Serena Fredda
Il Ddl Pillon non giunge senza preavviso, è infatti uno dei punti del contratto di governo stipulato dalla maggioranza giallo-verde. Rappresenta il primo atto di un’opera di restaurazione di stampo ultra-cattolico e patriarcale che, per il momento, si concentra sul divorzio. Il disegno di legge presentato dall’uomo del Family Day in Parlamento avrà un iter accelerato e approderà al voto delle Camere senza possibilità di modifica. Il movimento femminista si prepara a fermarlo.
Con il Ddl Pillon usciamo dalla polemica politica, dalle provocazioni, dalle intenzioni dichiarate, a cui il ministro Fontana e il senatore Pillon ci hanno abituati fin dagli albori del nuovo governo Lega-M5S. Il Ddl Pillon entra infatti nel merito di 3 questioni chiave – l’affido, il mantenimento e la genitorialità – e lo fa da un punto di vista unilaterale e discriminatorio.
L’affido condiviso viene introdotto in Italia dalla legge 54/2006 che riconosce uguale responsabilità a entrambi gli ex coniugi nella cura dei figli.
La maggior parte degli affidi infatti oggi sono in regime di condivisione. Nei fatti è comunque uno il genitore (nella grande maggioranza dei casi è la madre) che convive con i figli e che ne è il riferimento nella quotidianità. Ciò si è definito sulla base di una esigenza prioritaria: tutelare la stabilità psichica, economica e ambientale dei minori coinvolti, anche dopo la separazione dei genitori. In base a questo principio la casa è normalmente assegnata al genitore di riferimento, che conduce in accordo con l’ex coniuge la ricostituzione del nuovo equilibrio familiare e a cui va anche l’assegno di mantenimento dei figli.
Il Ddl Pillon mette in crisi questo impianto: ciò che si propone infatti è il rovesciamento completo di questo modello per sostituirlo con un regime di divisione netta, contabile e contrattualizzata del tempo, degli spazi e delle spese relativi ai figli.
Del resto, è un presupposto “potere delle madri” ciò che le associazioni dei padri separati attaccano e che Pillon assume come obiettivo.
Più che di “genitorialità condivisa” si parla infatti di “bigenitorialità”, cioè di doppia o parallela genitorialità che rischia di proiettare sui figli la rottura – e la conflittualità – del rapporto tra ex-coniugi.
Materialmente, ciò si traduce nell’eliminazione dell’assegno di mantenimento nella direzione di un mantenimento diretto dei figli che non passi più per l’altro genitore. Questa doppia genitorialità infatti ha ben poco di condiviso, se si ipotizza addirittura la corresponsione di un’indennità da parte dell’ex coniuge a cui rimarrà la casa di famiglia.
Dall’introduzione del divorzio a oggi, sicuramente, si è fatto pochissimo per adeguare welfare e sistema fiscale all’inesorabile trasformazione della famiglia tradizionale, quella fondata sull’indissolubilità del matrimonio.
Il divorzio non è una scelta sempre sostenibile per le famiglie di fasce di reddito più basse, scelta che si paga a prezzo di pesante impoverimento e abbassamento radicale del tenore di vita. Così come sono nulle le iniziative mirate all’eliminazione della disparità salariale, della strutturale disoccupazione femminile e quindi della dipendenza economica che ancora oggi rendono più vulnerabili le donne.
Ma se le passate legislature non hanno preso in considerazione il problema di adeguare anche le politiche sociali e welfaristiche alla trasformazione della famiglia, su questo il Ddl Pillon sceglie deliberatamente di non intervenire. Punta il dito invece sulla conflittualità interna al nuovo equilibrio familiare fingendo di attrezzarsi a risolverla.
E a arbitrare questo conflitto viene forzatamente introdotta la figura del mediatore familiare a cui i due coniugi devono necessariamente ricorrere – a pagamento – per stilare un accordo detto “piano genitoriale”, pena la non procedibilità della causa di separazione.
