Per rimuovere il germe fascista e fermare l’ondata nera, l’Italia deve fare i conti con il proprio passato imperiale e coloniale. E per fermare Salvini è necessario dare voce agli ultimi e ai subalterni. Nel suo ultimo libro “Contro l’identità italiana” il filosofo Christian Raimo decostruisce e smonta la retorica nazionalista non solo della Lega e della destra, ma anche della sinistra “sovranista”. Con Sinistra in Europa l’abbiamo intervistato.

Nel libro sottolinea come prima di Tangentopoli, la parola “Italia” fosse quasi sempre assente dalle cronache e dall’informazione. Ma nel suo settennato di Presidenza, Ciampi, seppur in buona fede, rispolvera le tematiche legate all’identità nazionale, scoperchiando il vaso di pandora e dando luogo ad uno sdoganamento di narrazioni neo-nazionaliste che portano con sé sistemi valoriali maschilisti e bellicisti. Ma prima degli anni ’90 non esisteva questo sentimento oppure covava sottotraccia? Sicuramente il nazionalismo c’era anche in alcune forme nostalgiche, reazionarie e razziste – pensiamo al Movimento Sociale che ha accompagnato la vita della Prima Repubblica. Tuttavia, negli anni’70 e ’80 non c’era ancora un discorso basato sulla solidarietà o sul multiculturalismo: basti pensare che le persone viaggiavano molto meno, le culture straniere erano meno conosciute e l’Europa era ancora molto debole. Negli anni ’90 abbiamo poi una grande evoluzione, si comincia a conoscere di più il mondo, si stabilisce una lingua comune per comunicare, diventa più facile viaggiare, nasce la Rete che permette a due persone che vivono agli estremi del Pianeta di connettersi e interagire. Tutto questo crea una coscienza di sé e del mondo più approfondita. In quello stesso momento, l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi si prende un impegno istituzionale secondo me superfluo: cerca di riscoprire un discorso “nazionale” attraverso il recupero di una serie di simboli e di valori strettamente legati all’identità e al patriottismo. In quel tempo serviva invece, a mio parere, l’opposto, ossia un discorso che facesse i conti con il nazionalismo, con il razzismo, con il colonialismo, con il nostro imperialismo – ancora attuale viste le multinazionali italiane che sfruttano i lavoratori in tutto il mondo, pensiamo a Benetton ed ENI. Sarebbe stato interessante capire come rovesciare l’idea di “Italietta” e fare i conti una volta per tutte con il nostro passato. Invece la retorica ciampiana di quegli anni somiglia molto a quella de “La grande Proletaria si è mossa” e all’esaltazione di un nazionalismo che a tratti è anche muscolare rispetto al presente e al passato. Quindi secondo lei in Italia il richiamo a un discorso nazionale e identitario viene spesso accostato al fascismo mentre in altri Paesi – pensiamo a Francia o Regno Unito – difficilmente viene fatto questo accostamento? Questo accostamento oggi è automatico perché non si è mai lavorato far fare agli italiani un esame di coscienza collettivo sulla nostra storia, facendo emergere qualcosa di diverso. Dopo Ciampi c’è stato il 150mo anniversario dell’Unità Nazionale e il 100mo dell’entrata nella Prima Guerra Mondiale. A tempo stesso, negli ultimi 15 anni, c’è stato un recupero di miti nazionali che si è saldato con il discorso pubblico e l’uso pubblico della storia: pensiamo alla “Giornata del ricordo” e alla grande retorica sulle foibe, o al caso strumentale dei marò. La bandiera italiana è diventata il feticcio di un nazionalismo del primo novecento, e oggi è ancora così, si parla di Italia con categorie primo novecentesche. Quando il rossobruno si compiace del neo-nazionalismo, asserendo che la Resistenza e i partigiani combattevano per il tricolore ed esaltavano l’Italia, dice tutte cose vere. Ma stiamo parlando degli anni ’40, di un contesto completamente diverso, con una Guerra Mondiale in corso che ha portato a decine di milioni di morti. Non posso immaginare di leggere il presente con le stesse categorie degli anni ’40 del XX secolo: essere nazionalisti in quel periodo storico voleva dire opporsi al nazismo che voleva distruggere la nostra nazione, essere contro il fascismo che aveva instaurato la dittatura e portato l’Italia in guerra. In quel periodo c’era bisogno di ricomporre una comunità lacerata, oggi invece la comunità nazionale è integra, e ciò che è lacerato sono le comunità internazionali e la solidarietà tra popoli: la sinistra dovrebbe puntare a ricucire questa comunità, non quella nazionale. Cosa risponde quindi a quella sinistra “sovranista” che rivendica patriottismo e nazionalismo? Dopotutto anche il PCI declinava il nazionalismo in senso progressivo. Se leggiamo il testo di riferimento “Una guerra civile” di Claudio Pavone, possiamo capire che la guerra partigiana è stata anche una guerra patriottica. Ma il contesto di allora è molto diverso rispetto a quello odierno. Pensiamo che nel 1948 si crea l’ONU, un organismo internazionale che riesce a immaginare