Il racconto di un’attivista arrestata ad Amburgo durante il G20 pubblicato dall’Osservatorio Repressione
Hamburg ist nicht vorbei. Il racconto di una attivista sull’arresto e il fermo nella Gesa, durante il G20 di Amburgo e delle 26 ore passate lì dentro. Un racconto che cerca di dare una prospettiva di genere partendo dal corpo. Dedicato a Fabio, Alessandro e tutti i compagni ancora rinchiusi
“This could be heaven for everyone”
“…e poi occupati della tua rete di alleati più stretti/ prenditi cura di chi si prende cura di te/ e adora i rapporti intimi che costituiscono le tue fondamenta”
Il G20 di Amburgo per noi comincia un anno fa. Quando esce la notizia iniziamo subito a parlarne, in quasi ogni assemblea si affronta il nodo, costruendo mano a mano la nostra analisi, il nostro punto di vista, cercando di scostarci dal classico binario vertice-contro vertice. Siamo partiti da noi, dal nostro vissuto di migranti, dal nostro collettivo di squattrinati precari italiani a Berlino e abbiamo voluto fin da subito elaborare la nostra narrazione, che fosse la più condivisibile possibile, in cui tutte e tutti quelli che partono per lasciare “casa” in cerca di fortuna si potessero rispecchiare e trovare un pezzetto della propria personalissima storia. Amburgo per noi non è finita. E’ sempre stato un punto di arrivo e una data fissata da cui ripartire. Anche se siamo già proiettati verso il futuro, guardando oltre quei giorni di grande rivolta, che ci porteranno ad un altro meeting, non della stessa portata di massa ma di convergenza politica dal basso, la Amburgo del G20 la continuiamo a sentire sotto la pelle, ci rimbomba nel cervello come un martello pneumatico.
Prove generali di repressione.
LAGER in tedesco vuol dire MAGAZZINO
“L’Estate, l’Amore e la Violenza”
Il corpo di un essere umano all’interno della logistica Hi-Tech* della repressione tedesca è al pari di un oggetto inscatolato e riposto su uno scaffale dopo essere stato scansionato e controllato. Massimizzato, reso puramente trasparente, liscio, senza sensibilità, senza vita.
Da quando viene prelevato dalla strada fino a quando giace steso in una cella bianca poco illuminata, insonorizzata, asettica, vuota, viene preso, toccato, analizzato, spinto, sottoposto a torsioni e pressioni, giudicato, umiliato, deriso, offeso.
La mente in una situazione di stress, se capace, razionalizza, riesce ad estraniarsi, prova attraverso un puro processo di dissociazione a reagire, a stare in piedi, a non mollare.
Il corpo sta lì, non può mettere in atto trick psicologici per uscire dal tunnel dell’annichilimento. Può solo cercare di resistere, provando ogni istante a spingersi un pezzetto più in là del limite che gli è consentito.
Quando veniamo arrestati immagino di essere rinchiusa in una stanza. Non so perché ma non riesco ad immaginare più di questo. Anche perché ci hanno già perquisiti in strada, e non troppo alla leggera. Forse sono troppo concentrata nello stringere le mani delle mie compagne fino all’ultimo momento prima che ci dividano, prima di scendere da quella camionetta dove già in cinque avevamo passato due o tre ore in una cella, senza poter neanche andare in bagno.
Tra di noi c’è chi se la sta letteralmente facendo sotto, c’è chi ha le mestruazioni ed esige un cambio, o chi deve soltanto fare la pipì che trattiene da più di cinque ore. E i nostri corpi sono lì che zitti resistono a quelle umiliazioni, alla privazione di potersi esprimere.
Quando piano piano ci fanno scendere dalla camionetta, una alla volta, veniamo portate al bagno, sorvegliate da tre donne vestite con abiti civili, che indossano una pettorina giallo fosforescente con su scritto POLIZEI.
E’ strano quanto potere sussume una persona indossando una “divisa” riconoscibile.
Ci fanno fare la pipì ma con la porta aperta, con sei occhi puntati, chiedendoci anche di tirare lo sciacquone.
Poi ci rinchiudono di nuovo nella camionetta, senza dirci dove siamo e soprattutto perché siamo lì. Una volta finito lo smistamento dei nostri effetti personali in buste di plastica, ci prelevano una alla volta, dividendoci, facendoci sentire sempre più deboli, sempre più vulnerabili.
