di Jack Rasmus  –

La stampa finanziaria e quella prevalente in questo mese, settembre 2018, hanno pubblicato, nel suo decimo anniversario, numerosi resoconti della crisi finanziaria del 2008. L’attenzione, questo mese, si è concentrata sul crollo della banca d’investimenti Lehman Brothers che accelerò l’implosione generale del sistema finanziario negli USA e nel mondo dieci anni fa. Il prossimo mese, ottobre, senza dubbio sentiremo altro sul crollo e sulla sua estensione alla mega compagnia di assicurazioni AIG, e oltre essa ad altri intermediari (Merrill Lynch), banche di medie dimensioni (Washington Mutual), ai rami finanziari di compagnie automobilistiche (GMAC) e a grandi conglomerati (GE Credit) e fino alle banche “troppo grandi per fallire” come Bank of America e Citigroup e altre. Questi “rapporti” sono solitamente di natura narrativa, comunque, e hanno poco da offrire quanto a una più profonda analisi storica e teorica.

Paralleli e confronti 1929 & 2000

Si dice spesso che i mesi iniziali del crollo del 2008-09 posero l’economia statunitense su una traiettoria di collasso sinistramente simile a quella del 1929-30. Le perdite di posti di lavoro si verificarono in media al ritmo di un milione il mese da ottobre 2008 fino a marzo 2009. Si potrebbe perciò pensare che gli economisti che vanno per la maggiore esaminerebbero da vicino i due periodi – cioè 1929-30 e 2008-09 – per stabilire quali schemi o cause analoghe si sono verificati. O per un’analisi profonda dei periodi immediatamente precedenti il 1929 e il 2008 per capire quali somiglianze hanno prevalso. Ma non l’hanno fatto.

Quello che abbiamo ottenuto dalla dirigenza dell’economia dopo il 2009 è stata una dichiarazione semplicemente che il crollo del 2008-09 è stato una “grande recessione” e non una recessione “normale” come quella verificatasi dal 1947 al 2007 negli USA. Ma non ci è stato offerto alcun chiarimento quantitativo o qualitativo riguardo a che cosa abbia distinto la “grande” recessione dalla “normale”. Paul Krugman ha coniato il termine, “grande”, ma non ha spiegato come grande fosse diverso da normale. E’ stata in qualche modo peggiore di una recessione normale e non così brutta come una vera e propria depressione. Ma questo è semplicemente condurre un’analisi economica mediante aggettivi.

Sarebbe importante offrire una spiegazione migliore, più dettagliata del 1929 rispetto al 2008, poiché il crollo del 1929-30 condusse alla fine a una vera e propria grande depressione con l’economia statunitense che continuò a contrarsi ulteriormente e sempre più in profondità dall’ottobre 1929 fino all’estate del 1933, mossa da una serie di quattro crolli bancari dalla fine del 1930 fino alla primavera del 1933 dopo l’iniziale crollo del mercato azionario dell’ottobre 1929. Per contro il crollo finanziario del 2008-09 si è stabilizzato dopo la metà del 2009.

Un’altra somiglianza tra il 1929 e il 2008 è stata che l’economia statunitense ristagnò nel 1933-34 – né riprendendosi solidamente né crollando ulteriormente – e l’economia statunitense è stagnata anche nel 2009-12. Dopo aver assunto la carica nel marzo del 1933 il presidente Roosevelt introdusse un programma di ripresa filo-industriale, nel 1933-34, concentrato sull’aumento dei prezzi e l’avvio di un grande salvataggio bancario. Quel salvataggio fermò un ulteriore crollo finanziario ma non generò molto in termini di ripresa dell’economia reale. Analogamente, Obama ha salvato le banche (in realtà lo ha fatto la Federal Reserve) nel 2009 ma anche il suo programma di ripresa del 2009-10, in modo molto simile a quello di Roosevelt del 1933-34, non ha generato molta ripresa dell’economia reale.