come quel cosmopolitismo che dalla cultura illuminista e da Kant in poi – pensiamo al saggio “La pace perpetua” – aveva auspicato l’idea di un pacifismo internazionalista, potesse essere completamente istituzionalizzato. Non voglio essere frainteso, non dobbiamo santificare l’ONU o gli organismi internazionali. Ma per fortuna esistono le Nazioni Unite, l’UNHCR e le agenzie internazionali, ed oggi mi sembra assurdo non essere internazionalisti e cosmopoliti. Questo non vuol dire non avere orgoglio di patria ne essere razzisti verso sé stessi. Chiaro, che c’è sempre una forma d’affetto nella comunità nazionale, ma è la stessa forma d’affetto che posso provare per la mia famiglia o la mia città: questo non vuol dire che io identifichi il mio impegno politico con la mia famiglia o la mia città. Sono categorie affettive e culturali, ma non posso usare categorie sentimentali in maniera politica. In Italia non vi è, come nelle grandi nazioni europee un mito fondativo comune: il ricordo della Resistenza e della Liberazione è tutt’oggi ancora divisivo. Lei cita il discorso di insediamento di Violante del ’96 in cui l’ex magistrato sottolinea appunto il carattere divisivo di alcuni momenti salienti della nostra storia. Sostiene che questo discorso apra le porte al revisionismo storico della destra e che non serva avere una storia comune. Ma la collaborazione di forze politiche eterogenee sul medesimo terreno di valori, non rafforza, al contrario, la cultura democratica di un paese? Il Paese è forte se riesce ad affrontare in maniera approfondita i conflitti che si porta dentro. E quali siano questi conflitti in Italia è evidente: un Nord sviluppato e un Sud arretrato, le diseguaglianze di classe, il gap molto forte tra maschi e femmine, il risultato di una alfabetizzazione molto iniqua tra contesti sociali diversi. Mescolare o annacquare questi conflitti, rimuovendoli, oppure fare finta in maniera strumentale che questi siano conflitti tra italiani e non italiani, è insieme una sciocchezza e nello stesso tempo un discorso molto pericoloso. Il populismo dopotutto funziona così, crea false divisioni, tra nuovo e vecchio (Renzi) tra onesti e corrotti (Grillo) tra italiani e non italiani (Salvini e destra sovranista). Queste non sono altro che divisioni false, non ci aiutano a capire il presente. Divisioni vere sono quelle che mettono da una parte sfruttati e dall’altra gli sfruttatori, da un parte i ricchi e dall’altra i poveri. Se noi pensiamo che il nazionalismo sia una lente attraverso cui ridefiniamo la società, ci troviamo con una mappa che non assomiglia per niente al nostro territorio, ma a una proiezione paranoica che ci riporta indietro a 50 anni. E magari serve anche a fracassare qualche testa: nel suo libro usa l’espediente del movimento di Genova 2001 per dichiarare che l’idea di nazione è il passapartout che porta alla repressione del movimento. Può spiegarsi meglio? A un certo punto metto insieme Carlo Azeglio Ciampi e Carlo Giuliani. Sono due storie che potevano essere unite, ma che invece sono state divise, strappate l’una dall’altra: la storia di un grande movimento internazionalista che passa per l’Italia e viene represso in modo feroce e la storia di un tentativo di creare un culto patriottico repubblicano. E le storie hanno a un certo punto uno strappo: a un certo punto nel libro ricordo che Ciampi, di fronte a quella che è stata definita da Amnesty International come “la più grave violazione dei diritti umani dalla seconda guerra mondiale”, riesce a replicare soltanto dopo dieci giorni, addirittura lodando l’operato delle forze dell’ordine. Ovviamente non penso che Ciampi facesse parte di quelli che hanno portato alla Diaz o a Bolzaneto. Ma sicuramente l’allora presidente della Repubblica non si è reso contro della gravità di quella situazione, né in quel momento e nemmeno dopo, ma ha fatto mancare il suo apporto fondamentale all’elaborazione di quel disastro. Un’intera generazione e area di sinistra che credeva nel progressismo e nella democrazia, ha avuto un trauma da cui ha fatto fatica a riprendersi. E da cui, probabilmente, non si è ancora del tutto ripresa. Il nazionalismo e i movimenti di destra usano una retorica legalitaria che spesso diventa strumento per la repressione. Recentemente la questura di Roma ha stilato un piano per sgomberare le “occupazioni abusive” da qui al 2020. La sensibilità della politica per il legalismo è spiccata, mentre lo sembra sempre meno quella per i diritti e la giustizia sociale. Una cosa che sta diventando sempre di più senso comune anche tra le persone dei ceti medio bassi? La questione del nazionalismo isola rispetto a quello del securitarismo; sono due retoriche che si fanno forza a vicenda ma non muovono dallo stesso presupposto. Il nazionalismo dà una risposta sbagliata a una domanda giusta e a un tema vero, ossia cosa vuol dire creare cittadini di fronte a un mondo sempre più interconnesso; ma di fronte ad un