La costruzione del “soggetto politico” è un tema dibattuto dagli albori della politica stessa, di quella vita della polis greca che ha creato il sistema democratico e ha ispirato il concetto di “governo del popolo” così grandemente violentato e vilipeso durante oltre cinquemila microbici anni di storia umana col passaggio da Stato a Stato, da forma di Stato ad altra forma di Stato. Se partiamo dall’accostamento più elementare e per antonomasia che si possa fare, divenuto prevalente dopo le rivoluzioni settecentesche, la repubblica interpreterebbe al meglio la struttura democratica della forma dello Stato priva di un unico reggente, ma non affatto escludente una gestione oligarchica. Così anche i “soggetti politici”, quindi per semplificare un poco il binomio, i tanto vituperati “partiti”, hanno seguito la scia delle trasformazioni organizzative (e queste di quelle conomiche) di una nazione: tanto è vero che oggi la nostra Repubblica Italiana, sogno risorgimentale di un Mazzini che ne sarebbe potuto diventare il primo Presidente in un 1849 turbolentissimo da Roma a Venezia, pur essendo democratica e parlamentare si trova a vivere una scissione vera e propria tra parte istituzionale e parte popolare. Stato e Nazione (giacobinamente intesa) sono lontani e si incontrano, purtroppo, non per esaltarsi reciprocamente sotto il segno del patto costituzionale, ma mediante una serie di alterazioni dei princìpi su cui proprio la Repubblica si fonda. La Repubblica, forma di Stato, espressione del volere nazionale del popolo, è quanto oggi vi sia di più alieno, insieme all’odio per i partiti cosiddetti “tradizionali”, proprio dalla grande massa dei cittadini che preferiscono le soluzioni del neofascismo sovranista che si impone come nume tutelare della Nazione stessa e fuoco resuscitatore di un sentimento patriottico che sarebbe il perno su cui far riemergere un interesse economico autarchico dentro al contesto restringente e impositivo di una Europa di burocrati e liberisti senza scrupoli. Per questo la costruzione del “soggetto politico” che faccia rinverdire una interpretazione critica dell’attuale legame tra Italia e Unione Europea fuori dall’inganno sovranista di una “tutela degli interessi del popolo italiano”, è più che mai all’ordine del giorno e, per quanto ci riguarda, vuol dire compenetrare differenti culture della sinistra cercando il minimo comun denominatore che unisca ciò che è unibile e che permetta a tutto il resto di vivere in piena autonomia. Una impresa non semplice, perché per creare una comunità crescente occorre fondarla su un sentimento culturale per l’appunto “comune” e quindi eliminare le viscosità che naturalmente esistono e che sono retaggio delle esperienze precedenti che pure devono trovare una valorizzazione nell’oggi: perché nessuna vera alleanza può essere mai tale se si pensa di fare del 3 un 2 e un 1 eliminati a colpi di sommatorie. Il 3 esiste soltanto se hanno sempre un significato anche i numeri che lo compongono e che devono poter essere, proprio nella loro specifica diversità, primariamente importanti per le differenze che conservano e che sono il sale dell’incontro tra punti di vista non univoci e quindi migliore copertura del campo visivo di un orizzonte che troppe volte ci è sfuggito. Ciò è avvenuto perché il comunismo sovente è diventato “mitologico”, come il socialismo di inizio novecento che Gramsci criticava come “socialismo che si meritava” l’Italia e che veniva definito “il peggiore socialismo d’Europa”. Proprio Turati e i suoi avevano commesso l’errore di considerare “riformabile” il capitalismo visto che di lì a poco se ne sarebbe potuto avere il collassamento ultimo e quindi compito del partito era non puntare alla rivoluzione del sistema ma tenerne a bada gli eccessi. Questa traccia deleteria per gran parte dei decenni a venire per tutto il movimento progressista, che proprio su questa interpretazione fuorviante degli scritti di Marx ed Engels avrebbe visto la lacerazione e il frazionismo dilagare a sinistra, è arrivata fino ai nostri giorni e ancora oggi discutiamo se sia giusto votarsi di più a posizioni di raggiungimento del governo del Paese con alleanze estese a forze dichiaratamente anticomuniste e comunque non di sinistra; oppure se sia meglio e più giusto seguire un percorso d’opposizione e rendersi pertanto autonomi da qualunque tentativo di gestione della fase capitalistica del liberismo sfrenato di questi tempi. Il dilemma rimane insulto e, tuttavia, alleanze tra forze che danno eguale giudizio sulla caratterizzazione liberista del capitalismo moderno ma che mantengono obiettivi di lungo termine differenti in merito al superamento del sistema delle merci e del profitto, sono possibili ma di difficile gestione tanto organizzativa quanto strettamente politica. Anche Gramsci ci aiuta a comprendere il significato di queste insopprimibili difficoltà di creazione del “soggetto politico”: “E’ più facile convincere chi non ha mai partecipato alla vita politica di chi ha già appartenuto a un partito già sagomato e ricco di tradizioni. E’ immensa la forza che la tradizione esercita sugli animi. […] Chi si è convertito, è sempre un relativista. […] Pertanto gli rimane un fondo di scetticismo. Chi è scettico non ha il coraggio necessario per l’azione.“. E’ quell’umanismo che Gramsci vede nel comunismo, che non può essere separato dalla strategia complessa nella costruzione di un nuovo punto di appoggio per le classi sfruttate dell’oggi sul terreno della politica vista come male assoluto da cui tenersi a debitissima distanza. Nella ridefinizione dei confini organizzativi di una forza di sinistra del presente e per il futuro prossimo, dobbiamo prima di tutto tenere conto di ciò: nessuna unità ha il diritto di diventare unicità senza un rinnovamento culturale che stabilisca con nettezza gli obiettivi finali. La domanda dunque è: volete o non volete rovesciare il sistema capitalistico? Siete anticapitalisti? E se lo siete, potete abbandonare il timore che la definizione di questa essenza personale e collettiva sia di ostacolo alla rimodulazione delle coscienze critiche oggi addormentate o a quelle sfuggite ad una attrazione verso semplici ma altrettanto respingenti concetti di uguaglianza, giustizia sociale e solidarietà tra i popoli. Possiamo tutte e tutti abbandonare quel timore ed essere cioè donne e uomini che puntano al capovolgimento del mondo, essere molto semplicemente comunisti, per rimettere al centro dell’agire la fine della proprietà privata dei mezzi di produzione, la fine del lavoro salariato, ll’emancipazione degli sfruttati tutti. Dai ragazzi che pedalano per consegnare pizze e qualunque altra merce per 40 centesimi di euro a chilometro fino agli operai e agli impiegati specializzati. Parimenti, esaltare della lotta anticapitalista il carattere ecologista, rifiutando la contrapposizione tra sviluppo dei diritti del lavoro e tutela dell’ambiente. E’ stata, e rimane, questa una tipica contorsione riformista, piegata alle esigenze del padronato che ha addomesticato con le lusinghe del potere e della “governabilità” le forze che un tempo erano di “sinistra” e che nemmeno troppo lentamente si sono spostate al centro e sono diventate una maionese impazzita di disvalori spacciati per valori a protezione di beni comuni. L’unità di classe la si ricostruisce con una cultura di classe di un partito di classe. Per questo il riformismo vecchio ci ha portato allo svilimento della sinistra rivoluzionaria e della sinistra stessa. Non ripetiamo errori simili: la nuova sinistra sia anticapitalista e antiliberista. Oppure non sia.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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