Dopo le mancate riprese concentrate sulle imprese, cominciano a mostrarsi le differenze tra Roosevelt e Obama. Nel corso delle elezioni di medio termine del 1934 Roosevelt cambiò le politiche promettendo, e poi introducendo i programmi del New Deal. In seguito l’economia si riprese vigorosamente nel 1935-37. Per contro Obama ha mantenuto il corso e raddoppiato il suo programma di ripresa concentrato sulle imprese nel 2010. Egli ha offerto 800 miliardi di dollari di ulteriori tagli fiscali alle imprese, rimborsati con un trilione di dollari in programmi di austerità per il resto di noi nell’agosto 2011.

Non sorprendentemente, diversamente dal ‘New Deal’ [Nuovo patto] di Roosevelt, che stimolò considerevolmente l’economia a partire dal 1935 dopo le elezioni di medio termine, il “Phony Deal” [Patto fasullo] di ripresa di Obama del 2009-11 ha avuto come risultato un’economia reale statunitense che ha continuato a stagnare dopo il 2009.

I confronti storici suggeriscono che sia la grande depressione del 1929-33 (una fase di crollo continuo) sia la cosiddetta ‘grande’ recessione del 2008-09 condividono somiglianze interessanti. Sia il periodo iniziale della depressione degli anni ’30 – da ottobre 1929 fino all’autunno del 1930 – sia il periodo di circa nove mesi da settembre-ottobre 2008 fino a maggio 2009 appaiono molto simili: un crollo finanziario ha avuto in entrambi i casi un grande seguito nel crollo dell’economia reale e dell’occupazione.

Ma l’evento del 1929 prosegue, aggravandosi per altri quattro anni, mentre l’evento post 2009 si stabilizza in termini di declino economico. In seguito, politiche simili di sovvenzioni alle imprese (1933-34 e 2009-11) conducono a un periodo simile di stagnazione. Obama continua le politiche di favore alle imprese e di stagnazione, mentre Roosevelt rompe con le politiche filo-imprenditoriali e si concentra sul New Deal per ripristinare lavoro, salari e redditi delle famiglie, e la ripresa accelera. Diversamente da Roosevelt che stimola la spesa fiscale mirando alle famiglie, Obama si concentra su altri tagli fiscali alle imprese – cioè altri 1,7 trilioni di dollari (800 miliardi a dicembre 2010 più altri 900 miliardi di proroga di altri due anni dei tagli fiscali di George W. Bush) successivamente tagliando i programmi sociali per un trilione di dollari ad agosto 2011 per pagare i tagli fiscali alle imprese del 2010-11.

I confronti delle politiche associate alla ripresa e alla non ripresa sono chiaramente determinanti per i risultati comparativi del 1935-37 e del 2011-11, così come le strategie orientate alle imprese del 1933-34 e del 2009-10 che hanno determinato riprese stagnanti. Ma i risultati politici delle differenze nelle politiche sono particolarmente divergenti e interessanti.

Non meno interessanti sono le conseguenze politiche per il Partito Democratico. La campagna di Roosevelt del 1934 sulla promessa di un New Deal fece sì che il partito dilagasse al Congresso più di quanto aveva fatto persino nel 1932. Conquistò nel 1934 seggi che gli permisero nel 1935 di far passare il New Deal proposto da Roosevelt nonostante l’opposizione Repubblicana. Per contro, Obama ha mantenuto e persino accresciuto i suoi programmi filo-industriali prime delle elezioni di medio termine del 2010 con la conseguenza di una forte perdita dei Democratici al Congresso a tali elezioni di medio termine. Dopo di ciò i Democratici sono stati ostacolati da una Camera e un Senato Repubblicani che hanno bloccato qualsiasi cosa. Obama, ciò nonostante, ha continuato a rivolgersi ai Repubblicani chiedendo un compromesso, ma i Repubblicani gli hanno morso la mano a ogni apertura.

Obama ha chiesto agli elettori statunitensi una seconda opportunità nel 2012 e loro gliel’hanno concessa. Il risultato è stato una serie delle stesse ingenue richiesta di compromesso, rifiuti e una continua stagnazione dell’economia statunitense. I Repubblicani nel frattempo hanno anche allargato il loro controllo a livello statale e locale di posti da governatore, parlamenti e magistratura locale in tutto il periodo di Obama.

La conseguenza finale di tutto questo è stata Trump nel 2016, con i Democratici di Obama che promettevano altra della stessa minestra alle elezioni presidenziali del 2016. Sappiamo che cosa è avvenuto dopo.

