La riforma del Meccanismo europeo di stabilità, il cosiddetto Fondo salva-stati, mira a forzare in maniera ancora più violenta i paesi debitori a nuove privatizzazioni e politiche di austerity. È così che si fomentano i nazionalismi.

di Rolando Vitali* – Jacobin Italia

Che cos’è il Mes?

Si tratta del cosiddetto Fondo salva-stati: quel fondo europeo che dovrebbe tutelare la stabilità finanziaria dell’Eurozona, garantendo una copertura adeguata in caso di crisi debitoria da parte di uno degli stati membri. Il processo di riforma del Mes, di cui si parlava da tempo, si è concretizzato lo scorso giugno ottenendo un primo via libera informale, mentre l’approvazione definitiva dovrebbe avvenire il prossimo 12 dicembre. Il fondo è già attivo dal 2012 e serve a dare assistenza finanziaria ai paesi in cambio di «riforme» che, sostanzialmente, prevedono la solita ricetta in stile Fmi: tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, flessibilizzazione del mercato del lavoro, aumento dell’età pensionabile ecc.

La cosa interessante di questo meccanismo di «protezione» dall’instabilità finanziaria, è che può funzionare anche in maniera inversa: vale a dire, non tanto per «difendere» dall’instabilità, ma per forzare i paesi a prendere determinate decisioni politiche, proprio mettendoli davanti a un aumento dell’instabilità finanziaria.

Forse non tutti sanno che esiste un rapporto essenziale tra le «garanzie» della Bce e del Meccanismo europeo e i costi di rifinanziamento del debito pubblico: ogni volta che una di queste istituzioni non concede la propria garanzia, immediatamente sale il famoso spread e si affaccia una pericolosa spirale debitoria. La duplice garanzia della Bce e Mes è fondamentale per la stabilità finanziaria dei paesi maggiormente esposti: alle decisioni di acquisto o vendita dei titoli di Stato da parte della Bce, così come a fronte di un allentamento delle garanzie di liquidità del Fondo salva Stati, i «mercati» reagiscono ritenendo meno sicuri i titoli dei paesi esposti, facendo così aumentare il costo di rifinanziamento del loro debito pubblico. Per spiegarla con una metafora un po’ brutale, il tipo di tutela di questo tipo di istituzioni assomiglia po’ all’estorsione mafiosa: «Va tutto bene? Tutto a posto? Non vorrei che succedesse qualche brutta cosa a questo bel negozio… forse hai bisogno che ti aiutiamo noi a tenerlo d’occhio…».

Infatti, la tutela che garantiscono diventa necessaria nel momento in cui viene imposta: sì perché, alla fin fine, si tratta di garantire la solvibilità del debito pubblico attraverso un’emissione di moneta (il cosiddetto prestito di ultima istanza) giusto? Si tratta, quindi, di una prerogativa che qualunque banca centrale potrebbe garantire: proprio per questo la Banca centrale europea non ha alcuna difficoltà a reperire la liquidità necessaria agli acquisti dei titoli di stato dei paesi in difficoltà. Vi siete mai chiesti da dove diavolo la Bce prenda i 20 miliardi di euro al mese per il programma di acquisti? Dove abbia preso tutti quei soldi per comprare i titoli di Stato dall’inizio del programma di Quantitative Easing, quel programma che soltanto nel 2012 è «costato» la cifra strabiliante di 3.000 miliardi di euro? Non li ha presi da nessuna parte: semplicemente li ha emessi, come è nelle prerogative di tutte le banche centrali del mondo. Vi chiederete, ma perché allora non lo può fare anche l’Italia? La differenza fondamentale tra Bce e Banca d’Italia consiste nel fatto che, con l’entrata nell’euro, la seconda ha ceduto la propria facoltà di prestatrice di ultima istanza alla prima.

