E se tutto quello che dalla fine di Agosto è successo negli Stati Uniti fosse successo in Europa? E se un paese dalla storia “rivoluzionaria” come la Francia fosse chiamato a fare i conti con un’ipotetica statua del generale Lee? Fare i conti con la storia è da sempre un processo complesso e traumatico, a maggior ragione quando ci accorgiamo che le nostre strade sono piene di simboli e monumenti in onore dei “carnefici”.

di Lorenzo Carchini

Correva il 13 Maggio 1791 quando Robespierre, davanti all’Assemblea Nazionale, tenne un discorso dai toni particolarmente virulenti contro il mantenimento della schiavitù nelle colonie e le ex colonie: “Dès le moment où dans un de vos décrets, vous aurez prononcé le mot esclaves, vous aurez prononcé et votre propre déshonneur et le renversement de votre Constitution. […] Périssent les colonies, s’il doit vous en coûter votre bonheur, votre gloire, votre liberté. Je le répète: périssent les colonies et les colons s’ils veulent, par des menaces, nous forcer à décréter ce qui convient le plus à leurs intérêts.

Parole che si scontravano con la vasta indifferenza che i francesi provavano per la sorte degli schiavi nelle colonie di zucchero rancesi, ponendosi a fianco della Società degli amici dei neri e al club dei Giacobini, che si battevano per l’abolizione del commercio di schiavi e della schiavitù. Una Società che continuò la propria attività fino all’annuncio della soppressione, il 16 di Piovoso Anno II (il 4 Febbraio 1794). Non solo, ma (strano a dirsi) Robespierre fu anche tra i primi a parlare pubblicamente dell’abolizione della pena di morte (“Sur l’abolition de la peine de mort”, 30 Maggio 1791).

Eppure, girando per le strade di Parigi, non vi potrà capitare di imbattervi in una via o un boulevard dedicato al leader giacobino, nonostante le ripetute richieste dei cittadini. Certo, non sono i pronunciamenti contro la schiavitù o la pena di morte a motivare il rifiuto dei vari sindaci che si sono succeduti, bensì, come tutti sanno, il ricordo dell’età del Terrore, snodo cruciale e tragico della Rivoluzione francese. Così Danielle Simonnet, assessore a Parigi di France Insoumise, ha richiesto che almeno una via della capitale fosse intitolata ad uno dei protagonisti dell’epopea rivoluzionaria,  scontrandosi con Jean Sévilla, secondo il quale “Robespierre è l’uomo del terrore che giustifica la violenza ed anticipa il potere totalitario. […] E’ una coincidenza che Pol Pot lo ammirasse?”.

Dunque anche in Francia, un paese il cui percorso storico s’intrecciò con quello dei giovani Stati Uniti, non mancano le persone che vogliono veder sparire certi nomi da strade e piazze.

Nei moderni Stati Uniti, intanto, il dibattito ha imperversato sull’abbattimento della statua del generale confederato Robert E. Lee a Charlottesville, scappandoci immancabilmente il morto, in un movimento che dal 2015 ha visto sempre più città americane rimuovere monumenti e memoriali dedicati agli “eroi confederati”, ma anche ad altri personaggi storici associati al suprematismo bianco e alla schiavitù, coinvolgendo anche il Cristoforo Colombo a New York, la statua di Andrew Jackson a New Orleans e quella del sindaco Frank Rizzo a Philadelphia.

Durante la Guerra Civile, il Sud combatté per quattro anni per mantenere la sua “peculiare istituzione”, condizione per la quale diventa oggi difficile onorare la memoria di soldati che hanno combattuto coraggiosamente, ma per una causa (tra le varie che animarono il sanguinoso conflitto) sbagliata. Tuttavia, la Guerra non fu certo una crociata per i neri, come le parole dello stesso Lincoln pronunciate nell’Agosto 1862 rendevano chiaro: “Il mio obiettivo principale è quello di salvare l’Unione e non mantenere o abolire la schiavitù. Se potessi salvare l’Unione senza liberare uno schiavo, lo farei; e se potessi salvarla liberando tutti gli schiavi lo farei anche; e potessi salvarla liberandone alcuni e non altri, lo farei”.

Eppure all’alba del 1863, la proclamazione d’emancipazione concludeva l’epoca (formale) della schiavitù negli Stati Uniti. Una scelta morale? Una scelta tattica? Entrambe. Ma questo non fece nulla per spianare la strada per l’integrazione degli ex schiavi che di fatto continueranno a vivere ancora a lungo sotto una segregazione istituzionale tacitamente sancita da leggi che facevano di loro cittadini di seconda classe. Ciò non ha impedito a Lincoln di essere considerato uno dei più importanti ed amati presidenti nella storia del paese, con un monumento in suo onore nel cuore di Washington.

 

Abbasso Colbert: decolonizzare lo spazio

Se la storia è scritta da donne e uomini nell’intento di analizzare le azioni di propri padri, la loro interpretazione potrà certo differire a seconda delle sensibilità e dei periodi. Consideriamo il caso di Colbert, così come lo ha descritto sulle colonne di Liberation Louis-Georges Tin, Presidente del Consiglio rappresentativo delle associazioni nere (Cran).

Dal momento che i nomi delle strade non sono utilizzati per mantenere la memoria dei criminali, bensì degli eroi da celebrare, non deve stupirci che nel paese transalpino non esista una sola strada dedicata ad un personaggio come Pétain. Ma se vogliamo davvero trasmettere la memoria, perché non offrire ad alcune strade il nome di Toussaint Louverture, eroe di Haiti, o alla memoria di Champagney, modesto villaggio francese che fece propria la causa delle vittime di schiavitù durante la Rivoluzione?