 

Conseguenze per le elezioni di medio termine del 2018

Mentre si approssimano ancora altre elezioni di medio termine, novembre 2018, siano ancora una volta inondati da proiezioni dei media dominanti di un’”onda blu (Democratica)” in arrivo. Ma sono oggi gli stessi sondaggisti degli stessi media che a ottobre 2016 proclamavano che Trump aveva solo il 15 per cento di probabilità di vincere le elezioni del 2016. Che cosa è cambiato per cui dovremmo credere ai sondaggisti, ai media e ai Democratici che a questo turno i Democratici siano ampiamente in testa?

Certo, ci sono state alcune notevoli vittorie progressiste in solidi elettorati molto urbani. Ma ciò non garantisce necessariamente le loro proiezioni ottimistiche. Una probabile maggiore affluenza degli elettori in tali distretti urbani per il Congresso deve essere valutata in confronto con i continui tentativi dei Repubblicani e di Trump di negare a milioni il loro diritto di voto, la continua realtà della manipolazione dei distretti da parte di governatorati e parlamenti a guida Repubblicana e la grande macchina dei soldi di miliardari di ultradestra come i fratelli Koch, i Mercers, gli Adelmans e altre famiglie della destra radicale dietro Trump che ora ci dà dentro per offrire una montagna di soldi ai sicofanti di Trump candidati a cariche. E non dimentichiamo quei milioni di statunitensi finti religiosi-morali che sostengono Trump nonostante la sua misoginia, il suo razzismo, gli attacchi alla stampa e ai migranti e il suo evidente disprezzo anche per le limitate istituzioni democratiche e i precedenti che a malapena ancora prevalgono oggi negli USA. Come i tedeschi che amavano Hitler, ma non necessariamente la filosofia nazista, lo seguiranno oltre ogni precipizio.

La generazione del millennio si presenterà a votare nel 2018 quando non l’ha fatto nel 2016? Che cosa le hanno promesso questa volta i Democratici cui crederà? Perché dovrebbe pensare che i Democratici siano diversi ora?  I latinoamericani e gli ispanici si presenteranno questa volta, quando i Democratici hanno promesso lo scorso febbraio “una linea da non oltrepassare” per una legge a favore dei Dreamers [i migranti in attesa di regolarizzazione – n.d.t.] oppure non avrebbero approvato la proroga del tetto al debito USA, e poi hanno ceduto ancora una volta? Donne e professionisti (indipendenti) stanchi delle buffonate e della misoginia di Trump possono tornare a votare per i Democratici. Forse questa volta anche un po’ di lavoratori del Midwest iscritti al sindacato che avevano abbandonato Hillary nel 2016. Ma basterà?

Che cosa penserà e proverà il pubblico nel caso Trump e il suo partito Repubblicano ora convertito al radicalismo dovesse mantenere il controllo della Camera e del Senato per altri due anni? Gli è stato annunciato l’arrivo dell’”onda blu”. Ma cosa succederà se quell’onda si dissiperà sulla riva reazionaria che si va approfondendo ormai da decenni negli Stati Uniti? Che cosa farà lo schieramento anti Trump? Dirà: “OK, riproviamoci nel 2020?” E se ne andrà ulteriormente demoralizzato?

L’esito opposto a novembre – una sconfitta di Trump alla Camera – costituirà uno ‘shock’ analogo per la coscienza pubblica, solo questa volta a destra. Che cosa farà l’estrema destra se dovesse risultare che i Democratici conquistassero la Camera e annunciassero la procedura di messa in stato d’accusa [impeachment] contro Trump? Il 30 per cento dell’elettorato Trump è debitore solo a lui e non nei confronti delle residue limitate istituzioni democratiche statunitensi.  Lui non può fare nulla di sbagliato, anche se ciò significasse smantellare le vestigia della democrazia negli Stati Uniti.

