La memoria individuale e collettiva delle vittime del G8 di Genova 2001. Intervista a Francesco “Baro” Barilli
di Alessia Del Noce*
Non eri presente a Genova durante il G8 del 2001, ma sei stato un grande testimone di quei fatti. Cosa è stato e cosa è per te Genova?
Genova è stata molte cose. Alcune (non ti sembri paradossale…) persino positive, se non ci fermiamo solo alla repressione di quei giorni e ricordiamo, in generale, il fermento ideale che segnò i preparativi delle manifestazioni genovesi e proseguì negli anni immediatamente successivi. Mi spiego meglio: se parliamo della ricerca di un mondo migliore (che in fondo era lo spirito con cui si arrivò alle iniziative del luglio 2001) va detto che mai come nella stagione di Genova quella ricerca è stata percepita come un’aspirazione che si poteva davvero concretizzare. E, specularmente, proprio questa constatazione può spiegare la durezza con cui la repressione fu scatenata nelle vie del capoluogo ligure. Sono stati tanto brutali perché in quel frangente il Movimento era temuto: era percepito come il portatore di una proposta concreta di mondo alternativo (“un mondo diverso è possibile” non era solo uno degli slogan più noti, ma un’affermazione veritiera: sì, era possibile…). E questa proposta, proprio in quanto concreta, disturbava chi stava nella cabina di comando…
Ma tu mi chiedi cosa è stata per me… In occasione di varie iniziative m’è capitato di parlare del G8 di Genova come di uno spartiacque, come di un “fatto periodizzante”: uno di quelli che crea un prima e un dopo, nella memoria collettiva e nelle vite individuali di chi ne è rimasto colpito o – a qualunque livello – coinvolto. Ricordo una lunga chiacchierata con lo scrittore Stefano Tassinari (amico mai abbastanza rimpianto) in cui definivamo Genova un trauma, a cui ognuno ha reagito a proprio modo: un trauma per tutti, da cui si dipanano poi le matasse delle storie e delle sensibilità individuali.
Pure per me Genova è uno spartiacque. Nonostante fossi assente nel luglio 2001 per questioni familiari (mia figlia era nata da pochi mesi).
Ricordo bene quando, erano circa le 18,00 del 20 luglio, alla televisione sentii le prime notizie sulla morte di Carlo Giuliani. Erano voci confuse, non si conoscevano ancora nome e nazionalità del ragazzo, si vociferava addirittura di una seconda vittima… Già in quel momento cominciai a sentirmi in torto per la mia assenza. Vorrei chiarire subito che non ho particolare stima del senso di colpa, se si limita a essere un moto dell’anima che spinge verso l’autoassoluzione. Penso, o almeno spero, che quel mio sentimento sia stato la molla di qualcosa di più complesso, un’esigenza – ingenua e persino presuntuosa – di impegnarmi, sull’onda (“guevarista”, per semplificare) di recuperare la capacità di indignarsi di fronte alle ingiustizie.
Poco dopo i fatti di Genova fu un mio caro amico a chiedermi se volevo collaborare a Ecomancina, sito internet di informazione alternativa da lui creato (ne nacquero molti in quel periodo, un po’ per il grande fermento che portava il movimento duramente represso qualche settimana prima, un po’ come reazione sdegnata di fronte ai giorni del G8). Uno dei primi articoli che scrissi per Ecomancina fu dedicato proprio ai fatti del G8: letto oggi apparirebbe vago e incompleto, perché nato quando ancora non erano emersi elementi che avrebbero portato a una visione più dettagliata di quei giorni. Il mio pezzo in quel momento poteva basarsi pressochè solo su testimonianze raccolte sul web e sui documenti della prima (nonché unica e deludente) Commissione Parlamentare di indagine conoscitiva, varata in fretta e furia dal governo allora in carica.
Perdonami, ma voglio fare un lungo inciso su quel “grande testimone di quei fatti”, con cui mi definisci e di cui ti ringrazio. Voglio soffermarmi dunque su quelle testimonianze cui accennavo, lasciate da ragazzi e ragazze via internet, a pochi giorni di distanza dalla repressione genovese e quindi senza la mediazione di successive elaborazioni o riflessioni.
