Trascorrere mesi su mesi a rimarcare ogni mossa del governo della Repubblica francese, giusta o sbagliata che sia, nonché quindi direttamente del presidente Emmanuel Macron, non aiuta certamente nel mantenere le relazioni tra transalpini e italiani in uno stato di, quanto meno, tollerabile sopportabilità. Il richiamo da parte di Parigi dell’ambasciatore in Italia è un fatto eclatante, eufemisticamente parlando, almeno sul piano di uno stretto storicismo: era infatti dal 1940, quindi dallo scoppio della Seconda guerra mondiale con la famosa “pugnalata” alle spalle in quel di Mentone e zone limitrofe, che non accadeva un fatto simile. Spiegano dal Quai d’Orsay che poi non si tratta di un ritiro definitivo: un segnale “duro” per Roma, per mostrare che la République ha giudicato “oltrepassato il limite” dopo un cumulo di accuse che spaziavano dal TAV al neocolonialismo francese in Africa, dai migranti fino all’alleanza tra gilet gialli e pentastellati. Un teatrino delizioso quello dello scambio di insulti tra le cancellerie di Stato: se non fosse che ha quasi sempre condotto, almeno in tempi passati, all’alzamento sempre più alto dei toni e ha condotto alla guerra quando, con tutta evidenza, il margine di tolleranza delle reciproche esagerazioni (quindi del passaggio dalla verità alle menzogne) veniva così tanto superato da impedire, già ai tempi della “disfida di Barletta” di evitare lo scontro per sanare l’onta ricevuta. Difficile dire se tredici nuovi cavalieri italiani contro altri tredici cavalieri francesi oggi potrebbero decidere con un duello da giostra le sorti della politica estera di due paesi che non sono proprio trascurabili nel complesso contesto europeo. Con tutta probabilità no. Nemmeno uno scontro a morte tra nuovi Orazi e Curiazi sarebbe utile in tal senso. Dunque, si è precipitato il Presidente della Repubblica, che si trovava in Angola per una visita di Stato, a dichiarare espressamente che occorre “ricucire” e anche in fretta perché già oggi i confindustriali si scalmanano e sbraitano: perdono investimenti, soldi, profitti. Il PD, con grande naturalezza, li spalleggia: Gentiloni rincara la dose sul TAV, coerentemente con le posizioni di sempre dei democratici non più di sinistra. Ed è ovvio che, va ribadito, fino a quando l’opposizione al governo sarà fatta da forze che sostengono le politiche antisociali e antipopolari che hanno devastato la vita dei meno abbienti, dei salariati e di coloro che un lavoro non lo scorgono nemmeno in prospettiva, la maggioranza governativa, pur inciampando così clamorosamente anche su questioni dirimenti di carattere internazionale, finirà per risultare la “povera vittima” di un sistema plutocratico che pure esiste e che non può essere criticato “socialmente” da destra. Eppure la contraddizione infelice dei tempi è questa: la maggioranza governa mostrando un volto popolare su un piano sociale (che non ha) con un consenso sempre più ampio per parte leghista (che ha e che quindi utilizza abilmente) ed attribuendosi ora anche la fisionomia di forza responsabile: Salvini si smarca, lui i gilet gialli non li ha incontrati in nessuna veste. E’ una campagna elettorale giocata sul filo del rasoio per un Movimento 5 Stelle che tenta di non isolarsi continentalmente ma che finisce per entrare nella contraddizione dell’ambivalenza tra lotta e governo e finisce per scontentare tanto chi lo sostiene per la funzione di “lotta” e chi lo dovrebbe considerare un interlocutore “di governo” e presto arriverà a preferirgli la più estremista Lega ma dal volto rassicurante per chi chiede stabilità economica e pace sociale. Del resto lo scontro con Parigi è quasi tutto frutto di dichiarazioni dei pentastellati: la querelle sui migranti per parte alpina si risolve nell’invischiamento con altre polemiche sull’alta velocità mentre sul fronte marittimo interagiscono Malta, Libia, persino la Spagna. Così Parigi, che pure ha grandi responsabilità