La più grande conquista della rivolta esplosa in Cile nel mese di ottobre è l’aver ricostituito i legami sociali e comunitari dopo trenta anni di capitalismo selvaggio e di violenza di Stato

Non siamo venuti qui per chiedere ai deputati e ai senatori di legiferare per noi, siamo venuti ​​a chiedere che non legiferino più e che non parlino più per noi, da ora parleremo per noi stessi.

Lonko Juana Calfunao, intervento all’incontro parlamentare nazionale tra i popoli indigeni e il Congresso nazionale, 2011

Vorrei iniziare avvertendo che questa riflessione è influenzata da ciò che sta accadendo in Cile dove il terrorismo di stato nel corso dell’ultimo mese ha mutilato, torturato sessualmente, perseguitato, ucciso e fatto scomparire diverse persone che hanno partecipato alla rivolta iniziata ad ottobre. Pratiche da anni comuni contro le popolazioni mapuche che oggi si sono diffuse anche contro coloro che protestano. Questo per dire che il mio commento non ha nulla a che fare con la razionalità tecnica di un’analisi di esperti, specializzate nel trasformare la crisi in cifre e valutazioni che mirano a neutralizzare il conflitto, e la cura nell’avvertimento non è correlato alla perdita di obiettività su ciò che verrà detto, ma proprio al contrario: alla necessità di collocare il tema all’interno del sensibile e compromesso tema della lotta dei popoli.

Credo nella necessità di guardare a ciò che sta accadendo da una prospettiva critica e storica che può rivendicare la genealogia dell’attuale protesta e la storia della repressione portata avanti dalle forze di sicurezza dello stato che hanno imposto – attraverso il colpo di stato e la dittatura militare di Pinochet – il neoliberismo nel paese.

Dobbiamo ricordare che la pionieristica esperienza neoliberista cilena ha quasi mezzo secolo: 14 anni di dittatura e 30 anni di democrazia debole.

La storia dei disordini sociali storici che hanno scatenato l’attuale crisi mettono al centro il ruolo che lo Stato ha assunto durante il periodo capitalista post-dittatura, il modello di lavoro che ha promosso e le relazioni di classe da cui sono state articolate queste condizioni. Lo stato monoculturale cileno, uno dei più autoritari in America Latina e nei Caraibi, ha abbandonato in modo sostenuto e sistematico le sue responsabilità politiche e democratiche, consacrando il mandato politico ed economico imposto nella dittatura nato dall’invenzione che in un laboratorio un gruppo privilegiato di studenti di economia dell’Università Cattolica del Cile elaborò con l’Università di Chicago. Le strategie di welfare dello stato cileno e il modello rappresentativo della democrazia che oggi è egemonico, sono stati storicamente un ostacolo per la partecipazione politica, questo significa che l’attuale costituzione (così come le precedenti) ha limitato il processo decisionale su questioni pubbliche che determinano la vita di tutta la popolazione a  una piccola élite dominante. Il problema è che la classe politica e commerciale ha rappresentato solo gli interessi delle loro classi.

Lo Stato ha progressivamente rinunciato, durante il periodo incompiuto di transizione, alla fornitura di servizi sociali per diventare uno Stato che sovvenziona la classe economica nazionale e protegge gli interessi delle società che possiedono un capitale transnazionale. Sovvenzionando il settore privato del paese attraverso la concessione di una parte fondamentale delle risorse pubbliche – che dovrebbero essere destinate a garantire l’accesso ai diritti sociali di base – e allo stesso tempo, stabilendo che la funzione principale delle agenzie di sicurezza statali è di proteggere il capitale privato. Vale a dire che l’accumulo di ricchezza, gli spettacolari tassi di sviluppo economico e la produzione di plusvalore continuano a essere sostenuti dallo sfruttamento perpetuo della classe lavoratrice e dalle loro pratiche quotidiane di sopravvivenza economica. È uno Stato che non regola il rapporto capitale / lavoro e mette nelle mani delle imprese private l’accessibilità ai servizi di base quali la salute, l’istruzione, l’alloggio e la pensione. Concedendo i diritti di base perché producano profitti permanenti ai capitali privati e considerando la classe lavoratrice solo come una forza di consumo, che si vede obbligata, per accedere all’istruzione universitaria, a vincolarsi con un sistema di indebitamento, che ha misere pensioni che non sostengono la vita (attraverso un meccanismo pianificato di risparmio forzato amministrato da istituzioni private AFP) e un modello di sanità che ha smantellato il sistema sanitario pubblico.