Quelle lettere, quelle mail fatte circolare in rete, mi colpirono nel profondo. Era come assistere a un traboccare di emozioni, a un’esigenza di raccontare in cui rabbia e denuncia si mescolavano alla sensazione d’aver preso parte a qualcosa di grande, a un momento cruciale che rischiava (come poi, in parte, è stato) di venire riscritto e stravolto dalle cronache dei media. Tutte le testimonianze erano unite da un fermento, quasi una smania, non tanto di raccontare, quanto di dover raccontare affinché restasse un segno e una traccia del proprio vissuto, al fine di scongiurare il pericolo dell’oblio.
Questa lunga divagazione ha un senso: essere definito “un grande testimone di quei fatti” mi onora (e mi responsabilizza: sì, ho cercato e cerco di esserlo). Ma credo che i veri testimoni siano stati tutti quei ragazzi e ragazze che hanno lasciato la propria testimonianza diretta, prima in rete e poi in altre forme.
E’ a loro che si deve dire grazie. Io, da scrittore, ho cercato semplicemente di fare la mia parte. E se nel 2001 ero assente, negli anni successivi non sono mai mancato agli appuntamenti genovesi che, senza interruzione, nei vari anniversari ricordano quei giorni.
Nonostante le numerose omissioni, le contraddizioni, le false testimonianze, dai processi è emersa, almeno in parte, la verità su quei giorni: si può parlare di giustizia?
Direi di no. La giustizia, per quanto mi riguarda, è cosa disgiunta dalla “liturgia” di un tribunale. Guardo le dinamiche processuali con rispetto, s’intende, e capisco che molti risultati sono stati raggiunti. Aggiungo: non dimentico che pure singoli elementi dello Stato (per fare un nome, penso al PM Zucca, che ha lungamente lavorato al processo Diaz) hanno combattuto omissioni e insabbiamenti. E sicuramente persino nel processo a 25 manifestanti per “disordini di piazza”, la sentenza (pure criticabile, in considerazione delle durissime pene comminate per atti che, nella peggiore delle ipotesi, possono essere classificati come gravi danneggiamenti a cose, non certo a persone…) ha almeno ammesso che l’attacco al corteo dei disobbedienti, che portò alla tragedia di Piazza Alimonda, fu “non solo illegittimo, ma ingiustificato e sproporzionato alla situazione” (il tribunale è giunto a definire la prima reazione dei manifestanti “una reazione legittima nei confronti di atti arbitrari dei pubblici ufficiali”).
Però ricordo anche che l’omicidio di Carlo Giuliani non è nemmeno arrivato in un’aula di tribunale (il procedimento penale a carico di Mario Placanica, il carabiniere che avrebbe sparato, è stato archiviato dal GIP Elena Daloiso il 5 maggio 2003). Inoltre, i processi su quanto accaduto alla scuola Diaz e a Bolzaneto hanno avuto, paradossalmente, più un effetto di indignazione europea che non effetti reali, qui da noi, sui condannati: molti, anche dopo la momentanea interdizione dai pubblici uffici, hanno proseguito la propria carriera, anche recentemente, andando a occupare posti di rilievo in apparati dello Stato. Potrei aggiungere altri elementi negativi: il rifiuto a istituire una commissione d’inchiesta, anche durante il governo di centrosinistra; la fatica per inserire nel nostro ordinamento il reato di tortura (peraltro nato assai male e solo dopo una lunga gestazione, ma su questo tornerò in seguito…); e altro ancora…
Insomma, quella che secondo Amnesty International è stata “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” non mi sembra avere avuto una risposta adeguata.
In generale: le forze dell’ordine non hanno operato alcuna seria autocritica su quanto accaduto; la politica è stata timida o peggio; conseguentemente, nel Paese non è maturata una vera consapevolezza sui fatti di Genova e da questo non può derivare neppure la speranza che simili situazioni non si ripetano in futuro.
Voglio raccontarti un aneddoto apparentemente banale, che mi dà l’occasione per citare due fra i maggiori testimoni di quelle giornate e un loro libro (ossia: Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci, “L’eclisse della democrazia” – Feltrinelli, 2011).