Dalla camionetta ci portano con le braccia bloccate, in delle stanzette. Una volta dentro veniamo posizionate in una specie di camerino, in cui puoi essere oscurata solo da una tenda che non viene chiusa. Di lato a me veniva perquisito un mio compagno, quindi di fronte alla mia tenda passano uomini senza il minimo problema per quello che accadeva nel camerino di fianco al loro. Sono sempre in tre, sempre sei occhi puntati contro. Iniziano con le scarpe, poi i calzini, la maglietta, la canottiera, i leggins, il reggiseno ed infine le mutande. Ecco sono nuda, di fronte a queste tre donne che potrebbero essere mia madre, o delle amiche di mia madre. Penso davvero che sia finita lì, di nuovo non so perché non penso che si possano spingere oltre, invece lo fanno. In maniera molto goffa e impacciata mi chiedono di piegarmi, guardando i miei genitali. Non capisco a cosa serva farmi fare quella cosa senza verificare più a fondo. Sembra una squallida messa in scena, in cui queste tre donne giocano con vergogna a fare le anti narcos in una serie tv americana di quart’ordine.
Mi chiedono se sono incinta, lì per lì vorrei continuare la farsa, fargli perdere tempo, rivendicarmi la mia pancia per poter provare a non entrare in quel magazzino umano.
Per un attimo lo penso, ora gli dico di sì, poi desisto ammettendo con orgoglio che quella ciccia è tutta roba mia.
Mi fanno rivestire, ma senza canottiera, senza calzini, senza elastico per i capelli, levandomi i lacci dalle scarpe. Io odio portare le scarpe senza calzini, i miei piedi hanno un rifiuto epidermico al contatto con materiali plastici, hanno sofferto molto.
Da lì mi portano nella cella, non ricordo la fila ma il numero è 15. Poco prima di arrivare davanti alla porta incrocio una mia compagna, lei ha la possibilità e la prontezza di riflesso di dirmi che sta in cella con un’altra nostra compagna, e che stanno bene. Quello è l’ultimo ricordo vivo della mia comunità. Arrivata di fronte alla mia porta devo lasciare le scarpe fuori, ed entrare scalza. Una volta dentro, mi ritrovo sola e mi sdraio sulla panca. E’ dura, liscia, con delle guarnizioni che se ci capiti sopra con la nuca ti spezzano in due il cervello. E’ tutto bianco, ed io sono tutta nera.
Rimango sola per un pò, la stanchezza inizia a prendere il sopravvento, mi appisolo per un tempo indefinito, fino a quando penso: “Ma cosa sto facendo? Dormo?”. All’improvviso mi alzo e inizio a sbattere le mani contro al porta e le pareti della cella, i palmi diventano tutti rossi.
Dopo cinque minuti di voluto baccano, vengono a dirmi che non posso urlare e non posso arrampicarmi appendendomi alle sbarre sopra la porta, che non posso stare in piedi sulla panca perché se cado e mi faccio male è loro responsabilità.
Allora mi sdraio di nuovo, e inizio a cantare. Canto di tutto, avevamo iniziato dalla camionetta, insieme alle altre mie compagne. Effettivamente è l’unico modo per stimolare l’udito, pensare aiuta, ma dopo un po’ la testa gira, iniziano le paranoie e i brutti pensieri. Immersa nelle note della mia voce, nonostante sia un suono conosciuto, scopro che mi rilassa e mi incoraggia, immaginando che anche le altre stessero cantando, provando a sentire una vicinanza, un senso di sorellanza.
Dopo un po’ però la memoria inizia a mancare, non ricordo più le parole delle canzoni, mi sento stanca, e anche sulla musica vengono a chiedermi se sto bene, se va tutto bene.
Dopo quelle domande sulla mia tenuta psicofisica mi addormento e mi sveglio poco dopo, o dopo molto, non lo so; mi sveglia la mia prima compagna di cella, una inglese migrata a Berlino da due anni, presa per strada mentre passeggiava con una sua amica. E’ ferita, ha un enorme livido su un fianco, un ginocchio fasciato da cui si intravede una brutta ferita e una mano tumefatta. Anche lei è tutta nera, ma sembra come se stia andando a prendere una birra. Ha dei pantaloncini corti con sotto delle calze nere velate. Sta bene, se bene può essere considerata la misura del pre-sclero. In realtà è scossa. Iniziamo a parlare e poco dopo chiede di essere portata in infermeria per essere medicata. Rimango di nuovo in cella da sola, e mi addormento di nuovo. Di colpo, dopo poco, dopo molto, di nuovo non saprei dire, vengo svegliata ancora una volta. Ora il sonno è più leggero, quindi riesco a sentire passi in lontananza che si fanno sempre più vicini e il rumore metallico dei chiavistelli che vengono aperti, la porta che si apre lasciando entrare un velo di luce al neon. Entra lei, piccola ma energica donna che esordisce saltando e sorridendo: “Don’t be so sad, now we are together” Io sorrido e dico “I was sleeping, I’m not sad, but now I’m happy”.