mondo globalizzato non può che dare risposte inadeguate e reazionarie. Il securitarismo muove invece da un uso di questioni che riguardano le politiche di classe – quello che mette i poveri e i ricchi uno contro l’altro – provando a rimodulare il conflitto sociale deviando l’attenzione sulla dicotomia tra legalità e illegalità. Chiaramente è un modo di rimuovere l’aspetto politico del conflitto: quella del nazionalismo e del securitarismo sono due retoriche e forme di controllo di ideologie repressive che si fanno sostegno a vicenda, ma non provengono dalla stessa matrice. Opporsi a una non vuole dire automaticamente opporsi all’altra. Ma anche i poveri si appellano spesso al securitarismo e al legalismo. Anzi molti di loro anziché rivendicare i loro diritti si appellano al legalismo e non a un discorso progressista di giustizia sociale. Invece della giustizia sociale viene usato il securitarismo. Invece di un discorso internazionalista si usa il nazionalismo. Se noi pensiamo che il neo-nazionalismo sia una risposta nei confronti della mancanza del tema del conflitto sociale, secondo me stiamo ponendo il discorso in termini sbagliati. Le retoriche nazionaliste: pensiamo al recente post di Salvini che dice che i nordafricani che avrebbero ammazzato il giovane carabiniere – in realtà erano due giovani americani – sarebbero dovuti finire in galera e ai lavori forzati: un post che evocava un immaginario da sud degli Stati Uniti negli anni di inizio ‘800. Quel tipo di automatismo non fa i conti con un mondo che cambia, dove abbiamo due 19enni che vanno alla John Cabot e ammazzano un carabiniere napoletano che si trova nella Capitale. La presenza del giovane militare è anche frutto di un’ immigrazione interna ancora molto forte in Italia. Qui il tema è il rapporto tra emigrazioni e nuovi conflitti, non con quello della giustizia sociale: nel mondo ci sono persone che vogliono spostarsi e hanno diritto a spostarsi. Il carabiniere aveva il diritto di venire a Roma per lavorare, quei giovani americani hanno un passaporto con il quale possono girare ovunque, altre persone come il Nordafricano magari non avrebbe avuto un permesso di soggiorno. Queste condizioni diverse possono creare un contesto di conflitto che può degenerare in violenza o creare un conflitto politico vero. Il tema del conflitto è un tema vero e politico, ed è giusto metterlo insieme al tema della classe: bisogna sempre ragionare in temi inter-sezionali, classe, razza e genere. Per opporsi al discorso salviniano e razzista bisogna disarticolarlo tra discorsi che riguardano la classe con quelle che riguardano la razza. Se non lo facciamo rischiamo che il nostro discorso sia meno incisivo. Invece così possiamo essere più incisivi. “Io penso che se – in senso gramsciano – non rovesciamo questa retorica, lasciando la voce davvero ai subalterni, ci condanniamo a una sconfitta senza appello, diventando anzi complici di una rivoluzione passiva ferocissima”. Questo è quello che scrive in un suo recente articolo uscito su Jacobin Italia. Ma chi sono i subalterni e come si dà loro voce? Non c’è il pericolo che questi “subalterni” parlino lo stesso linguaggio di Salvini invocando autoritarismo, sgomberi, confini e fili spinati? Come si dà voce ai subalterni? Provando a capire quali siano le loro istanze. In questa voce ci sono gli istinti, e quindi è possibile anche trovare un’eco del discorso nazionalista e razzista. Questo non vuol dire che bisogna rimuoverlo del tutto, è una rabbia che va ascoltata. Oltre questo, nelle testimonianze dei subalterni c’è anche altro. C’è conflitto sociale, c’è desiderio di riscatto, la voglia di avere una vita con più diritti, una casa, un lavoro dignitoso, una scuola per i propri figli. Le loro voci sono queste, ma anche quelle che raccontano in maniera diversa le lotte. Noi non abbiamo in Italia una narrazione da parte dei nuovi migranti di questo Paese, e magari potremmo ragionare e partire da questa narrazione alternativa. Nel mondo delle immigrazioni abbiamo una narrazione fatta di falsità: pensiamo ai taxi del mare, alle ong criminali, i barconi, ai buoni sentimenti, all’accoglienza. Proviamo a rovesciare la lente dall’altra parte, a essere noi l’oggetto sotto il vetrino e diamo a chi arriva la possibilità di raccontarsi. Avremmo così una narrazione diversa, magari più simile a un’avventura per chi viene in Italia dall’Africa piuttosto che a una tragedia, a una lotta per ottene i propri diritti, a una denuncia della repressione. Sarebbe un punto di vista politico molto forte, ma ce lo stiamo perdendo. La voce dei subalterno aiuterebbe a ripensare anche alla nostra storia: in tutte le culture postcoloniali la voce dei colonizzati aiuta a ritrovare la possibilità di una nuova narrazione per l’oggi. E spero che questo possa avvenire in tempi sempre più rapidi anche nel nostro Paese.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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