L’aneddoto risale alle fasi preliminari del processo Diaz, quando ancora gli accusati partecipavano alle udienze (in seguito, ricordo, la maggior parte degli imputati si avvalse del diritto di non rispondere: una scelta legittima, ma incoerente col proprio ruolo di pubblici ufficiali che dovrebbero collaborare con la magistratura).
Ad una di queste udienze preliminari parteciparono molte vittime, con il ruolo di parti civili. Ragazzi e ragazze in gran parte giunti dall’estero. Furono fatti passare dal metal detector, all’ingresso del tribunale. Fra questi c’era Lena Zuhlke. Forse la ricorderai: la sua foto in barella all’uscita della Diaz, gravemente ferita e il volto sanguinante, è una delle più famose di quella notte.
Lena fece suonare il metal detector. Le chiesero di togliere la cintura, di cercare nelle tasche gli oggetti di metallo… Insomma, niente di grave, per carità: è quello che capita a tutti noi normalmente in un aeroporto… Il punto è che, contemporaneamente, al suo fianco scorrevano gli indagati (poi sarebbero diventati imputati), ossia i funzionari di polizia: loro venivano salutati ossequiosamente dagli agenti in servizio nel palazzo e non dovevano passare dal metal detector.
E’ un episodio minimale, lo so. Forse, dopo tanti anni, può fare persino sorridere. Ma io credo che alle piccole cose si debba stare attenti: a volte sanno insegnare parecchio, se le si sa comprendere… Le vittime erano controllate, guardate con sospetto; gli accusati no, perché erano “una costola” dello stesso apparato che stava esercitando i controlli.
Mi chiedi se si può parlare di giustizia: è bastata la cintura di Lena a mandare in tilt la giustizia dello Stato…
Lo scorso mese di luglio è stato introdotto in Italia il reato di tortura. Cosa pensi a riguardo?
Ricordo, innanzitutto, che la storia dell’introduzione del reato di tortura in Italia è lunga e sofferta: parte almeno dal 1988, quando il nostro paese ha ratificato la Convenzione ONU in materia.
La Legge approvata non mi sembra rispondere né alla convenzione Onu, né alle sentenze di condanna contro l’Italia emesse dalla Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz.
La legge prevede la tortura come reato comune, e non “esclusivo” del pubblico ufficiale. Non ne faccio una questione di forma (non ne avrei nemmeno la competenza), ma di sostanza. La norma è scivolosa (le violenze, fisiche o psicologiche che siano, devono essere plurime; manca la imprescrittibilità del reato; non mi risulta sia prevista l’automatica sospensione o rimozione dei pubblici ufficiali colpevoli…). Insomma, non ho una preparazione legale per cui il mio giudizio, voglio sottolinearlo, non ha certo una patente di autorevolezza, ma non so quanto sia utile questa Legge. Ti dirò di più: non so se mai sarà applicata, e addirittura non sono sicuro che i processi su Diaz o Bolzaneto avrebbero avuto uno sviluppo diverso, con una Legge simile già in vigore…
In altre parole, ritengo che il “problema tortura” possa essere efficacemente sintetizzato con questa frase di Leonardo Sciascia: “Non c’è paese al mondo che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura: ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie, sottopolizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto – anche quando se ne proclamano antesignani e custodi – il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio”.
La frase di Sciascia è terribilmente attuale. E non sarà questa Legge a cambiarne la sostanza.
Mi racconti l’esperienza di reti-invisibili?
Ho già detto che Genova è stata uno spartiacque nella mia vita. Da quei giorni nasce la mia amicizia con Haidi Gaggio Giuliani, madre di Carlo, e la volontà di assisterla nella sua idea di un sito internet che raccogliesse al suo interno la storia di Carlo, di “quelli di Genova”, di quelli venuti prima e, purtroppo, dopo.
Io e Haidi vedevamo un filo che univa tutte queste vicende. Franco Serantini, Roberto Franceschi, Fausto e Iaio, Carlo Giuliani, Dax, Federico Aldrovandi… E poi Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Stazione di Bologna, Ustica… E questo è solo un piccolo estratto di un elenco ben più lungo di nomi e luoghi… Un elenco che segna, con la sua drammatica scia di sangue, gli ultimi decenni della storia dell’Italia repubblicana.