In ogni caso, non è di questo che si tratta in questo momento ma di come si sta cercando di cambiare questo sistema di assistenza. Si dice spesso che uno dei grossi problemi dell’eurozona è la scarsa condivisione dei rischi finanziari, l’assenza di un bilancio comune e di solidarietà tra paesi: se per esempio i titoli italiani o greci venissero garantiti dalla Bce come quelli tedeschi o olandesi, non si avrebbero tutti questi squilibri tra paesi e queste instabilità finanziarie. Ora, la riforma di cui attualmente si sta trattando parte dal presupposto – sempre ribadito da parte tedesca e costitutivo del sistema istituzionale dell’eurozona – per il quale deve essere garantita la possibilità che un paese vada in default e quindi ristrutturi il suo debito: solo in tal modo, infatti, è possibile ridurre il moral hazard, «responsabilizzando» al rispetto della disciplina di bilancio. Il rischio di un possibile default, infatti, si riflette sui tassi di interesse del debito e, quindi, sulle condizioni di rifinanziamento degli stati, che così vengono tenuti a freno nelle loro politiche di spesa. In tal modo, i «mercati» giudicano le riforme e le performance dei paesi, responsabilizzando i governanti. Sarebbe allora imperdonabile considerare allo stesso modo i titoli dei diversi paesi garantendoli tutti a rischio zero: non vi sarebbero strumenti per garantire la disciplina di bilancio da parte dei «mercati». Certo, se un paese avesse davvero bisogno di liquidità temporanea, allora potrebbe intervenire il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), ma soltanto a condizione che si mettano in atto politiche di rigore di bilancio. Per questo, da molte parti, si plaude alla proposta del suo rafforzamento: oltre che vedersi aumentata la dotazione per risolvere eventuali crisi bancarie, esso avrà anche maggiore rapidità nel garantire la solvibilità dei diversi paesi in caso di instabilità. Ma questi aspetti, tutto sommato, sono secondari. Uno dei problemi principali a cui intende rispondere la riforma è l’eccessiva discrezionalità politica nella decisione di intervento: per questo trasferisce maggiori competenze dalla Commissione europea al Mes, che d’ora in poi la affiancherà nel monitoraggio sulla sostenibilità dei conti pubblici. Inoltre, verranno anche modificate le «clausole di condizionalità» rendendole più restrittive: per avere accesso alle garanzie di assistenza finanziaria sarà richiesto ai paesi di ristrutturare preventivamente il proprio debito, se non è giudicato sostenibile dallo stesso Mes.

Le conseguenze per i paesi debitori

Il combinato disposto di queste due modifiche è esplosivo. Come ha chiarito Giampaolo Galli, membro dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani dell’Università cattolica (un collega di Cottarelli, non proprio un pericoloso comunista…), «la novità non sta tanto nella possibilità che un debito sovrano venga ristrutturato» – che come abbiamo visto è una condizione quadro – «ma nell’idea che la ristrutturazione diventi una precondizione, pressoché automatica, per ottenere i finanziamenti»: ciò significa che le indicazioni e le «sollecitazioni» in materia di politica economica potranno contare su una forza persuasiva decisamente superiore rispetto al passato. Non solo verrà eliminata ogni mediazione politica, tecnicizzando il processo valutativo e decisionale, ma verrà ulteriormente rafforzato il ruolo dei mercati finanziari: l’eventuale interdizione all’accesso agli strumenti di garanzia finanziaria comporterà un innalzamento automatico degli interessi.

Abbiamo già detto, infatti, che il Mes fornirà assistenza finanziaria solo ai paesi il cui debito è considerato sostenibile e la cui capacità di restituire i prestiti è stata preventivamente confermata dalle sue valutazioni tecniche: in assenza di tali condizioni non verranno garantite quelle «linee di credito» base (Pccl), che garantiscono la solvibilità di un paese davanti ai mercati. Le condizioni sono però molto restrittive e secondo una stima del think tank Bruegel 10 stati su 19 dell’eurozona – tra cui l’Italia – non le soddisferebbero: esse infatti includono un debito al di sotto del 60%, la sua riduzione del 5% in un singolo esercizio (cioè in un anno), un deficit annuale inferiore al 3% e un saldo strutturale positivo. Per rispettarle sarebbero necessari tagli enormi alla spesa pubblica: per l’Italia si parla di cifre intorno ai 115 miliardi in un anno. In caso di mancato rispetto delle suddette clausole il paese dovrà sottoscrivere obbligatoriamente un Memorandum di intesa, che preveda una forte ristrutturazione preventiva delle finanze pubbliche: solo in tal modo potrà avere accesso alle linee di credito «rafforzato» (Eccl).

