Nel 2018 sono state dedicate molte riflessioni – qualcuna perfino interessante – alla prima guerra mondiale, in occasione del centesimo anniversario della fine di quel sanguinoso conflitto. Mi pare che nel 2019 non si dedichi la stessa attenzione a un altro centenario, altrettanto significativo: quello della conferenza di pace di Parigi, iniziata il 18 gennaio 1919 e durata, con alcuni intervalli fino al 21 gennaio dell’anno dopo: allora viaggiare comportava tempi lunghi e anche comunicare da una capitale all’altra non era così facile come oggi. Eppure questo lungo appuntamento diplomatico è stato determinante per quello che è successo nel corso del Novecento, e in qualche modo determina ancora le vicende politiche di alcune regioni, come i Balcani e il Medio Oriente.
Occorre dire prima di tutto chi partecipò a quella conferenza di pace e già questo credo renda chiaro cosa stava accadendo e cosa poi sarebbe successo. Poterono partecipare soltanto i paesi che avevano vinto la guerra e di fatto fu una trattativa tra Francia, Regno Unito, Italia e Stati Uniti, a cui si aggiungeva il Giappone quando ci si doveva occupare di questioni asiatiche. Gli altri paesi belligeranti, anche se – come è il caso del Belgio – avevano sopportato in maniera drammatica il peso di quel conflitto, di fatto non contavano nulla, nonostante fossero dalla parte “giusta”, quella dei vincitori. Chi aveva perso non aveva possibilità di parlare ed evidentemente già questo è il segno di uno squilibrio che non poteva rimanere senza conseguenze. Questa ottusa miopia, di cui la Francia fu certamente la maggior responsabile, pesò moltissimo nella propaganda che permise la nascita e l’affermarsi del nazismo in Germania. Ed ebbe anche un peso in Italia, dove il tema della “vittoria mutilata” fu uno dei più riusciti slogan che favorirono il consolidarsi popolare del fascismo.
Non venne invitato anche un altro paese, che era formalmente tra i vincitori del conflitto, ossia la Russia, che aveva cominciato la guerra guidata dallo zar e l’aveva finita quando al governo c’erano i soviet. La rivoluzione d’Ottobre è stato il fattore storico che ha determinato la storia del Novecento, ma tra i diplomatici riuniti a Parigi è come se la Russia non ci fosse. O meglio, i governi delle potenze vincitrici sapevano benissimo cosa era avvenuto in Russia e, se solo ne avessero avuto la forza, se solo non ci fosse stata quella guerra tremenda, avrebbero mandato le loro truppe a fianco dei controrivoluzionari bianchi, e soprattutto temevano quello che il paese dei soviet poteva rappresentare: un esempio per i lavoratori di tutto il mondo.
Ma la Russia non c’era – non volevano che ci fosse – perché – e questo è il limite più forte che vediamo in quei vecchi uomini politici che si erano formati nell’Ottocento – il mondo era completamente cambiato, erano ormai altri gli attori in campo, si combatteva un’altra guerra.
I capi di governo e i ministri che trattavano nelle ovattate sale del Quai d’Orsay ragionavano ancora come se fossero al Congresso di Vienna, disegnando confini sulle carte di paesi lontani – che per lo più non avevano mai visto – spartendosi territori, contendendosi città e porti, disegnando alleanze, anche in base alle proprie simpatie e antipatie personali.
E certo la conferenza di Parigi fu anche questo. Era inevitabile che accadesse, dal momento che uno degli esiti più fragorosi della Grande guerra fu la dissoluzione dei due più antichi imperi dell’Europa centrale e del Mediterraneo: quello degli Asburgo e quello ottomano. Due imperi enormi, estremamente compositi, che riunivano popoli diversi che stavano per diventare stati diversi. Con la complicazione che questo comportava, perché in un impero multietnico come quello austro-ungarico non era così semplice disegnare confini, visto che nel corso dei secoli i popoli si erano mescolati in maniera a volte imprevedibile e in ogni città potevano esserci persone provenienti da regioni diverse, per i più diversi motivi: studio, amore, commercio. Nasce da qui la difficoltà – se non l’impossibilità – di trovare una soluzione nei Balcani e in genere in tutta l’Europa orientale, senza prevedere un’entità politica di livello superiore, quello che è stato per alcuni decenni il comunismo e il rapporto – anche conflittuale – con Mosca. Mentre nei paesi in cui c’era stato l’impero ottomano era fin troppo facile disegnare confini, basti pensare alle artificiose divisioni imposte dall’accordo Sykes-Picot e ai suoi confini dritti come tratti di penna, con in più l’impegno a costituire il “focolare” per gli ebrei. Un altro problema della conferenza di Parigi di cui paghiamo ancora le conseguenze.
E infatti la conferenza di Parigi è stata un fallimento, almeno nelle sue conseguenze a medio e lungo termine. Queste scelte politiche erano destinate all’insuccesso non solo per la miopia che dimostrarono i governanti francesi e britannici o l’ingenuità assai poco lungimirante di quelli statunitensi, ma perché ormai non erano più i governi a definire i confini e quindi la politica. Era passato un secolo dal tempo di Metternich e di Talleyrand. O meglio erano proprio i confini a non avere più lo stesso significato in quel mondo che stava cambiando, anche per via di un progresso scientifico e tecnologico che in alcuni decenni cambiò tante cose, molte di più di quelle che erano cambiate nei secoli precedenti. Ma soprattutto erano ormai in campo due forze che programmaticamente non riconoscevano i confini e neppure gli stati ed erano intrinsecamente internazionali. Una addirittura prese questo nome, mentre l’altra lo era di fatto. E queste due forze combattevano ormai un’altra guerra, quella di classe, la cui posta in gioco non era più il controllo di quella città, di quel fiume, di quella regione, ma l’annientamento definitivo dell’altro combattente. Sappiamo poi chi ha vinto quella guerra.
Pensate a quello che succedeva in Italia. Mentre nel 1920 Giolitti riusciva finalmente a risolvere – con il trattato di Rapallo – la questione di Trieste e dell’Istria italiana, un tema che la conferenza di Parigi aveva lasciato in sospeso tra le polemiche e le recriminazioni, nel nostro paese ci furono le mobilitazioni contadine, i tumulti annonari, le manifestazioni operaie, gli scioperi, le occupazioni di terreni e di fabbriche, che caratterizzarono il cosiddetto “biennio rosso”. E questa era ormai la questione centrale, molto più di chi controllava quelle città costiere che erano state importanti al tempo in cui erano lo sbocco al mare dell’impero asburgico. Fu la paura dei capitalisti di fronte al tentativo rivoluzionario del biennio rosso a spingere alla reazione, a finanziare il fascismo, a decidere che doveva essere un regime autoritario a distruggere il movimento dei lavoratori. Solo a un uomo dell’Ottocento come D’Annunzio poteva importare ancora di Fiume. Al capitale importava di mettere a tacere Matteotti e Gramsci, di chiudere i giornali, di uccidere sul nascere il movimento socialista che stava nascendo e che allora poteva vincere, almeno i capitalisti temevano che avrebbe vinto, forse più di quanto lo credessero gli stessi socialisti.
C’è qualcosa di patetico in quei vecchi politici in tait che, chiusi nei loro salotti, disegnavano con stolido egoismo un mondo che non conoscevano più e che ormai era fuori dal loro controllo. Ma c’è anche qualcosa di drammatico, perché – per un curioso paradosso – in quella conferenza di pace furono poste le basi per molte delle guerre che sarebbero scoppiate nei decenni successivi.

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Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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