Certo, sono diversi i momenti storici in cui si sono svolti i fatti, diversa ed eterogenea la componente umana che è stata dolorosamente segnata… Ma, ripeto, vedevamo molto in comune, fra queste vicende.
Innanzitutto la matrice della mano omicida: fascisti, organizzazioni mafiose, elementi delle forze dell’ordine rimasti impuniti.
Poi i silenzi, le inefficienze, i depistaggi che hanno contraddistinto l’operato di certi apparati dello Stato, rendendo difficoltose le indagini ed ostacolandole in modo spesso irrimediabile.
Infine la mancanza, totale o parziale, di verità e giustizia per tutti questi casi. Troppo spesso i colpevoli e i mandanti degli omicidi non sono stati individuati, e quando individuati sono quasi sempre rimasti impuniti… Un’impunità che diventa pressochè totale se limitiamo l’analisi alle vittime per mano delle forze dell’ordine.
Accettare questa analisi significa anche accantonare quelle differenze di valutazioni personali o di contesto storico cui accennavamo in premessa. Poco conta che alcune delle vittime di quel tragico elenco abbiano come comune denominatore l’impegno politico che le ha trasformate in bersagli (Carlo Giuliani, Piero Bruno, ecc.) e che altre siano state solo innocenti vittime della perversa logica delle stragi (Piazza Fontana, stazione di Bologna ecc.), trovandosi presenti nel momento sbagliato in “quel treno” o in “quella piazza” o in “quell’aereo”: quel che conta è riconoscere l’omogeneità della mano omicida e la colpevole assenza dello Stato nella ricerca della verità.
Il sito (reti-invisibili.net) partiva dalla ferma volontà di accantonare le differenze in favore dei punti di contatto nelle varie vicende; dalla determinazione a non accettare l’impunità di cui hanno goduto esecutori o mandanti (e in alcuni casi entrambi) di quegli omicidi e di quelle stragi.
Si trattava di creare un portale, ma anche una rete relazionale fra quelle realtà (dai comitati genovesi – Comitato Piazza Carlo Giuliani e Comitato Verità e Giustizia per Genova – a quelli storici dei familiari delle stragi, fino ai familiari delle vittime “singole”, fossero o meno costituiti in associazioni o altre forme). Ed è stata un’esperienza arricchente anche per me, sul piano professionale e ancor più su quello umano.
La rete di relazioni era forse la cosa più importante, ed esiste tuttora. Il sito ha funzionato per dieci anni e solo un “crash informatico” lo ha fermato. Io, che pure lo aggiornavo quasi quotidianamente, non ho purtroppo grandi competenze informatiche (anzi…). Altri, più preparati di me, stanno tribolando per riportarlo on line. Oggi il mondo del web è parecchio diverso dal 2003, quando reti-invisibili muoveva i primi passi: forse si dovrebbe studiare una forma diversa, più adatta alla dimensione social che il web ha assunto; una dimensione che non amo molto, ma in campo comunicativo è importante stare al passo coi tempi.
Com’è nata l’idea del fumetto?
Questa è una storia lunga, e – almeno temo – curiosa e interessante solo per me: vedrò di sintetizzarla.
I fumetti e l’impegno politico sono sempre state due mie passioni. Ma, credimi, non avrei mai pensato di diventare uno scrittore di fumetti (di disegnarne, per la fortuna dei lettori, non se ne parla proprio per manifesta incapacità…). Alla fine dei ’90 cominciarono ad apparire in internet i primi forum di discussione sui comics: una bella occasione per rinvigorire quella mia passione. In questo ambito fui avvicinato da Marco Rizzo, che stava lavorando sul suo fumetto su Ilaria Alpi. Se non sbaglio era il 2007: Marco sapeva che avevo già intervistato i genitori di Ilaria e mi chiese di occuparmi dei redazionali. Da qui nacque la mia conoscenza con Guido e Federico, ossia l’editore BeccoGiallo, che negli anni seguenti mi affidarono la cura di altri apparati redazionali. Credo che abbiano visto nei miei articoli un certo “piglio narrativo”, così arrivò la prima proposta di sceneggiatura: Piazza Fontana, per i disegni di Matteo Fenoglio, a fine 2009, cui ne sono seguite altre.