Come ha affermato Ignazio Visco, presidente della Banca d’Italia, l’eventuale approvazione della riforma potrebbe rappresentare un «rischio enorme di terribili conseguenze» per l’Italia e per tutti i paesi dell’Eurozona con elevata esposizione finanziaria. Infatti questa modifica del Mes potrebbe implicare per tutti quei paesi che non rispettano già le clausole per le linee di credito standard, la sottoscrizione preventiva di un Memorandum di riforme e l’avvio di una procedura tecnica di ristrutturazione del debito. Solo in tal modo, questi paesi «cicale» potranno veder garantita la propria solvibilità finanziaria da parte del fondo: la minaccia di un aumento degli interessi sul debito – che seguirebbe automaticamente a un mancato accordo col Mef – rappresenterà un dispositivo formidabile per forzare i paesi a implementare le «riforme» richieste. Come è facile capire, le conseguenze potrebbero essere devastanti sul piano economico e sociale…

L’ulteriore spoliticizzazione delle decisioni economiche

Ma quali considerazioni politiche devono essere tratte da questa riforma? Innanzitutto, che il sistema istituzionale europeo si avvia a consolidare ancora una volta il proprio impianto tecnocratico: automatizzando e spoliticizzando ulteriormente i processi di decisione in materia economica, l’Unione europea rafforza gli strumenti a propria disposizione per imporre ulteriore austerity e disciplina di mercato, in particolare (ma non solo) nei paesi debitori. A questo, infatti, mira lo spostamento del baricentro della decisione e dell’iniziativa in materia economica dalla Commissione al board del Mes; a differenza della Commissione infatti, quest’ultimo è esentato da ogni accountability rispetto al parlamento e ai cittadini europei. Il Managing Director del Mes agisce infatti in totale indipendenza e risponde solo al board del Mes. Ciò significa che le decisioni fondamentali sulle linee di indirizzo e valutazione economico-politica saranno prese sempre meno attraverso processi politici – passibili di critica e di controllo pubblico – e sempre più attraverso procedure intergovernative, «tecniche», «indipendenti». Si tratta, insomma, di garantire la «polizia dei mercati» attraverso l’imposizione di quella «costituzione economica» multilivello – per usare le espressioni coniate dagli economisti di scuola ordoliberale degli anni Trenta – che sin dalle origini informa la logica istituzionale dell’Unione europea.

L’ulteriore svuotamento dei luoghi di decisione politica a favore di meccanismi automatici, implica infatti un contestuale aumento dell’esposizione delle scelte di politica economica alle valutazioni dei «mercati»: come scriveva candidamente Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera in un profetico articolo del 2017, «più mercato» servirà ad allentare «la tensione tra i paesi dell’euro che hanno bisogno del consolidamento e/o di riforme, ma non vogliono essere obbligati a seguire politiche imposte dall’esterno e i paesi creditori che temono che se non si seguono strettamente le regole, i prestiti dell’Europa possano indurre all’azzardo morale. Rafforzando la disciplina di mercato la procedura di ristrutturazione richiederebbe meno disciplina di Bruxelles», ossia meno interventismo politico, meno accoutability: ci penserà direttamente il ricatto sugli interessi a disciplinare preventivamente i paesi debitori. «Ne consegue che questa via», prosegue Reichlin, «rafforza il consenso alle riforme necessarie», rendendo impossibile l’attribuzione di responsabilità a livello politico. Come si era lasciato sfuggire Oettinger: «i mercati insegneranno agli italiani» – ma evidentemente anche agli altri elettori europei – «a non votare per i partiti populisti».

