Riceviamo e pubblichiamo
di Franco Astengo
“Passione militante”, così si potrebbe definire lo spirito che pervade il testo di Marco Peschiera ed Enrico Baiardo, uscito in questi giorni per le edizioni Erga, che racconta la storia del PCI genovese dal 1943 al 1991.
La “Passione Militante” di Peschiera e Baiardo però si rivolge a un altro soggetto prima ancora che verso il Partito.
Il Partito quello con la P maiuscola, senz’altri appellativi. Il Partito per antonomasia, così come l’Unità era il “giornale”. Il Partito che ha attraversato in quello scorcio di XX secolo dalla Resistenza allo scioglimento, per astra ad aspera, si potrebbe affermare.
Un partito (torniamo alla minuscola) con i suoi travagli, i suoi momenti di grandezza e di piccineria, attraversato da personaggi di grande spessore ma anche da altri espressione di miserie umane come ambizioni, personalismi, improvvisazioni, ricerche del potere: un partito tra gli altri come affresco della contraddizione umana e politica.
La “Passione Militante” di Peschiera e Baiardo è però rivolta prima di tutto verso la Classe Operaia genovese (questo sì da scrivere con la maiuscola): quella Classe Operaia, “forte”, “stabile”, “concentrata” che rappresentava il fulcro operativo e pensante del Partito Comunista e ne trasportava l’identità e la realtà dalla fabbrica ai suoi quartieri: al grande Ponente Operaio, da Sampierdarena a Voltri e su per la Val Polcevera, in un’omogeneità di pensieri e di azioni che coinvolgevano gran parte dei ceti sociali, uomini, donne, giovani, anziani.
Una sorta di “mitologia” che dall’antifascismo alla Resistenza alle lotte degli anni’50 aveva significato il tratto distintivo di una grande comunità sociale il cui orgoglio era rappresentato dal lavoro e dall’appartenere a un grande Partito del quale si era immediata espressione: lo stesso discorso potrebbe valere per un altro pezzo dell’area centrale ligure tra Savona e Vado, ma non è il caso di allargare il discorso concentrandoci quindi su ciò che hanno scritto Peschiera e Baiardo.
Il passaggio dove meglio, nel libro, si esprime questa che mi sono appunto permesso di definire “Passione Militante” riguarda il capitolo “Eravamo in centomila”.
Mi permetto riprodurne una parte di seguito:
“ Eravamo centomila. Grande, pesante,pubblica. Ci sono solo tre aggettivi per definire ciò che è stata l’industria genovese. Tre aggettivi che valgono per il mezzo secolo tra gli anni Trenta, quando il fascismo di fatto procede alla nazionalizzazione dell’economia genovese con l’istituzione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) e gli Ottanta quando si smantella l’intero apparato industriale a partecipazione statale .L’IRI sarà liquidato nel 2000 quando già da tempo avrà esaurito la sua funzione.
E’ stata una titanica macchina in eterno movimento tra ristrutturazioni, riconversioni, trasformazioni, chiusure di fabbriche e installazione di nuove, ma è stato anche un mondo caratterizzato da una straordinaria stabilità: nel 1951, anno del primo censimento generale postbellico, a Genova risultano occupate nell’industria poco più di 102.000 persone: dieci anni dopo sono quasi 109.000 e ancora nel 1971 il dato sfiora i 104.000.
In queste cifre sono compresi i “colletti bianchi” cioè il personale dirigenziale e impiegatizio , ma non è esagerato dire che per almeno un quarto di secolo, che coincide in pieno con l’arco ventrale della storia del PCI oggetto di questo racconto, l’industria genovese ha costantemente inquadrato un esercito operaio di centomila uomini, e diciamo uomini perché la percentuale di donne è sempre stata molto bassa.
Era grande: più della metà di quei centomila lavorava in imprese con oltre 500 dipendenti.
Attenzione adesso al passaggio successivo:
Era pesante: Genova fabbricava quasi esclusivamente “beni intermedi” (materie prime e semilavorati che servivano per la produzione di altri beni) e “beni strumentali” (macchinari e impianti) mentre era irrilevante la produzione di beni di consumo diretto. In sostanza acciaio, ghisa, turbine, grandi motori, locomotive, tram, vagoni ferroviari, aerei, apparati per centrali energetiche, componenti di condutture, eliche, alberi di trasmissione, navi di ogni dimensione”.Niente che si potesse comprare sotto casa.
Niente, aggiungiamo, che direttamente potesse condursi all’individualismo consumistico che avrebbe stravolto l’impianto della società italiana fin dagli anni’60. Un’idea del lavoro quello della Classe Operaia genovese, invece, rivolta alle grandi prospettive dello sviluppo, in un’industria che – aggiungono gli autori – : “Era pubblica: un terzo delle imprese era di proprietà dello Stato ma nel settore metalmeccanico, di gran lunga il più importante per fatturato e numero di occupati, il 65% dei lavoratori era dipendente dell’IRI”.
Era una classe operaia quella comunista genovese di vera e propria “aristocrazia” “con elevata qualificazione e con anni di lavoro presso la stessa azienda”.
Una classe operaia idealmente esemplificativa, anche sul piano tecnico – professionale della funzione pedagogica che, dalla “svolta di Salerno” all’ideazione del “Partito Nuovo” sul modello dell’integrazione di massa, ha avuto il Partito Comunista Italiano nel corso della sua storia.