Insomma, il disegno Pillon introduce l’obbligo di conciliazione attraverso la figura terza del mediatore anche là dove non è desiderato né richiesto, anche nei casi in cui c’è una separazione consensuale e la possibilità che in sede di tribunale (come già accade ora) si definiscano tempi e modi che, tutelando i minori, garantiscano il rapporto di entrambi i genitori con i figli. Per inciso, il senatore Pillon ha come professione principale (vedi scheda anagrafica del Senato) quella di mediatore familiare.
È senz’altro vero che il mantenimento di un rapporto stabile e continuativo con i figli è un problema concreto e non sempre facile da risolvere e garantire. Così come è senz’altro vero che anche il modo di vivere la paternità si è trasformato qualitativamente, va poi sempre considerato che nel ciclo di crescita di un bambino e di una bambina sono differenti le esigenze rispetto a ognuno dei genitori. A questo il disegno di legge risponde introducendo una sorta di standardizzazione fissata su criteri quantitativi che tratta la prole alla stregua di un qualsiasi bene, parte del patrimonio che va equamente diviso tra ex coniugi.
Questo approccio raggiunge i suoi effetti più nefasti proprio nelle situazioni in cui la separazione nasce come esigenza di fuoriuscire da violenza domestica e abusi. È qui infatti che l’obbligo di mediazione familiare impone un accordo là dove non può e non deve darsi, rischiando di esporre a ulteriore violenza sia la donna che i figli. Non a caso nella convenzione di Istanbul si vieta l’obbligatorietà della mediazione familiare.
Il Ddl Pillon sembra quindi assumere, insieme alla battaglia lobbistica dei padri separati, un punto di vista punitivo e vendicativo nei confronti delle donne che cancella ogni altra considerazione in particolare riguardo il benessere psico-fisico dei figli.
In Italia, dove i casi di violenza di genere e di femminicidio registrano tassi elevatissimi e si consumano per circa l’80% in casa o da parte di ex partner, appare particolarmente problematica questa scelta. In particolare ha suscitato indignazione e preoccupazione la surrettizia introduzione della Pas (Parental Alienation Syndrome), battaglia di cui si è fatta da tempo testimonial la ministra Giulia Bongiorno. Il disegno di legge prevede infatti che nei casi in cui il minore rifiuti il rapporto con uno dei due genitori, a farne le spese sarà il genitore affidatario che rischierà la revoca dell’affido per aver condizionato il minore.
L’introduzione di un formalizzato e standardizzato utilizzo in tribunale della Pas, in particolare nei casi di violenze e abusi, solleva l’allarme delle operatrici dei centri anti-violenza femministi. Il rischio concreto è, ancora una volta, la riduzione dei minori coinvolti a soggetti passivi, inascoltati, nella definizione del nuovo equilibrio familiare post-separazione. Ma c’è un altro enorme problema all’orizzonte: il pericolo di perdere l’affido dei figli può funzionare da deterrente per le donne a denunciare violenze rivolte a loro o ai figli.
Infine, un altro aspetto del Ddl Pillon che balza agli occhi è l’appiattimento sul modello familiare eteronormato. Le unioni civili e le famiglie omogenitoriali rimangono fuori da qualsiasi considerazione, semplicemente «non esistono», così come ha tenuto a sottolineare il neo ministro Fontana nella sua prima uscita pubblica. Visto lo scenario che si profila dobbiamo forse considerarla una fortuna?
Contro il ddl Pillon si stanno già organizzando petizioni e mobilitazioni. L’assemblea nazionale di Non Una Di Meno in calendario il 6-7 ottobre a Bologna sarà occasione centrale per rimettere in marcia il movimento femminista intersezionale dentro il quadro mutato di una vera e propria aggressione reazionaria in atto. Altrettanto fondamentale sarà aprire lo scontro sul terreno più ampio della rimessa in discussione dei ruoli imposti, per ripensare la genitorialità, le relazioni e la cura fuori dal campo semantico proprietario e riaprire con forza la lotta per un welfare non familistico e un reddito di autodeterminazione.