Nel caso Trump dovesse perdere la Camera è subire la minaccia della messa in stato d’accusa o anche di un rinvio a giudizio da parte del procuratore speciale Mueller, la destra radicale si mobiliterà a livello di base. Bannon con i suoi, foraggiato dal denaro di Mercers et al., può ben dedicarsi a proteste e dimostrazioni popolari di destra. Vorranno “avvertire” i Democratici e altri di procedere con cautela alla messa in stato d’accusa o rischiare l’avvento di una proto-guerra civile nel paese. Una minaccia, se non una realtà.

In collegamento di Trump, dei suoi ricchi sostenitori e sostenitori di base di Trump in libertà in un reale movimento di piazza si tradurrà in un altro passo verso un fenomeno statunitense di tipo fascista. Non siamo ancora lì. Trump non è un fascista. Far girare l’accusa, come fa parte della sinistra progressista, è come gridare “al lupo” prima che esso compaia davvero. Se e quando comparisse come andrebbe chiamato il lupo vero?

Se Trump non è un fascista, egli ha chiaramente delle tendenze alla tirannia e alla dittatura: egli evidentemente si considera al di sopra della legge (definizione di tiranno) avendo già dichiarato che si grazierebbe se rinviato a giudizio. E chiaramente si identifica, e li ama, con uomini forti autoritari come Kim, Duterte e altri che governano da dittatori. In un periodo di crisi ci si potrebbe aspettare che l’amministrazione Trump “governi mediante decreti presidenziali”, forse con il permesso del Congresso. Ma non è ancora un fascista (come dichiarano, sbagliando, molti progressisti). Per essere ha bisogno di un movimento di piazza. Bannon, i Mercers e compagnia potrebbero comunque darglielo nel caso fosse incriminato.

Tale movimento di piazza può essere sufficiente a scoraggiare i timidi liberali e Democratici al Congresso dal procedere con la messa in stato d’accusa salvo che a chiacchiere nel caso conquistassero la Camera a novembre. La dirigenza dei Democratici probabilmente farà marcia indietro, di nuovo, se Trump-Bannon si rivolgessero alla piazza. Perciò i Democratici, nel caso conquistassero la Camera, sarebbero tutte chiacchiere e niente fatti. Ascolteremo invece il vero messaggio, la vera strategia: “completare il cambiamento anti Trump eleggendo un presidente Democratico nel 2020”. Ancora una volta, con Trump e la destra appellantisi a movimenti di base, i Democratici cercheranno di canalizzare tutto lo scontento nelle loro rielezioni. Trump passa la maggior parte del suo tempo in manifestazioni sul campo. Obama è rimasto seduto sulle sue chiappe alla Casa Bianca ed è stato raramente visto o sentito.

Ma quello non è stato il problema di parecchi degli ultimi decenni? I Repubblicani si collegano con il Tea Party, fanno i loro giochi di destrezza, liberano i demoni politici degli Stati Uniti che sempre covano sotto la superficie, mobilitano i portafogli della destra, pervertono quelle che rimane delle istituzioni democratiche, bloccano e sventano ogni legge progressista e sbaragliano i Democratici, che cercano di giocare con le vecchie regole, chiacchierano all’infinito di trasversalità e si ritirano in continuazione di fronte all’attacco della destra.

Con più di cento membri del Comitato Democratico Nazionale, DNC, composti da amministratori delegati e lobbisti di imprese, ci sono scarse probabilità che il Partito Democratico affronterà davvero direttamente Trump e i suoi galoppini. Nel caso i Democratici conquistassero la Camera a novembre, ci saranno prevalentemente chiacchiere di messa in stato d’accusa e mosse simboliche per i media, reindirizzando contemporaneamente lo scontento all’elezione di ancora altri Democratici nel 2020 come strategia reale. Nel frattempo Trump e la destra radicale continueranno a mobilitarsi in difesa, legislativamente, finanziariamente e a livello di base in modi sempre più aggressivi.

Per sintetizzare: il 1929 ci diede Roosevelt e il “New Deal”; il 2008 ci ha dato Obama e un “Phony Deal”. Le elezioni di medio termine del 2018 e la prossima crisi finanziaria che non è distante più di due o tre anni, può darci il “Final Deal” di Trump.

