Dopo la prima mondiale al New York Film Festival lo scorso settembre, è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma Last Flag Flying di Richard Linklater, una storia ambientata durante la guerra in Iraq dove tre veterani della guerra del Vietnam devono fare i conti con la morte di un figlio sul fronte di guerra. E rielaborare il loro contraddittorio rapporto con l’esercito americano.

La sinistra americana ha sempre avuto un rapporto complesso con i veterani di guerra: celebrati in modo militaristico da parte dell’Esercito – ad esempio attraverso la controversa festa nazionale del Veteran’s Day -, rappresentano allo stesso tempo l’altra faccia denegata dell’ideologia di potenza americana, quella che ne svela, in modo spesso più efficace di ogni denuncia, la verità.

Laddove i militari vengono assurti a simbolo assoluto di altruismo e dedizione alla patria, la loro realtà è quella di trascorrere un’esistenza di marginalità tanto più drammatica dal momento in cui si vive in uno stato praticamente privo di welfare. Vi è poi il dato di fatto – scomodo a sinistra e tuttavia impossibile da ignorare – che l’esercito rimanga ancora oggi un luogo fortemente caratterizzato da una dimensione di classe, soprattutto nei ranghi inferiori che rappresentano per moltissime fasce sociali più deboli e per milioni di ispanici e afroamericani uno dei pochi luoghi di (presunta, ma a volte anche reale) ascesa sociale, dove ad esempio è possibile ricevere una formazione universitaria e un’assicurazione sanitaria che altrimenti rimarrebbero miraggi irraggiungibili.

L’altra faccia della medaglia naturalmente è la concreta possibilità di finire in un fronte di guerra (la guerra è per gli Stati Uniti l’unica industria che funziona sempre a pieno regime), e di uscirne con un’infermità psichica o fisica permanente, o con una pensione da fame. Se si è abbastanza fortunati da uscirne del tutto, naturalmente.

Che la rappresentazione simbolica dei veterani sia un terreno di conflitto reale nella società americana, lo si vede anche dall’enorme sforzo fatto dal governo americano di oscurare l’immagine delle bare dei militari americani avvolti nella bandiera a stelle e strisce che tornavano dal fronte ai tempi della guerra in Iraq. In uno dei più plateali tentativi di censura della storia recente – per altro, perfettamente riuscito – l’intero sistema dei media americani e l’Esercito stesso sono riusciti nel tentativo di eclissare ogni tipo di rappresentazione e di immagine dei caduti sul terreno di guerra.

L’unica narrazione consentita era quella dell’eroismo e della dedizione alla patria. È quello che vediamo anche in Last Flag Flying, l’ultimo film di Richard Linklater (BoyhoodDazed and ConfusedBefore SunriseEverybody Wants Some!!) presentato ieri alla Festa del Cinema di Roma (nei prossimi giorni una riflessione più generale e critica sulla manifestazione romana), dove un padre che ha appena perso un figlio in Iraq chiede a un colonnello dei lumi su che cosa sia accaduto, al quale l’ufficiale risponde soltanto con un: “è morto da eroe servendo la patria, ed è stato un modello per i suoi compagni”. Come se l’unica storia possibile dell’esperienza nell’esercito fosse quella delle targhe commemorative e della retorica militaresca dello Stato.

Last Flag Flying tenta invece di decostruire dall’interno il bellicismo che da sempre incombe sull’esercito americano e di riconsegnarlo a delle parole e a delle immagini più soggettive e personali, in un’ottica esplicitamente anti-militarista. Perché anche se si entra nell’esercito per qualche identificazione ideologica – si dice nel film – poi una volta che si è dentro, lo si fa solo per i propri compagni: Linklater infatti aggiunge con questo film un’altra tappa nella sua riflessione ormai decennale sul bonding maschile e sul confronto dei rapporti d’amicizia e d’amore con il tempo e l’invecchiamento.

Ambientato nel 2003 ai tempi della guerra in Iraq, il film racconta la storia di tre veterani della guerra del Vietnam che si ritrovano dopo 30 anni, quando “Doc” (Steve Carell), uno di loro, deve fare i conti con la morte del figlio 19enne sul fronte iracheno. La richiesta che viene fatta ai due ex-commilitoni è di accompagnarlo al cimitero militare di Arlington dove il figlio verrà seppellito con tutti gli onori militari del caso. Sal (Bryan Cranston) e Mueller (Laurence Fishburne), che a stento riconoscono “Doc”, hanno fatto due scelte di vita opposte e radicali: il primo è un personaggio gassmaniano, narcisista e logorroico, alcolizzato e autodistruttivo, che gestisce un dive bardecaduto a Norfolk in Virginia; l’altro invece è riuscito a dare una svolta alla propria vita, si è sposato, ed è diventato un pastore di una Chiesa Battista.

