Uno dei piaceri puri dell’infanzia è che in quel momento – e solo in quel brevissimo momento – abbiamo il potere di dare il nome alle persone e alle cose. E’ un momento che dura poco, è una gioia che presto ci viene tolta, perché i grandi ci insegnano a chiamare le persone e le cose con i nomi corretti, e quando sbagliamo, volontariamente o inconsciamente, e continuiamo a usare quei “nostri” nomi, siamo ripresi, a volte perfino puniti, perché dobbiamo imparare che le persone e le cose hanno un “loro” nome e non sta a noi decidere quale né abbiamo il potere di cambiarlo.
Il racconto del Genesi sulla creazione del mondo non è particolarmente originale: in tante tradizioni antiche c’è un dio che dal nulla crea il cielo e la terra e poi via via ogni altra cosa fino all’uomo. C’è un passo però che ha un tratto decisamente insolito. Lo troviamo in 2,19:
“Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.”
Pensate alla gioia di questo primo uomo che ha deciso di chiamare mucca la mucca e gallina la gallina e a cui nessuno poteva dire “non si dice così”. Perché il dio dell’antico testamento, che pure non era un dio di buon carattere e che da subito cominciò a mettere regole piuttosto stringenti, lasciò all’uomo questa assoluta libertà di dare il nome alle altre creature. Una libertà che già i suoi figli non ebbero più e che anche noi non abbiamo più, se non nei primi mesi in cui impariamo a parlare e in cui ci è ancora permesso di inventare e di usare dei nomi che poi dovremo abbandonare.
I poeti mantengono questa libertà, hanno ancora la facoltà di dare il loro nome alle cose, il mondo concede a loro una “licenza poetica”, ma certo neppure il più grande dei poeti può chiamare mucca una gallina. Anche noi che non siamo poeti a volte godiamo dell’ebrezza di dare un nostro nome alle cose, ma lo facciamo clandestinamente, di nascosto, ci inventiamo un lessico privato con cui comunicare con la persona che amiamo: e solo per noi due quella cosa ha quel nome speciale, mentre tutti gli altri la chiamano in un altro modo – e anche noi, quando siamo con gli altri, la chiamiamo in quel modo – è un segreto, è qualcosa che ci unisce, è qualcosa che abbiamo in comune con quella persona. Come solo Odisseo e Penelope sapevano che il loro talamo nuziale non poteva essere spostato e chissà quali altri parole segrete – che neppure Omero sapeva – si scambiarono quei due dopo vent’anni, avendo così la gioia di riconoscersi e ritrovarsi. I nomi che noi diamo alle cose servono anche a questo, a creare legami indissolubili.
Per queste confuse ragioni, davvero non capisco perché i miei colleghi dello stato civile di Milano abbiano deciso di segnalare in procura i genitori che hanno voluto registrare la loro figlia con il nome Blu, in forza di una norma che prescrive che il nome debba far capire in maniera inequivoca quale sia il sesso della creatura. Non so neppure quali ragioni abbiano spinto il magistrato competente a non procedere, magari si è trattato solo di pigrizia, della voglia di evitare fastidi su una una causa irrilevante, ma che poteva portare grane.
I genitori di Blu, per sostenere la loro tesi, hanno detto che in questo anno e mezzo – perché intanto la bambina è cresciuta – si sono sempre più convinti della loro scelta perché “i suoi occhi e il suo carattere forte rappresentano al meglio il colore che le dà il nome.”
Curiosa questa posizione. Nel “Cratilo”, uno dei suoi dialoghi del cosiddetto periodo di mezzo, Platone contrappone due teorie. Ermogene, riprendendo le tesi dei sofisti, sostiene che i nomi siano convenzioni, mentre Cratilo, sostenuto anche da Socrate, pensa che contengano una qualche caratteristica capace di renderli perfetti nell’adattarsi alla persona o alla cosa a cui si riferiscono. Per Platone i nomi sarebbero in qualche modo naturali e Blu, almeno a sentire quello che dice suo padre, non sarebbe potuta che chiamarsi così. Come sapete, io sono un vecchio sofista e credo che anche in questo caso il filosofo ateniese sia in errore: noi chiamiamo gallina la gallina perché un tempo qualcuno ha cominciato a usare quella parola e lentamente quel nome si è affermato e ora non potremmo davvero usarne un altro. Perché il nome, come ci spiega l’etimologia di questa parola, è ciò che ci fa conoscere una persona o una cosa, ma sappiamo anche che le storie dei nomi seguono percorsi spesso contorti, molto più complessi di quello che immagina l’ingenuo autore del Genesi o il dottissimo Platone.
Comunque sia, chiunque abbia ragione, Blu continuerà a chiamarsi così. E mi auguro che diventi una donna forte e intelligente, come sperano i suoi genitori, ma lo sarebbe stata anche se si fosse chiamata Maria. Poi, se vorrà, potrà anche cambiare ufficialmente il proprio nome, oppure avrà un nome segreto, che conoscerà solo la persona che amerà. E anche quello, che nessuno di noi saprà mai, sarà il suo nome.

 

 

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Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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