Bisogna ricordare la vicenda tragica di questa ragazzina, uccisa il 30 aprile 1945? Certamente sì.
Si può mettere una lapide per ricordare la sua morte? Credo sia giusto, anche se in una lapide è difficile sintetizzare una storia. E la storia di Giuseppina non può essere raccontata nelle poche righe di una lapide. Perché la storia di Giuseppina è una storia di violenza che viene da lontano, da molto prima che lei nascesse.
Per noi ora è facile dire che l’uccisione di Giuseppina è stato un brutale omicidio, nella primavera del ’45 immagino abbia fatto un’impressione affatto diversa. Noi abbiamo guardato con orrore all’esecuzione sommaria di Gheddafi, abbiamo considerato quell’uccisione un episodio di barbarie, perché la cultura dei diritti ha fatto – nonostante tutto – molti passi in avanti. Non è possibile giudicare secondo lo stesso metro di giudizio la folla che sputava sul cadavere di Mussolini esposto a piazzale Loreto. Perché quelle donne e quegli uomini vivevano in un mondo in cui la violenza, pubblica e privata, era comune. I bambini che disobbedivano venivano picchiati, spesso molto duramente, le donne in casa venivano picchiate – anche ora, purtroppo, succede troppo spesso – le discussioni in osteria finivano facilmente in risse, anche cruente, i delinquenti comuni venivano picchiati. i lavoratori che scioperavano venivano picchiati, gli oppositori venivano picchiati. Le persone erano in qualche modo abituate alla violenza, perché si moriva continuamente a causa delle violenze, pubbliche e private. La violenza fisica era qualcosa che le persone conoscevano molto bene, molto meglio di noi, e specialmente in un tempo duro come quello. Questo giustifica le violenze contro Giuseppina? Assolutamente no, ma ci fa capire che è impossibile giudicare quel mondo con gli occhi di oggi.
Non so cosa sarebbe giusto scrivere sulla lapide in memoria dell’omicidio di Giuseppina Ghersi, ma credo che certamente bisognerebbe raccontare una storia che non si esaurisce in quel solo atto di violenza gratuita e criminale. Bisognerebbe raccontare quanto è stato violento il regime fascista, quanto è stata crudele la guerra voluta da Mussolini, quanto è stata drammatica la lotta di liberazione, perché è stata anche una guerra che ha diviso le famiglie e le comunità. Credo che tutto questo non ci stia in una lapide.
Per questo condivido la scelta di chi si è schierato contro la proposta di un consigliere comunale di Noli di realizzarla. Perché nelle intenzioni di chi ha fatto quella proposta – e di chi l’ha ispirata – quella lapide non è destinata a ricordare un episodio certamente da condannare e la storia che l’ha preceduto, ma a gettare fango sulla Resistenza, su tutta la Resistenza.
Leggo che uno degli scopi di quella lapide sarebbe quello di raggiungere la riappacificazione. Questo mi pare l’errore di fondo. L’Italia non ha affatto bisogno di riappacificazione, ma – tanto più in questi anni in cui il movimento fascista torna a crescere, a diventare un’opzione politica come le altre, grazie anche ai tanti di sinistra che si sono fatti alfieri della pacificazione – abbiamo bisogno di rendere più profondo e invalicabile il discrimine tra noi e loro, tra chi combatté dalla parte giusta e chi dalla parte sbagliata, tra chi combatté per la democrazia e la libertà e chi lottò per un sistema totalitario. Non abbiamo bisogno di riappacificarci, ma abbiamo bisogno di capire, prima di tutto perché allora – e anche oggi a quanto pare – per tante persone il fascismo è una risposta alle legittime richieste di giustizia sociale, abbiamo bisogno di capire perché le persone credettero – e credono – che il fascismo sia la soluzione ai loro problemi.
Giuseppina non avrebbe dovuto morire, come non avrebbe dovuto morire la piccola Anna Pardini a Sant’Anna di Stazzema, come non avrebbero dovuto morire i cinquantadue bambini uccisi a Marzabotto, come non dovrebbero morire i bambini in guerra. Ecco io questo scriverei in quella lapide, come impegno per tutti.