Già subito dopo il luglio 2001 era nata la mia amicizia con la famiglia di Carlo. Della madre, Haidi, ti ho già detto: avevamo fatto diverse iniziative assieme, avevamo creato reti-invisibili (con l’aiuto di altri, s’intende: lo specifico perché non è corretto identificare in me l’unico deus ex machina del sito). Fu proprio lei a chiamarmi poco dopo aver letto Piazza Fontana, chiedendomi se me la sentivo di realizzare un fumetto sul figlio. Una cosa a cui, a dire il vero, stavo già pensando… ma ammetto che non so se avrei trovato il coraggio di farlo, senza quella telefonata! Avevo sempre pensato, infatti, che uno dei nodi della tragedia di Piazza Alimonda stesse nella “cristallizzazione” della figura di Carlo in quell’attimo tragico, le 17,27 del 20 luglio 2001, quando fu ucciso. E, d’altro canto, avevo già intervistato diversi “familiari di vittime” (perdonami l’orribile definizione, che uso solo per sintesi), rispettando l’esigenza di separare la dimensione affettiva di un dato fatto (personale) da quella politica o sociale (di tutti). Sarebbe stato dunque possibile, e soprattutto corretto verso la famiglia, raccontare “l’uomo Carlo”, oltre alla tragedia di Piazza Alimonda? Sarei stato in grado di scrivere un lavoro che unisse l’aspetto privato con quello dell’inchiesta giornalistica? Parlando con Haidi capii che anche la famiglia vedeva positivamente l’idea di realizzare un lavoro in cui non si affrontasse solo l’omicidio, ma si parlasse anche del lato umano di Carlo.
Conoscevo da poco tempo Manuel De Carli, avevo letto e apprezzato alcuni suoi lavori: ho da subito pensato fosse il disegnatore adatto. E’ cominciata così una delle amicizie a me più care, oltre che una collaborazione artistica fra le più proficue: dopo “Carlo Giuliani, il ribelle di Genova” (Beccogiallo, 2011; pubblicato in Francia per Les Enfants Rouges e in Germania per Bahoe Books), abbiamo pubblicato un omaggio a fumetti alla partigiana Teresa Mattei e altre storie brevi. Ora stiamo lavorando a un altro progetto comune.
Come dicevo prima, io e Manuel abbiamo voluto ripercorrere non solo l’ultima giornata di Carlo, ma la sua vita. Ci sono stati preziosi i colloqui avvenuti direttamente con i familiari (i genitori Haidi e Giuliano e la sorella Elena), i ricordi degli amici, le sue poesie e i suoi biglietti, che testimoniano una personalità complessa e sfaccettata, ma soprattutto una sensibilità fuori dal comune, ben diversa dall’immagine da vandalo che sbrigativamente i media hanno costruito attorno alla vittima. Per me e Manuel è stato anche il mezzo con cui smontare l’immagine di ragazzo “figlio di nessuno” che molti gli hanno voluto cucire addosso. Questo, sia chiaro, non avrebbe reso meno tragico l’omicidio, ma abbiamo voluto comunque testimoniare come Carlo fosse parte integrante di una famiglia che l’amava.
Hai parlato delle molte testimonianze su quei giorni e, ora, del tuo fumetto. In generale, anche a livello artistico Genova ha prodotto molte testimonianze. Volevo un tuo parere al riguardo…
Esatto: cinema, teatro, narrativa, canzoni, saggistica… Opere di ricostruzione giornalistica e altre di fiction… C’è davvero di tutto.
Questo sicuramente dimostra quanto Genova abbia segnato non solo le vite di chi è stato dolorosamente toccato dalla repressione, ma pure l’immaginario artistico: è l’effetto di quei “fatti periodizzanti” di cui ti dicevo all’inizio.
Non voglio parlare di tutte le opere narrative uscite sull’argomento: sarebbe lungo, dispersivo e non sono abbastanza competente per parlare di mezzi artistici che non mi appartengono.