“Pas content, jamais content”
Lei è Mira. Iniziamo a parlare in inglese, ma subito capiamo che non è la lingua madre di nessuna delle due, e scopriamo che possiamo parlare in italiano, nonostante viviamo entrambe in altri paesi. Lei è originaria dell’ Est, emigrata in Italia molto piccola, per poi in età adolescenziale migrare di nuovo, stavolta in Francia, dove vive tuttora.
Anche lei è scalza, anche lei come le altre in cella senza elastico per i capelli, senza reggiseno, senza sapere il motivo del perché sia rinchiusa lì dentro. Mira è molto più giovane di me, ma la sintonia c’è, ci troviamo subito nel raccontarci, e nel ripercorrere quelle giornate, nel ricostruire i nostri arresti, nel chiederci se abbiamo visto qualcuno dentro, qualcuno dei nostri compagni. Abbiamo una cosa in comune io e Mira, entrambe, oltre a dei compagni, abbiamo dei familiari rinchiusi lì dentro, in quello stesso magazzino umano, ed entrambe condividiamo la stessa preoccupazione, la stessa morsa al petto nel pensare dove possano essere, se stanno bene, se sono già usciti, se sentono la nostra angoscia e la nostra forza.
Nel frattempo Liz torna dall’infermeria, siamo tre in cella. In pochissimo tempo diventiamo anche quattro. Per un lasso di tempo indefinito siamo in quattro e più guardo quanto spazio occupano i nostri corpi all’interno di quella scatola bianca, più mi chiedo come possano tenerci ancora lì dentro. Liz ha nuove fasciature, ma senza calze alle gambe. Liz è più calma di prima ma l’assenza delle calze fa trapelare ancora di più la sua carnagione molto chiara e i grandi lividi viola-grigio.
Iniziamo a chiacchierare cercando di mettere insieme elementi comuni e non, cercando di capire come sarebbe potuta andare avanti quella situazione e soprattutto fino a quando.
Per tutto il tempo in cui siamo state in quattro in quella cella si sono alternati momenti di fermento, di agitazione, urla, pianti, silenzi, risate, sudore, freddo, fame, voglia di andare in bagno solo per respirare aria fresca e allargare l’orizzonte della nostra vista. Non avevo mai condiviso uno spazio così piccolo e asettico con nessuno e nonostante la dimensione precaria e di profondo disagio, siamo unite. Se una si ribella, tutte dietro, se una dorme, tutte dormiamo, se una chiede di andare in bagno, tutte le altre a seguire mettono in croce le guardie per andare in bagno. Siamo una squadra. Probabilmente non ci incontreremo mai più, probabilmente dimenticheremo i nomi e le storie, ma dentro questo buco di plastica siamo indissolubili.
E allora penso alle parole di una mia compagna, una donna che ha fatto il carcere vero, l’isolamento, le botte, le torture, per molto tempo. Quando sei dentro la vita continua, e intessi relazioni, scopri nuovi volti e nuove storie, e se lo vuoi non dimentichi niente.
Liz viene chiamata. Ogni volta che devono aprire la porta ci chiedono di allontanarci da essa, e di essere ben in vista, e ogni volta il rumore metallico dei chiavistelli rimbomba nei timpani, ricordandoci dove siamo ma soprattutto che siamo rinchiuse. Loro possono vederci dallo spioncino, noi non possiamo vedere nulla, a meno che non ci arrampichiamo dalle sbarre sopra la porta. Liz esce dalla cella, la accerchiano in 4, le dicono che deve andare davanti al giudice, lei fa delle domande a cui non seguono delle risposte. Prima di indossare le scarpe, prova a dire che sente freddo, che senza le calze si sente nuda, “I feel naked”. Le viene risposto che non è nuda, e che si deve sbrigare perché il giudice non può aspettare.