Tutti e tre però portano i segni, nel corpo e nella testa, della loro esperienza in Vietnam: Sal ha una placca metallica in testa, Mueller zoppica vistosamente e si accompagna ad un bastone, mentre Doc ha passato diversi anni in una prigione militare in New Hampshire, per un evento di cui si è assunto la colpa ma che in realtà riguardava anche gli altri due. Come spesso accade nei racconti dei veterani, ci pare essere un legame maschile (la presenza femminile nell’esercito americano iniziò massicciamente solo a partire dalla metà degli anni Settanta) più forte di ogni altra cosa anche a distanza di anni, ma che in Last Flag Flying non si è costruito soltanto grazie ad atti di eroismo, di solidarietà al fronte o di traumi collettivi, ma anche attraverso atti di sofferenza inflitta e di violenza reciproca, sensi di colpa e rimpianti.

La violenza della guerra non è solo verticale – contro il nemico – ma anche orizzontale tra gli stessi membri dello stesso corpo militare, ad esempio quando viene raccontata la storia di un commilitone morto in Vietnam tra indicibili sofferenze soltanto perché i tre soldati avevano consumato tutta la morfina disponibile in infermeria.

Linklater costruisce un film dove tutta la brutalità dell’esercito viene imputata agli ufficiali e ai politici: a chi insomma – in Vietnam così come in Iraq – ha organizzato con cinismo delle guerre per interessi opachi, mentre venivano portati al fronte dei ragazzi sprovveduti senza la benché minima idea di quello che stessero facendo.

L’ideologia bellicista e nazionalista serve solo per coprire la realtà della brutalità della guerra, esattamente come la bandiera americana copre le bare dei soldati morti al fronte: è infatti soltanto quando dalla bara del figlio di “Doc” viene tolta la bandiera che anche la coltre di retorica in cui è immersa inizia a diradarsi. Il ragazzo infatti non è morto per un atto di eroismo, ma è stato freddato da un locale mentre andava a comprare della cocaina fuori dalla base, tra la popolazione irachena. La presa di coscienza della verità si accompagna a una presa di coscienza da parte dei tre veterani di come l’esercito sia un’istituzione fondata sulla menzogna e sull’inganno, fino a farli maledire e a rifiutare gli onori militari.

Tuttavia il film ha un andamento dialettico e la bandiera alla fine verrà riposta sulla bara. Linklater prende attentamente – ma forse alcuni potrebbero dire ambiguamente – una via intermedia che finisce per ritrovare un nuovo senso del corpo militare oltre la denuncia. L’esercito viene negato, criticato, esposto alle sue responsabilità politiche; tuttavia quando viene visto dal basso, dal punto di vista dei commilitoni, acquisisce anche una sua parziale forma di redenzione. Come se ci fosse qualcosa nel legame umano che unisce i tre veterani che vada oltre ogni responsabilità politica e oltre ogni esperienza traumatica di guerra.

 

 

“La maggior parte della vita sta alle tue spalle, e non puoi tornare indietro nel tempo” dice Mueller a Sal in uno dei momenti più boyhood-iani del film: come se quello che venisse condiviso tra i tre fosse innanzitutto una parte della propria vita che viene riattivata e condivisa nel presente proprio grazie alla morte del figlio di “Doc” (come sempre in Linklater, la vita è sulla soglia della sua perdita e del “finire” delle cose). La bandiera americana viene quindi svuotata dei significati che gli vengono dati dal governo (che non può che mentire, dice Sal) o dagli ufficiali dell’esercito, ma alla fine non viene fino in fondo “ripudiata”: viene semplicemente riempita di significati altri. L’America si sa, è un significante vuoto e l’operazione che di Last Flag Flying – sulle note di Bob Dylan e di Levon Helm della Band – è di riempirla di immaginari altri, opposti a quelli del nazionalismo bellicista repubblicano, eppure – direbbe Linklater – non per questo meno americani.

Ci sono naturalmente molti motivi per sottolineare come un approccio del genere sia pieno di trappole e di insidie, e di come i percorsi di risemantizzazione della bandiera americana siano anche un modo per poterla in extremissalvare. Eppure anche un processo di puro e semplice “ripudio” – quanto meno nell’attuale atmosfera ideologica – non è privo di rischi: negli Stati Uniti ancora oggi ogni famiglia della working class ha avuto un parente, un amico, un figlio che è stato nell’Esercito e che ha avuto un’esperienza al fronte. Il veterano è una figura ideologica “mitica” dove convivono ambiguamente tensioni politiche opposte, che possono a seconda dei casi pendere in direzioni molto diverse tra loro. Lo sa bene Linklater che vive e che ha ambientato la maggior parte dei suoi film in Texas: uno stato che spesso viene caricaturizzato (soprattutto in Europa) come quintessenza dell’America reazionaria, ma che invece è attraversato da conflitti anche aspri e dove l’ideologia della working class è tutt’altro che liquidabile con la sua superficie, a volte effettivamente reazionaria o bellicista. Lavorare dentro e contro il significante “veterano” può essere un modo – non certo l’unico, e non certo in modo risolutivo – per andare a guardare queste contraddizioni. Sapendo che per scioglierle ci vorrà ben più che un semplice film.

http://www.dinamopress.it/news/il-rovescio-della-bandiera-americana

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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