Che Trump sopravviva a novembre e il suo Partito Repubblicano oggi trasformato a sua immagine continui a fargli da scudo e a consentirgli di aggravare le sue politiche radicali, o che i Democratici si prendano la Camera e comincino a parlare di procedure di messa in stato d’accusa, il risultato, nell’un caso e nell’altro, sarà di nuovo una devastazione della coscienza pubblica dal suo atteggiamento prevalente, come successo a novembre 2016. In un modo o nell’altro i prossimi due anni si dimostreranno inequivocabilmente più politicamente inquietanti ed economicamente devastanti dei precedenti.

 

La prossima crisi

La prossima crisi finanziaria – e la successiva grave contrazione, di nuovo, dell’economia reale – è inevitabile. Ed è più vicina di quanto molti pensino, ipnotizzati da tutti i discorsi di un’economia statunitense solida che avvantaggia il 10 per cento al vertice e non il resto. Perché così presto?

La risposta a tale domanda non sarà offerta dall’economia dominante. Sono troppo presi a proclamare l’attuale espansione dell’economia USA, che è esageratamente sopravvalutata dal PIL e da altri dati e non coglie le forze fondamentali alla base dell’economia statunitense e globale oggi, un’economia globale che sta diventando più fragile e dunque suscettibile di un altro grande evento di instabilità finanziaria.

Le forze che condussero al crollo bancario del 2008 erano associate a bolle patrimoniali (statunitensi e globali) e ai mercati dei derivati che consentivano alle bolle di gonfiarsi a livelli insostenibili, derivati che poi propagarono e accelerarono il contagio nei mercati finanziari in generale una volta che le bolle patrimoniali cominciarono a sgonfiarsi.

Il crollo del 2008 non fu, dunque, semplicemente una crisi dei mutui subprime, come dichiara la maggior parte degli economisti. Fu altrettanto, e forse più, una crisi dei derivati finanziari (MBS, CMB, CDO, CDS, ecc.).

In modo più fondamentale rispetto all’apparenza di un crollo dei prezzi dei mutui subprime e persino, dopo, dei derivati, quella del 2008 fu una crisi di eccesso di credito e debito che consentì al boom dei subprime e dei derivati di accelerare le dimensioni della bolla.

Ma i subprime e i derivati erano ancora l’aspetto evidente, i sintomi della crisi. A livello di causa più fondamentale, il crollo del 2008 ebbe le sue origini nelle massicce iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali, guidate dalla Fed USA, che si sono verificate dalla metà degli anni ’80 al presente. La massiccia liquidità offrì il credito a basso costo che alimentò l’eccessivo indebitamento finito nei subprime e nei derivati una volta arrivati al 2008. (E prima di ciò nelle azioni tecnologiche nel 1998-2000, e prima nelle valute asiatiche (1996-97), e nelle banche e nei mercati finanziari giapponesi e nei titoli spazzatura e nelle casse di risparmio statunitensi negli anni ’80, e via di seguito).

L’eccessivo accumulo di debito non è tuttavia l’unica causa di una crisi finanziaria. E’ una precondizione abilitante. Ad agevolare il debito è, innanzitutto, l’eccesso di liquidità e di credito. Tale accumulo di liquidità-credito-debito è quella che ebbe luogo nel decennio degli anni ’20 che condusse al crollo azionario dell’ottobre 1929. E’ quanto è accaduto nei decenni precedenti il 2008, con una particolare accelerazione dopo l’espansione dei derivati finanziari negli anni ’90.

Il debito eccessivo crea le precondizioni della crisi, ma è il crollo dei prezzi degli attivi finanziari che scatena la crisi, poiché il debito eccessivo accumulato non può essere rimborsato (cioè capitale e interessi). Così, se la liquidità fornisce il carburante per la crisi, ciò che scatena lo scoppio è il crollo dei prezzi che accende la fiamma.

Il collasso dei prezzi delle azioni nell’ottobre del 1929 scatenò i successivi quattro crolli bancari del 1930-33. Il collasso dei prezzi delle proprietà (subprime residenziali e anche commerciali) del 2006-07 ha scatenato il crollo delle banche d’investimento nel 2008, riversandosi successivamente su altre istituzioni finanziarie (intermediari, compagnie di assicurazione, fondi mutui, imprese di finanza degli acquisti di automobili, eccetera) dopo il collasso della banca d’investimenti Lehman Brothers a settembre 2008.