Noi rimaniamo sospese. Ogni volta che qualcuna esce dalla cella il senso di vuoto aumenta, perché non sappiamo cosa può succedere, se tornerà e come tornerà.
Durante l’assenza di Liz dormiamo.
“Here’s to you, Nicola and Bart/ Rest forever here in our hearts/ The last and final moment is yours/ That agony is your triumph”
Liz torna, il giudice ha deciso che dovrà uscire lunedì mattina alle 10, è ancora sabato, credo sia notte fonda. Sente ancora freddo, chiede le sue calze, ma le vengono negate perché potrebbe provare a suicidarsi. Allora con insistenza pretende una coperta, qualcosa per coprirsi, non ce la fa più a stare con le gambe completamente scoperte. E appena le portano la coperta, subito tutte noi cominciano a pretendere altre coperte. Mentre ci racconta la dinamica si alternano momenti di silenzio, in uno di questi Mira si blocca, ha la faccia sorpresa, piano piano le nasce un sorriso sereno sul volto. Sente qualcosa, un suono, una musica, no aspetta…- è una voce, è la voce di qualcuno, è una melodia, la conosco, è Jan!, sì è proprio lui, sta cantando, la cantiamo da prima di partire per Amburgo. Mira di colpo balza in piedi, si arrampica appendendosi alle sbarre, riesce ad affacciarsi e inizia a cantare anche lei le note di quella canzone, canta e ride, scende e salta, rimbalza sopra la panca e si appende di nuovo, pronuncia un nome, il loro nome in codice, il suo compagno risponde. Si sono incontrati, si sono riconosciuti, urlano di gioia, e noi insieme a loro. E’uno dei momenti più profondi dentro quel luogo in cui siamo noi a portare la vita. Mira e Jan capiscono di essere molto vicini, e ogni volta che vogliono dirsi qualcosa, pronunciano la frase in codice, si rispondono, e si aggiornano, parlano in francese, lì quasi nessuna guardia parla francese. Ore prima, la quarta compagna di cella aveva dovuto aspettare tempo immemore prima di poter avere un traduttore francese. L’assurdità della giustizia borghese della democratica Germania, la locomotiva d’Europa, lo stato che accoglie, in cui ogni cittadino, autoctono o straniero, riesce ad integrarsi e a vivere dignitosamente (quello che vogliono far credere), ha organizzato un lager umano in cui rinchiudere centinaia di stranieri provenienti da innumerevoli luoghi sparsi per il mondo, per poi non predisporre di traduttori ufficiali le persone rinchiuse, senza consentire telefonate nel proprio paese. E se hai il numero del legal team scritto sul braccio o sulla gamba (tutti lo avevamo) allora è la prova che hai preso parte a qualcosa, che sei un black block.
“Siamo tutti black block”
Sì! sì lo siamo. Lo eravamo tutti. Tutti eravamo stati ad Amburgo. Tutti avevamo preso parte a quelle giornate, tutti eravamo consapevoli di quello che era successo, e di dove eravamo finiti. E se questo voleva dire essere dei black block, allora lo eravamo. In cella siamo state in quattro, quattro donne diverse, quattro lingue diverse, quattro estrazioni sociali diverse, ma nessuna, nessuna, nessuna mai ha ceduto, nessuna ha vacillato, tutte convinte delle proprie scelte da quelle più recenti a quelle più antiche. Era come se tutto tornasse, come se un filo rosso si fosse sciolto dalla matassa e avesse mostrato ad ognuna di noi il percorso fatto, e quello ancora da fare.
Possono giocare con le parole, possono affibbiarci stemmi e dire che siamo tutti la stessa feccia che devasta e saccheggia, e che per questo meritiamo di marcire in carcere. Possono avere i nostri corpi, possono imprigionarci, farci stare ore senza cibo, senza poter uscire fuori a guardare il cielo, senza sentire sul viso il calore del sole e la brezza dell’aria fresca, possono farci tutto questo, si possono, finché i nostri corpi resisteranno sempre un pelo di più dell’attimo prima, potranno farlo. Ma la convinzione di non aver sbagliato proprio niente, quella non ce la potranno mai togliere.
“e perciò non mi stupisce che ignoriate il mio dolore/ tenetevi la gloria se volete/ io mi tengo l’amore.”
*In tedesco sarebbe Hi-Tec, ma l’abbreviazione in un testo italiano è un inglesismo e quindi è Hi-Tech