Mi fermo solo al fumetto: sono davvero tanti gli autori che, in diversi momenti, hanno parlato di Genova; molti per esperienza diretta. Oltre a me, voglio citarne due per una riflessione generazionale: Claudio Calia e Zerocalcare.
Nel 2001 io avevo 35 anni. La mia era la generazione che tornava in piazza, dopo il riflusso. Come accennato all’inizio, non avessi avuto una figlia di pochi mesi a Genova sarei stato presente pure io, e posso testimoniare che molti amici della mia età arrivarono al capoluogo ligure dopo anni di assenza dalle manifestazioni. Claudio aveva 24 anni, era presente al corteo del 20 luglio. Quella era la “sua piazza”, della sua generazione, nella piena maturità. Zerocalcare, 17 anni all’epoca, rappresenta la generazione che per la prima volta si affacciava a manifestazioni politiche pubbliche. Anche oggi, dopo aver raggiunto la notorietà presso il grande pubblico, non ha mai smesso di ricordare nei suoi fumetti la sua traumatica esperienza genovese… Insomma, anche pensando al solo microcosmo del fumetto possiamo notare che l’importanza di quei giorni è avvertita trasversalmente, anche a livello generazionale.
Nel quindicesimo anniversario, nel 2016, in Piazza Alimonda ho coordinato un’iniziativa di disegno live di diversi fumettisti. In generale, il mondo artistico non ha mai dimenticato il luglio 2001. Nei diversi anniversari, il Comitato Piazza Carlo Giuliani e il Comitato Verità e Giustizia per Genova hanno organizzato moltissime iniziative, in Piazza Alimonda sono sempre presenti cantanti, attori teatrali, scrittori, registi…
L’arte non ha dimenticato Genova e lo testimonia ancora oggi nei fatti. Politica e informazione, con lodevoli eccezioni, sono state assai più distratte…
I fatti del G8 di Genova sono ancora un tabù? Secondo te quale percezione ha l’opinione pubblica di quei fatti?
Difficile dirlo. Parlo in generale, ovvio: è chiaro che gli esseri umani sono talmente complessi che è possibilissima qualsiasi sfumatura di giudizio e di approccio, persino quella più impensata di qualcuno che, tanto per dire, si è documentato sul luglio genovese, cambiando le proprie iniziali convinzioni. Ma in generale mi sembra che (almeno qui in Italia, in altri paesi non so) non ci sia questa possibilità.
Qui da noi, la storia delle vittime delle forze di polizia reca con sé la tendenza a formare degli schieramenti “a prescindere”, come direbbe Totò. Appena uno tocca un argomento del genere (Genova, certo, ma è capitato pure per Cucchi e Aldrovandi, per citare due fra i casi più noti) parte una litania difensiva in nome del rispetto per le forze dell’ordine. E’ strano: io credo che proprio il rispetto del loro ruolo, affinchè sia sano e non un dogmatico “atto di fede”, pretenderebbe una trasparenza assoluta che purtroppo manca. D’altro canto la storia del nostro Paese è una continua testimonianza proprio dell’incapacità degli apparati dello Stato a mettersi in discussione, figuriamo ad indagare su se stessi (reti-invisibili era nato per questo, in fondo…). In questo contesto mi è difficile pensare che ci sia la voglia di mettere in forse proprie convinzioni precostituite.
Poi, certo, devo collegarmi con quanto dicevo all’inizio sull’importanza dei racconti dei diretti interessati. Checchino Antonini, giornalista e voce attenta ai movimenti sociali, ha scritto spesso: “O ti racconti o sei raccontato”. E’ una frase che mi viene spesso in mente se penso al luglio 2001: a Genova voci singole hanno saputo farsi cronaca collettiva, scardinando le veline ufficiali, dimostrando di saper contrapporre la propria narrazione a quella di media sempre più distratti e servili. La “normale perquisizione” della scuola Diaz ormai per tutti è la “macelleria messicana”. Con buona pace di chi nell’immediatezza tentò di additare “i ragazzi della Diaz” come la centrale operativa dei disordini avvenuti nei giorni precedenti. E sappiamo delle torture nella caserma di Bolzaneto. Sono fatti certificati da sentenze, ma prima ancora da decine di testimonianze che hanno fatto carta straccia delle menzogne ufficiali.