Oggi, nel 2018, abbiamo avuto una continua accelerazione del debito dal 2008. Come stimato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) di Ginevra, Svizzera, il debito totale statunitense è salito dai circa 50 trilioni di dollari del 2008 a 70 trilioni alla fine del 2017. In maggioranza si tratta di debiti delle imprese e in particolare di debito di imprese non finanziarie. E’ diverso dal 2008 quando era incentrato sul debito dei mutui. E’ anche potenzialmente più pericoloso.

Il governo statunitense dopo il 2008 ha anche aumentato di trilioni il proprio debito federale, continuando a indebitarsi presso investitori di tutto il mondo al fine di ‘finanziarsi’ per tagliare le imposte a imprese e investitori e proseguire l’intensificazione della spesa bellica. Anche il debito delle famiglie statunitensi è aumentato dal 2008 con l’assenza di salari reali e di aumento dei redditi nel decennio dopo il 2008 che ha determinato 1,5 trilioni di dollari di debiti studenteschi, 1 trilione e più di debiti per l’acquisto di auto e per carte di credito e 7-8 trilioni di debiti per mutui. Globalmente, secondo la BRI, il debito delle imprese non finanziarie è stato anche il principale elemento responsabile dell’accelerazione dei livelli globali del debito, specialmente attraverso l’indebitamento in dollari presso banche e investitori statunitensi (cioè ‘dollarizzazione’ del debito) da parte di economie di mercati emergenti e di debito delle imprese in Cina assunto per mantenere imprese statali e finanziare costruzioni edili locali.

Così il motore del debito ha proseguito come problema senza sosta dal 2008, ed ha persino accelerato. In conseguenza sono comparse bolle di attività finanziarie in tutto il mondo, non minore tra esse l’attuale bolla azionaria negli USA. Questa volta non si tratta di mutui immobiliari. E’ il debito di attività non finanziarie e di imprese ad essere la probabile origine della prossima crisi, negli USA o globalmente o in entrambe le aree.

Dal 2008 le bolle del debito statunitensi e globali sono state gonfiate ancora una volta, come negli anni ’20 e dopo il 1985 dall’eccesso di liquidità fornito dalla banca centrale USA e da altre banche centrali delle economie avanzate. La banca centrale USA, la Fed, ha da sola sovvenzionato banche e investitori statunitensi al ritmo di 6 trilioni di dollari dal 2009 al 2016 in conseguenze delle sue politiche di alleggerimento quantitativo (QE) e di tassi d’interesse prossimi a zero.

Dal 2008 tassi d’interesse eccessivamente bassi e sostenuti per gli investitori e le aziende hanno determinato almeno un trilione di dollari l’anno di accumulo del debito delle imprese, poiché le emissioni di obbligazioni industriali hanno accelerato grazie a denaro ultraconveniente della Fed. Il denaro facile ha consentito a innumerevoli società statunitensi di livello “spazzatura” di sopravvivere all’ultimo decennio, accumulando debito su debito per rimborsare quello precedente. Il denaro facile ha anche alimentato i riacquisti di azioni industriali e distribuzione di dividendi agli investitori, che sono stato ricanalizzati in prezzi delle azioni e bolle. Così il raddoppio e la triplicazione dei profitti delle imprese dal 2008 al 2017 hanno consentito riacquisti di azioni e distribuzioni record di dividendi agli azionisti.

Più recentemente, nel 2017-18, il centro delle sovvenzioni si è spostato dai tagli fiscali di Trump che hanno rilanciato i profitti statunitensi per un ulteriore 20 per cento e più. Con i dati che hanno cominciato a emergere nel 2018, la maggior parte di ciò è ora finito nuovamente in riacquisti di azioni e distribuzioni di dividendi totalizzando quest’ano più di 1,4 trilioni di dollari dopo sei anni di giù un trilione di dollari l’anno di riacquisti e dividendi. Sono più di 7 trilioni di distribuzione da parte degli Stati Uniti societari in riacquisti e dividendi ai propri ricchi azionisti.