Ciò significa che il problema dell’Unione europea non è soltanto politico – ossia non riguarda tanto le singole scelte politiche o le diverse maggioranze parlamentari – ma riguarda l’impianto istituzionale come tale: sono le istituzioni e i trattati stessi, infatti, a essere pensati per inscrivere l’azione e la scelta politica all’interno di una condizione quadro, definita dai «mercati» e così resa impermeabile alla decisione politica e democratica.

Il nazionalismo non è una malattia esogena

La riforma del Mes insomma, se viene propagandata «per far fronte alle eventuali instabilità finanziarie», mira soprattutto a forzare in maniera più efficace quelle «riforme» che permettono al capitalismo organizzato dei paesi creditori e alle rispettive élite nazionali di approfittare dei processi di privatizzazione e di austerity. Come ci insegnano gli ultimi trent’anni di politica europea, «fare le riforme» significa infatti dismissione del patrimonio pubblico, delle industrie strategiche, delle reti infrastrutturali, ma anche «flessibilizzazione» del mercato del lavoro e tagli alle pensioni: un ghiotto bottino per un capitalismo continentale asfittico e con basse prospettive di guadagno.

Abbiamo visto che la riforma porterà probabilmente anche a un incremento dei tassi di interesse sui debiti pubblici dei paesi «debitori», dandoli in pasto a quella speculazione finanziaria che, in paesi creditori come la Germania, rappresenta una delle maggiori entrate per i fondi pensione di un’aristocrazia operaia sempre più impoverita. Dopo la copertina del Bild, che raffigurava un Draghi-Dracula che succhia il sangue ai risparmiatori tedeschi con la sua politica di tassi bassi e di contenimento degli interessi sul debito, adesso anche il settimanale social-democratico Der Spiegel titola che ormai «risparmiare rende poveri» e che i «tassi negativi prosciugano il patrimonio dei tedeschi» (Der Spiegel 9/11/2019): dal punto di vista dei paesi creditori è del tutto auspicabile un aumento dei tassi di interesse e degli interessi sui titoli di stato.

Questo nuovo dispositivo porterà allora con sé anche un aumento della competizione tra lavoratori e risparmiatori nel continente, sempre nell’interesse dei mercati finanziari e dei grandi gruppi industriali: l’Europa è già spaccata tra creditori interessati a un innalzamento dei tassi e della profittabilità dei titoli statali, e debitori stritolati in una spirale infinita di austerità e deflazione. Questa riforma non farà che inasprire questa situazione, contribuendo così ad aizzare ulteriormente quell’orrendo e pericoloso nazionalismo che vediamo avanzare in Europa. Il rigurgito nazionalista a cui assistiamo non deve allora essere interpretato come una malattia esogena, ma piuttosto come il risultato di una strategia padronale di divide et impera che ha nelle istituzioni europee il proprio strumento elettivo: è la stessa «integrazione economica» che esse promuovono a dividere popoli e lavoratori. Per tornare a immaginare un contesto di solidarietà a livello europeo sarà allora necessario rompere questo sciagurato impianto istituzionale che mette i lavoratori europei gli uni contro gli altri, risegmentandoli secondo divisioni nazionali. Parlare di Stati uniti d’Europa, di Europa politica o addirittura di «patriottismo europeo» a partire da queste istituzioni è, quando non bieca ideologia, un pericoloso miraggio dal quale sarebbe necessario liberarsi il prima possibile: non per ricadere in un velleitario e pericoloso nazionalismo autocratico, ma per recuperare la capacità di costruire relazioni internazionalistiche, basate non sulla competizione reciproca ma sulla solidarietà tra lavoratori.

*Rolando Vitali è dottorando in Filosofia tra le Università di Jena (Germania) e di Bologna e borsista presso l’Istituto di studi Filosofici di Napoli. Si occupa di teoria critica, estetica, e filosofia politica.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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