nel blocco delle frontiere terrestri (si pensi a Ventimiglia) e marittime, che imperversa nel continente africano non solo con una moneta neocoloniale e che ha forti interessi nella zona nigeriana (come circostanziava “L’Espresso” in un articolo pubblicato esattamente un anno fa), ha buon gioco nel muovere anche il suo scacchiere elettorale interno per screditare il complesso movimento dei gilet gialli, molto ambiguo per certi versi ma non certo trascurabile in quanto ad importanza nella costruzione di legami sociali che in paesi come il nostro fanno sempre più fatica a nascere e a saldarsi. I sovranismi, dunque, vivono grandi contraddizioni così come le forze più classicamente liberal-liberiste: dalla CDU della cancelliera Merkel a “La République en marche” di Macron. La partita si gioca soprattutto sul piano economico: le già sperimentate e anche più vecchie formazioni politiche di governo che non si rifanno al sovranismo autoritario crescente nell’Est Europa ed in Italia, sanno che, ad esempio, dati alla mano i fatturati che circolano tra Francia e Italia si aggirano sui 165 milioni di euro tra importazioni ed esportazioni, tra imprese italiane sul suolo d’Oltralpe e viceversa. Di questi 165 milioni di fatturato, ben 121 milioni (fonti ICE su dati dell’ISTAT) sono capitali francesi che si trovano sul territorio italiano. Aprire dunque una crisi diplomatica con Parigi fa infuriare il mondo del padronato che vede l’oggettività di una politica estera improvvisata, lasciata al caso delle dichiarazioni tutte elettorali di un confronto interno ad una maggioranza che vuole reggere il governo e portarlo oltre la scadenza delle elezioni europee ma che per fare questo è costretta a scaramucce, frizzi e lazzi non accumulabili come i punti di un supermercato se non prevedendo per tempo le conseguenze. Le conseguenze sono quelle cui abbiamo assistito: dentro l’Unione Europea due stati membri si fronteggiano come se ormai fossero nemici. Per terra e per mare va male. Perché non dovrebbe andar male anche nei cieli? In queste ore, a sostegno dell’azione di Parigi, persino AirFrance, con una azione “dovuta a motivi politico-istituzionali”, minaccia di abbandonare la trattativa per il salvataggio di Alitalia. Il governo “del popolo”, dunque, rischiando di elevare sempre più i toni può mostrarsi come avversario delle borghesie di mezza Europa e proseguire su questa strada, pur dando vita in Italia ad una manovra economica che non elimina le norme sui licenziamenti previste dal Jobs act, non ripristina le tutele dell’articolo 18 (promessa elettorale dei Cinquestelle…) e fa del reddito di cittadinanza un ulteriore sostegno alle imprese ai padroni. La svolta “sociale” dunque non c’è, nemmeno con “quota 100” che non abolisce assolutamente la Legge Fornero ma la sospende soltanto per alcuni anni con una provvisorietà definita “sperimentale”. Ma la propaganda è forte e parla agli italiani di una “inversione di tendenza”: è un gioco facile, uno “sparare sulla Croce rossa”… Visto che a fare opposizione sono coloro che hanno aperto il viatico a questa degenerazione antipolitica, fatta di un abborracciato sovranismo messo insieme con due forze politiche costrette a governare per autoalimentare un consolidamento di consensi che non potrà, per forza di cose, essere pari per entrambi. Il gioco si complica e a farne ne spese saranno sempre i più deboli della scala sociale, perché comunque vada, le cancellerie europee si organizzeranno per proteggere alti interessi e, se non troveranno soluzioni adeguate nell’ambito di un mantenimento dei reciproci privilegi di classe, andranno a scaldare gli animi dei disperati, dei senza lavoro per mostrare che c’è bisogno in Italia dell’”uomo forte” e in Francia di un ripristino della “legalità repubblicana”. Ma non vi preoccupate: il teatrino continua…

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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