Dov’è finita tutta la montagna di denaro offerta agli investitori? Certamente non ad aumentare i salari per i lavoratori. Certamente non ha pagare maggiori imposte al governo. E’ stata dirottata in mercati finanziari negli USA e globalmente – azioni, obbligazioni, derivati, valute, proprietà, ecc. – in fusioni e acquisizioni negli Stati Uniti o semplicemente accumulata nei bilanci in previsione della prossima crisi in avvicinamento. O trasferita in mercati emergenti (mercati finanziari, fusioni e acquisizioni, joint ventures, ampliamento della produzione, ecc.) quando stavano esplodendo nel 2010-16.

Dunque dove cominceranno a crollare i prezzi delle attività finanziarie nelle molte bolle che sono state sin qui create globalmente e negli Stati Uniti in tal modo scatenando ancora una volta la prossima crisi finanziaria? La BRI ha avvertito di osservare i titoli spazzatura e i mercati dei prestiti a effetto leva negli Stati Uniti. Fare attenzione ai nuovi derivati che sostituiscono i vecchi ‘subprime’ e CDS, cioè Fondi Scambiati in Borsa, ETF, fondi indice passivi, dark pool, eccetera. Osservare anche come i mercati azionari statunitensi reagiscono a eventi politici nazionali, a una reale guerra commerciale con la Cina, forse nel 2019, e al continuo crollo delle economie e delle monete dei mercati emergenti, a una crisi del rimborso dei prestiti bancari in sofferenza in Italia, India e altrove, o a un botto dell’economia britannica dopo una Brexit “dura” la prossima primavera, o alla contrazione delle economie asiatiche in reazione al rallentamento della Cina o alla svalutazione della sua moneta, o a qualsiasi sviluppo non ancora previsto. Il crollo dei prezzi in uno qualsiasi dei casi citati può essere l’origine della prossima contrazione delle attività finanziarie che si diffonderà per contagio dei derivati in tutti i mercati globali. E l’ancor più vasta dimensione del debito costruito dal 2008 può rendere l’eventuale deflazione dei prezzi ancor più rapida e grave. E i nuovi derivati possono accelerare ancor più velocemente il contagio nei mercati.

La miccia finanziaria c’è. Tutto quel che oggi ci vuole è una scintilla per accenderla. La prossima crisi finanziaria è in arrivo. Lo scorso decennio, 2008-18, è sinistramente simile ai periodi 1921-1929 e 1996-2007.

Solo che ora arriverà con gli Stati Uniti che sfidano concorrenti stranieri ed ex alleati nel tentare di conservare la loro fetta del commercio globale in rallentamento; con un’economia statunitense che ha devastato per un decennio economicamente le famiglie; con un massiccio debito federale statunitense oggi a 21 trilioni di dollari e che arriverà a 33 trilioni a causa dei tagli fiscali di Trump; con una crisi statunitense del reddito da pensione e dell’accesso all’assistenza sanitaria e dei relativi costi e con un sistema d’istruzione che si sta sgretolando; con un’economia che ha creato solo posti di lavoro prevalentemente contingenti e a bassa paga nei servizi; con un movimento sindacale virtualmente distrutto; con una grande industria farmaceutica che ha scatenato la crisi degli oppiacei che uccide ogni anno di più statunitensi di quelli morti in tutti i nove anni della guerra del Vietnam; con una cultura che consente, senza far nulla, che 40.000 concittadini siano uccisi ogni anno dalle armi; con una trasformazione interna e una ritirata dei due partiti politici consolidati; e con un Trump e un movimento radicale di destra in ascesa e pronto a scendere in piazza per difendersi.

Il dottor Rasmus è autore del libro di prossima pubblicazione “The Scourge of Neoliberalism: US Policy from Reagan to Trump”, Clarity Press, 2019. Tiene il blog jackrasmus.com e il suo profilo Twitter è @drjackrasmus. (Per un’analisi più dettagliata delle somiglianze e differenze tra il 1929 e il 2008 e di come Roosevelt e Obama hanno trattato diversamente la crisi, si legga l’estratto dal libro del 2010 del dottor Rasmus ‘Epic Recession: Prelude to Global Depression’, Plutobook, ora pubblicato sul suo sito webhttp://kyklosproductions.com.  

Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/annelise-orleck-metoo-and-mcdonalds/

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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