Una funzione quella di grande educatore delle masse che può essere giudicata come quella socialmente più importante svolta dal PCI almeno fin sulla soglia degli anni’70 che ha consentito al Partito di assegnare a ciascheduno un ruolo, una funzione, un’importanza : dalla dirigenza alla militanza più spicciola legata ai grandi eventi della vita quotidiana della militanza politica. Le riunioni in sezione, il compito di scrutatore ai seggi elettorali, l’elezione a consigliere comunale, la militanza attiva nelle feste dell’Unità.
A Genova, in gran parte, questi compiti e funzioni venivano svolte per il tramite dell’appartenenza operaia unitamente alla presenza e all’attività sindacale in fabbrica. Una sorta di osmosi che non si può certo descrivere riduttivamente, nel rapporto tra partito e sindacato, rievocando la “cinghia di trasmissione”.
“Difficile dire – scrivono ancora Peschiera e Baiardo – se è stata la forza dell’industria a dare forza agli operai o viceversa. I fatti sono che nelle fabbriche genovesi si registrano i più alti tassi di iscrizione ai sindacati (con la CGIL di gran lunga maggioritaria) e che scontri sociali e vertenze economico – normative, pur con alti e bassi nel corso dei decenni, a Genova vedono una classe operaia seduta al tavolo davanti al “padrone” con la grinta e la convinzione del padrone.
Aggiungiamo fuori – sacco rispetto al testo: qui si parla prevalentemente degli anni’50 – ’60 ma quella era ancora la classe operaia verso la quale, caso unico in Europa, si erano arresi i tedeschi ancora in armi e i cui figli (guidati dagli stessi padri) pochi anni dopo erano stati capaci, caso unico nella storia della Repubblica, a cacciare dalla piazza un governo appoggiato dai fascisti in una linea temporale ideale che ha collegato il 25 aprile 1945 al 30 giugno 1960.
Il PCI, scrivono ancora gli autori, nasce e vive a Genova, intesa soprattutto in questo caso come Sampierdarena, Sestri, Voltri, Rivarolo, Bolzaneto, Ponte decimo (e aggiungiamo anche a Savona e a Vado) come un Partito formato da operai.
Il confine tra la “città operaia” e quella borghese è ancora, al tempo, segnato a San Benigno. Poi c’è il caso dei portuali non assimilabile d’ufficio a quello della vita nelle grandi fabbriche dell’IRI: di eguale sicuramente c’era la fierezza di appartenere a chi “produceva” direttamente il benessere.
Naturalmente la composizione sociale e il livello dei quadri dirigenti del PCI genovese anche in quel periodo era più complessa e nel libro non si manca di farvi cenno. Pur tuttavia si deve ancora rimarcare come nel 1960 nelle fabbriche pubbliche un operaio su 5 era iscritto al PCI, dato che soffriva in “diminutio” per via del caso clamoroso dello SCI – Italsider dove le assunzioni erano precluse ai comunisti. Poi con l’andare del tempo anche la morsa, in quel senso, si allentò e il PCI poté insediarsi anche in quella grande fabbrica, ma quando ciò avvenne ci si trovava già in tempi di declino complessivo e di fronte a nuovi livelli di contraddizione portati dalla post – modernità come quelli esplosi tra lavoro e ambiente.
“La Lanterna Rossa”dunque come grande affresco dedicato al PCI o alla Classe Operaia genovese? Sarà consentito mantenere l’interrogativo così come l’interrogativo permane sulle cause vere dello smantellamento di quella struttura. Smantellamento avvenuto a cavallo degli anni’80, così come è stato accennato all’inizio, avendo per motivo il cambiamento della qualità nella produzione industriale, il rovesciarsi delle logiche di mercato, l’avvento del Mercato Comune Europeo, la necessità della modernizzazione, l’introdursi di nuove e inedite fratture sociali : tutte ragioni a suo tempo indagate e che portarono al declino di un’intera Classe, a una spossessione d’identità e quindi alla fine e come concausa beninteso tra le altre, all’identità stessa di un Partito il cui ruolo è stato determinante ,pur dall’opposizione, per la ricostruzione post – bellica e l’uscita dell’Italia da una situazione di minorità sociale ed economica fin dagli anni’60.
Limiti , contraddizioni, errori d’analisi si sono incontrati e verificati anche in quel periodo(non soltanto al momento dello scioglimento), ma nella sostanza non si può non riconoscere come il Pci abbia rappresentato un fattore fondamentale nel riconoscimento di massa di un’identità collettiva risultata “fondativa” della stessa identità del Paese nella fase più difficile della sua esistenza, quando c’era da uscire dalla condizione di nazione vinta dentro la temperie della più grande tragedia della storia.
Partito del quale proprio sul piano dell’espressione dell’identità collettiva, mi sarà concesso affermarlo in chiusura, la classe operaia genovese, quella, appunto, più “forte”, “stabile”, “concentrata” d’Italia era stata una delle interpreti più significative, importanti, rappresentative.
Il “Partito Nuovo” era guidato da un’élite di massa e non semplicemente diretto attraverso il meccanismo dell’autonomia del politico.
Valeva allora la pena ricordarla quella élite di massa rappresentata a Genova egemonicamente dalla Classe Operaia.
Baiardo e Peschiera sono stati capaci di farlo andando ben oltre la definizione di una testimonianza ma esprimendo proprio e davvero una “Passione Militante”.