‘Lavoro è vita e senza quello esiste solo paura e insicurezza’, John Lennon
L’approvazione della nota di aggiornamento del Def e la discussione e presentazione in Parlamento della legge di Stabilità stanno riaccendendo il dibattito sul debito pubblico dello Stato italiano che, secondo l’ultimo bollettino statistico mensile elaborato da Banca d’Italia, ha raggiunto un nuovo record: 2.341,70 miliardi di euro. Oggi, ogni italiano è debitore inconsapevole per 38.694 euro, importo che corrisponde al 131,70% del reddito medio pro capite che è di circa 26.427 euro. Questa percentuale cambia notevolmente se consideriamo le diverse aree geografiche. Nel Mezzogiorno il rapporto è del 153,52% (reddito pro capite 17.984 euro), mentre nel Settentrione è del 114,98% (reddito pro capite 32.899 euro).
Il motivo di questa sperequazione è semplice: quando l’incremento del debito è finalizzato alla crescita il rapporto con il reddito rimane immutato o diminuisce, al contrario quando non produce ricchezza il rapporto tende a crescere ed anziché risolvere i problemi sociali li aggrava. Ed è così che esso ha determinato un aumento del reddito medio pro capite nelle regioni del Nord, mentre ha progressivamente impoverito i residenti delle regioni meridionali.
Inoltre, il deficit di bilancio determina sempre una crescita nominale del debito pubblico. Per gli economisti questo valore è poco significativo, mentre, per loro, è molto più rilevante il suo rapporto con il Pil. I fautori delle manovre espansive (Keynesiane) affermano, infatti, che con il deficit spending si realizza un aumento del prodotto interno lordo superiore o pari al maggior debito contratto. I detrattori, invece, sostengono che l’aumento della spesa pubblica è efficace se serve a fare investimenti e se il debito pubblico che si va ad incrementare è sostenibile. Lo scontro tra governo ed opposizioni e tra esponenti sovranisti ed Unione europea è su questa contraddittoria dicotomia.
Gli italiani hanno la memoria corta. Il debito su cui, è bene precisarlo, nel 2017 abbiamo pagato 65,6 miliardi di interessi, è un’obbligazione che deve essere sempre onorata. La fiducia dei mercati, che nella sostanza sono i nostri creditori, non è data per sempre. Con l’ultimo governo di Silvio Berlusconi abbiamo già sperimentato come sia pericoloso fare manovre contraendo altri debiti. Nel 2011 a subire le conseguenze delle turbolenze finanziarie sono state soprattutto le classi sociali medio – basse. Per risanare i conti pubblici non sono stati intaccati i grandi patrimoni, ma i redditi dei lavoratori. Basta citare il taglio delle spese per il Welfare (legge Fornero), l’introduzione dell’Imu e della Tasi e la riduzione degli investimenti al Sud. Inoltre, la crisi ha determinato un notevole incremento della disoccupazione e della povertà assoluta.
Con la manovra predisposta dal governo ‘pentaleghista’ si rischia di accrescere inutilmente il debito pubblico e di intaccare ancora una volta la fiducia dei nostri creditori. La lotta alla povertà è condivisibile, ma deve avvenire con la redistribuzione della ricchezza e con la dignità del lavoro. Il rischio, anzi la certezza, è che alla prossima crisi finanziaria a pagare saranno ancora una volta i lavoratori.
Fonte Banca d’Italia