Si domanda Tin: “Quale paese tra la Francia e gli Stati Uniti è il più problematico, quello dove c’è un conflitto intorno alla statua di un generale schiavista, o quello che all’Assemblea nazionale ha una statua di Colbert, una sala Colbert nel Ministero dell’Economia, scuole Colbert (che pretendono di insegnare i valori repubblicani), decine di strade o viali Colbert, senza alcun disagio o imbarazzo?

Colbert è stato un grande servitore dello Stato, ministro delle finanze e figura centrale nel regno di Luigi XIV, il creatore del “colbertismo” e dello Stato interventista.  Me è stato anche autore della prima versione del “Black Code”, che incorniciava e legittimava la schiavitù nelle colonie francesi, promulgato due anni dopo la sua morte, nel 1865.

Ecco che l’eroe di alcuni, per altri è il boia. Il Black Code fu un oggetto “mostruoso” tanto dal punto di vista morale e filosofico, quanto dal punto di vista giuridico, giacché perfettamente coerente con le leggi del tempo. Ancora nel 2013, Arnaud Montebourg continuava ad elogiare l’opera di Colbert, definendo il nuovo programma progettato per favorire la delocalizzazione, “Colbert 2.0”. Davanti alle proteste del Cran, Montebourg si giustificò spiegando l’intento di celebrare il Colbert che aveva sviluppato l’economia francese, non lo schiavista. Un discorso, secondo Tin, non molto diverso da esponenti di estrema destra che provano a celebrare Hitler non in quanto autore della Shoah, ma come risanatore dell’economia tedesca.

Il fenomeno a cui ci troviamo di fronte in Francia si chiama “decolonizzazione dello spazio”, volto a liberare le menti dai delitti del colonialismo attraverso una discussione nazionale collettiva che prenda coscienza degli eventi di Charlottesville negli Stati Uniti. Una questione che investe prettamente il potere e non la comunità di storici dei paesi. Con la denominazione di piazze, strade ed erigendo statue, sono i politici che stampano ed esibiscono il marchio del potere, espresso nei suoi simboli nello spazio pubblico, senza avere molto a che vedere con il rigore storico.

 

Se una statua predice il futuro: il “Power play”

Come ha spiegato Jane Dailey, Università di Chicago, e come mostrano gli studi del Southern Poverty Law Center, preservare la storia confederata non significa, come ha voluto sostenere Trump, considerare i tempi in cui le “beautiful statues” furono erette, rimanendo quindi un monumento del passato, bensì  per mostrare come quel passato possa ancora connotare il futuro.

La maggior parte delle statue, infatti, sono state erette dopo la Guerra Civile, precisamente in due fai di tensioni in materia di diritti civili: il primo ‘900 e gli anni ’50-’60. Come si possono altrimenti spiegare le statue dedicate a Robert E. Lee e Stonewall Jackson erette dopo la Seconda Guerra Mondiale a Baltimora? Come ha scritto Dailey, queste servivano come chiaro ammonimento verso il presente ed il futuro. Un messaggio per i veterani neri, la Corte Suprema ed il Presidente degli Stati Uniti: “Siamo ancora un Paese bianco, per i bianchi, e tu sarai sempre un discendente di schiavi”.

Statue e monumenti costituiscono un momento speciale, destinato a lunga durata, di marcatura della rete territoriale di una società occidentale, a maggior ragione quando questi si trovano su una proprietà del governo. Come Washington, anche la bella Parigi tra XVIII e XX secolo era piena di busti di ogni sorta. Per la gloria dei grandi uomini, per i simboli della patria, della Repubblica e della Nazione, ma anche per i lavoratori, come la Grisette, la bella sartina in Place de la République.

Cosa ci comunicano? Sono signori della guerra, statisti, governatori, consiglieri e ministri, per celebrare la grandezza e la continuità delle istituzioni; filosofi, scrittori e musicisti che rendono grazie all’eterno genio nazionale. Sono, dunque, state ricche di simboli storici, patriottici e culturali volti a mantenere il ricordo, spazzando via sotto il tappeto gli aspetti più vergognosi.

Così, una strada o una statua dedicata a Colbert, non è destinata a raccontare la storia di Colbert, tanto quanto la statua del generale Lee in uno spazio pubblico, ben poco ha a che vedere con la sua figura storica, bensì con il “power play” destinato ad influenzare ed intimidire chiunque si accinga allo scranno della giustizia o della legge.  Resta così la domanda insolubile: qualora lo spazio pubblico venisse ripulito dalla rappresentazione di qualsiasi personaggio che abbia la minima ombra, su quali basi ciò potrebbe essere fatto? In quale prospettiva?

Carlo Magno massacrò i Sassoni, Luigi XIV ha devastato il Palatinato, Danton non era certo uno stinco di santo, Napoleone commise un colpo di stato, Churchill partecipò alla guerra boera (ed al primo utilizzo di campi di concentramento), Beaumarchais era un trafficante d’armi, Jules Ferry sarà anche stato tra i padri della scuola pubblica, ma era anche uno dei più forti sostenitori del colonialismo. Eppure tutti costoro hanno statue a Parigi e ci vorrebbe un bello sforzo immaginativo per pensare eliminare o addirittura sostituire tutto quanto. Se esse sono lo specchio del potere, dobbiamo guardare o romperlo?

 

 

http://www.sinistraineuropa.it/approfondimenti/il-potere-allo-specchio-le-mani-insanguinate-delle-nostre-statue/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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