è assolutamente ininfluente conoscere che tempo farà – o decidere se prendere l’ombrello per andare, ovviamente in auto, a prendere nostro figlio all’uscita di scuola. Invece queste piogge così devastanti, così violente, indipendentemente da dove cadono, sono un nostro problema, perché sono il sintomo che il nostro pianeta è malato, che la natura non funziona come dovrebbe, essenzialmente per colpa nostra, perché abbiamo dimenticato che la nostra vita, in quanto animali tra gli animali, è regolata dal ritmo delle stagioni.
Il problema è che noi rifiutiamo di considerarci animali e quindi dipendenti dai ritmi del giorno e della notte, dell’estate e dell’inverno, pensiamo che sia nostro diritto fare ogni cosa sempre, in qualunque ora e in qualunque stagione. E questo richiede una quantità incredibile di energia, che la natura non è in grado di sostenere, richiede una quantità inimmaginabile di risorse, che la natura non è in grado di ricreare seguendo i ritmi con cui la consumiamo. E di questo non parliamo mai, perché riflettere davvero sui cambiamenti climatici vorrebbe dire mettere in crisi il nostro modo di vivere, che però non è evidentemente più sostenibile. Non ne parliamo perché rinunciare a tutto quello che abbiamo raggiunto grazie alla scienza e alla tecnologia significa minare la ricchezza di chi sfrutta le risorse ambientale, di chi inquina, di chi stupra ogni giorno la natura per i propri guadagni.
So bene che nessuno di noi potrebbe rinunciare a vivere in case in cui c’è l’energia elettrica, l’acqua corrente, il gas, anche se dovremmo interrogarci su come usiamo queste risorse e quante ne sprechiamo, e anzi che dovremmo lottare affinché tutte le famiglie che adesso non godono di tutto questo lo possano fare, nel più breve tempo possibile. Pensate al paradosso: adesso pochissimi godiamo di questi benefici, eppure questi nostri consumi sono già in grado di distruggere il pianeta; cosa potrebbe succedere quando tutti, ma proprio tutti – come noi auspichiamo – ne godranno? Il momento culminante del nostro sviluppo sociale, il momento in cui potremmo dire che noi progressisti abbiamo vinto, segnerebbe la distruzione immediata del pianeta. E noi non ne parliamo, al massimo controlliamo sui nostri smartphone quando smetterà di piovere. Ma forse non smetterà più.

 

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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