di Maurizio Guccione

La legge 180 del 1978, quella conosciuta meglio come il primo provvedimento volto alla chiusura dei Manicomi, compie quest’anno quarant’anni. Porta il nome di un uomo illuminato, Franco Basaglia, psichiatra e neurologo veneziano, che lavorò a lungo affinché il concetto di salute mentale uscisse da una condizione di segregazione dell’individuo sofferente, in quanto “contenitore” di sintomi, per tornare a essere persona, cittadino avvicinabile, essere umano da ascoltare, oltre che, appunto, da osservare. Da qui, la concezione più avanzata di una diffusione territoriale ove poter trattare la malattia psichiatrica, uscendo da un vero e proprio  regime di costrizione, quello dei manicomi, fatto di camicie di forza, farmaci, elettroshock. Fu un fatto importante dal punto di vista medico-scientifico ma ancor più da quello culturale perché apriva una finestra sul paziente psichiatrico, mettendolo al centro di un processo di umanizzazione e riconsegnandogli la dignità di persona; l’essere umano da ascoltare, da indagare e non solo da curare farmacologicamente. Questa, sommariamente, fu la svolta di quarant’anni fa. La legge, in sé, durò solo pochi mesi, perché nel dicembre dello stesso anno, una nuova e importante legge, la n° 833, istituiva il Servizio sanitario nazionale (SSN). All’interno di quest’ultima, dunque, fu inglobata quasi nel suo corpo intero, la legge Basaglia.

Ho ancora un ricordo nitido nell’ambito della mia seppur breve attività di dirigente sindacale. Insieme a una compagna – eravamo nella Cgil, esisteva ancora un solido riferimento di sinistra, si intraprendevano lotte per migliorare la società – mi occupavo del cosiddetto territorio, ovvero le emanazioni territoriali della sanità nel comprensorio dove abitavo. Un giorno andai a un incontro con l’allora direttore dell’ospedale psichiatrico: un uomo indubbiamente forte e preparato, progressista nel modus operandi. Entrare nella struttura fu di impatto: i malati c’erano, eccome. E c’era, naturalmente, il personale infermieristico, il cui lavoro era relegato, nell’immaginario collettivo, a corpulenti omaccioni in grado di tenere a bada con la forza gli eccessi dei degenti. Entrai nello studio del medico e iniziammo a parlare. Dopo una decina di minuti, si sentì un colpo violento alla porta e questa si aprì all’improvviso. Sbucò una donna imponente che iniziò a inveire nei confronti del medico. Ci fu un alterco e dopo poco uscì. Guardai il direttore con uno sguardo ovvio, quasi a confermare la follia che si stava materializzando in quell’essere umano. Lui mi rassicurò: “No, guarda, si tratta di una dipendente”. Fuorviammo dal nostro incontro di natura sindacale e mi parlò lungamente del dramma che un ambiente tale scatenava anche in chi vi lavorava. Fu molto interessante, perché capii che l’umanizzazione iniziata con la legge Basaglia, di fatto avrebbe positivamente contaminato anche le relazioni professionali, creando figure addette all’assistenza sicuramente più evolute e preparate.

Quella legge rappresentò una svolta, non senza difficoltà e ostracismi; la prova tangibile che la lotta, in questo caso legislativa, rappresentava la leva più importante per una democrazia che guarda al proprio popolo. Dovremmo parlarne di più della legge Basaglia: nelle scuole, negli incontri pubblici. Questa è memoria che si è fatta sostanza, civiltà. Se ai giovani si parlasse in questi termini, forse rispetterebbero di più le istituzioni perché innanzitutto le capirebbero, ne assorbirebbero il valore. Lo spettacolo indecente di quest’ultimo periodo, – mi riferisco appunto alla politica –  fa quasi pensare che il nostro Paese non sia più capace di promulgare buone leggi, rimettendo al centro la persona. Dico quasi per non smettere di crederci definitivamente, conservando uno spiraglio di cambiamento, a partire dal ruolo di una sinistra autentica, in grado di operare per il bene comune.

Di Maurizio Guccione

Ha svolto attività sindacale nella Cgil negli anni Novanta, nel comparto sanità. Ne è uscito volontariamente perché sostiene che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” e quel mare si stava intorbidendo. E’ stato iscritto al Pci, Rifondazione Comunista e al PdCI: rimane fedele a quelle idee, mantenendo quale stella polare Antonio Gramsci, la Resistenza e la Costituzione anche in assenza di una tessera in tasca. Giornalista pubblicista , ha collaborato con i quotidiani toscani, una tv privata e con la rivista dell’Università di Pisa “Scienza e Pace”. Ha scritto quattro raccolte di poesie e altre ne pubblicherà se le giornate saranno meno frenetiche (“…nemmeno dentro il cesso possiedo un mio momento…” di F. Guccini). Lavora nella sanità pubblica, ormai sempre meno pubblica e giusta.

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