Insomma, alla storia di una città messa a ferro e fuoco da centinaia di vandali, di fronte ai quali le forze dell’ordine hanno reagito macchiandosi al più di singoli eccessi, ormai in pochi possono credere restando in buona fede. Ma la buona fede non gode di ottima salute, in Italia. E la voglia di informarsi sta pure peggio…
La violenza di quei giorni in strada, l’irruzione alla Diaz, il lager di Bolzaneto hanno offuscato sia il vertice che le ragioni del contro-vertice. A distanza di sedici anni cosa pensi a riguardo?
Credo che tu abbia toccato un aspetto cruciale e forse mai davvero affrontato.
Anche negli incontri pubblici a cui ho partecipato spesso ci si sofferma solo sulla repressione subita. Questo è sacrosanto, intendiamoci, e pure tutto quello che ho scritto sull’argomento va in quella direzione. Però a volte mi sembra sfugga una domanda: “ma perché eravamo andati a Genova?” (ovviamente unisco nella domanda i presenti e chi, come me, era assente ma era comunque parte del movimento e l’ha testimoniato poi).
Perché, vedi, di sicuro non siamo andati a Genova per farci massacrare (non siamo masochisti). Siamo andati a Genova perché, come accennavo all’inizio, eravamo portatori di una proposta concreta di cambiamento. Non ci hanno malmenato perché “questo li divertiva”, ma perché volevano cancellare la nostra proposta (variegata? Certo, ma non per questo meno concreta). Tanto è vero che, anche se nessuno oggi lo ricorda, i giorni dal 19 al 21 luglio 2001 – prima di trasformarsi in ciò che sono stati – dovevano essere teatro di diverse iniziative propositive: il corteo internazionale dei migranti del 19, piazze tematiche al di fuori della zona rossa, il corteo dallo stadio Carlini del 20, un altro corteo con comizio finale per il giorno 21… Insomma, Genova doveva essere teatro di un vero e proprio contro-vertice, in cui alle scelte neoliberiste del G8 (ossia degli 8 autonominatisi “potenti della terra”) non si opponeva solo una contestazione, ma soprattutto si rispondeva con teorie alternative.
Ecco: oltre all’omicidio di Carlo, ai pestaggi lungo le vie del capoluogo, alla notte dei manganelli della Diaz e alle torture di Bolzaneto, forse al vertice G8 del 2001 va aggiunta un’altra colpa, meno palese ma altrettanto grave: da lì è iniziata l’opera di cancellazione della proposta politica (e culturale) di un’intera generazione. Ormai dovremmo saperlo, per il carrozzone dei “grandi della terra” la strategia più efficace non è tanto quella di vendere la loro visione del mondo come fosse la migliore, ma evidenziare che non esistono alternative. Non è una cosa nuova, “there is no alternative”, diceva la Tatcher, era un suo motto.
Non è neppure il caso di sottolineare, quasi 17 anni dopo, come le politiche neoliberiste si siano rivelate fallimentari.
Che tanti anni dopo, resta solo amarezza.
L’amarezza di una politica che non ha saputo dare risposte all’altezza degli accertamenti processuali e delle testimonianze raccolte. Che si è schierata acriticamente e trasversalmente a difesa delle forze dell’ordine, senza neppure chiedere un passo indietro ai condannati. Che non ha saputo concretizzare neppure alcuni semplici correttivi alle operazioni di polizia, come la riconoscibilità degli agenti in ordine pubblico (per dirne solo uno).
L’amarezza per alcuni manifestanti che, rispolverando un reato (la “devastazione e saccheggio”) proprio del codice di guerra e più adatto agli Unni di Attila, hanno subito condanne sproporzionate ai fatti contestati e in tragicomico contrasto con quelle emesse verso le forze dell’ordine.
Infine, l’amarezza e il dolore più grandi: per Carlo Giuliani. Gli altri episodi di quelle giornate hanno tutti avuto perlomeno la risposta di un processo (con risultati altalenanti, certo). Come ti accennavo prima, Il fatto oggettivamente più grave e irrimediabile, l’uccisione di un ragazzo, è anche, per sciagurato paradosso, l’unico a non essere stato discusso in un’aula di tribunale
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