Lo stato del Cile non è un garante dei diritti umani fondamentali ed è il primo precarizzatore dell’occupazione secondo una logica di accumulazione flessibile che ha smantellato l’organizzazione manifatturiera fordista e si basa su una forza lavoro sfruttata e spogliata di tutti i diritti.

Il modello di sfruttamento estrattivo e intensivo dei beni comuni ha devastato e saccheggiato territori, acqua, rame, litio, produzione agricola e pesca, stabilendo accordi industriali che hanno trasformato intere città in aree di sacrificio. Territori che sono stati usurpati da grandi società transnazionali che difficilmente pagano le tasse. In queste aree di sacrificio si sono sviluppate diverse esperienze di resistenza territoriale a difesa dei diritti umani delle comunità che le abitano. La lotta del popolo mapuche è un esempio di lungo incoraggiamento nella difesa del territorio e nell’autonomia dei popoli che ottennero una particolare visibilità dalla metà degli anni ’90, quando varie comunità pewenche hanno resistito all’installazione del mega progetto idroelettrico sul fiume Bio bio.

Il problema dell’acqua, uno dei servizi di acqua potabile più costosi in tutta l’America Latina e nei Caraibi, fondamentale per comprendere molti dei conflitti che sono vivi oggi nel paese dal Codice delle acque del 1981, unico patto in tutto il mondo, che concede diritti d’acqua perpetui e gratuiti al settore privato in Cile. Altri momenti che ci aiutano a comprendere l’attuale ribellione sono le proteste contro l’industria della carne nel comune di Freirina, dove Agrosuper (2012) ha voluto installare il più grande impianto di produzione di suini in Sud America, la lotta contro l’estrazione dell’oro in Pascua Lama (2009), in cui la società canadese Barrick Gold distrusse diversi ghiacciai, il “Secondo Puntarenazo” che fu il coraggioso rifiuto (2011) all’aumento di prezzo del gas naturale a Magallanes, la resistenza del movimento studentesco dei pinguini e l’Università nella lotta per l’educazione pubblica (2001, 2006 e 2011), le manifestazioni contro l’asse industriale Quintero-Puchuncaví-Ventanas e, infine, il movimento femminista che sta diventando una significativa articolazione nazionale nella sua lotta anticapitalista per l’accesso all’aborto, il diritto alla vita e una vita dignitosa per le donne.

Il primo tassello di queste lotte è che questo modello economico e politico è contenuto nella costituzione dell’attuale repubblica, imposta dal plebiscito fraudolento organizzato da un regime fascista nel 1980, ma la cosa più inquietante è che trenta anni dopo l’inizio della democrazia questa costituzione è stata approvata ed è passata all’ esercizio di sette governi democratici.

La costituzione di Pinochet non determina nemmeno chiaramente l’esistenza di uno stato secolare, nega la presenza delle popolazioni indigene e annulla ogni responsabilità dello stato per i diritti sessuali e riproduttivi. Ecco perché la sua esistenza impedisce una soluzione politica alle esigenze di giustizia sociale che la rivolta ha sollevato. In termini molto generali è questo che spiega la necessità di convocare un’assemblea costituente, partecipativa e vincolante, come requisito essenziale per avviare un processo di trasformazione strutturale delle condizioni attuali e de-precarizzare il paese. Se vogliamo evitare una nuova costituzione primaverile celebrata da Ricardo Lagos [1], dobbiamo esigere che l’assemblea costituente sia organizzata al di fuori delle dinamiche della democrazia rappresentativa. È difficile da raggiungere perché ciò implica l’esercizio di una cultura politica diversa da quella dominante, che deve affrontare e sopravvivere al cattivo governo dei partiti politici vecchi e viziati, e purtroppo anche alle pratiche dei nuovi. Il maggiore ostacolo è tuttavia la destra che oggi governa lo Stato del Cile, che possiede il paese e oggi reprime brutalmente questa giusta ribellione popolare. Il pericolo è che questa destra abbia qualcosa in comune con il fondamentalismo economico e l’evangelismo religioso/americano che oggi prende il potere politico in Bolivia, in Brasile e nelle aree dell’America Latina e dei Caraibi. Questa è la difesa di un modello economico che vorrebbe guidare la crisi come una via di contenimento in grado di reinventare le forme con cui si accumula capitale ai margini del neoliberismo e far cosi in modo che la crisi non raggiunga le grandi potenze economiche. Abbiamo visto nella vasta storia della vita umana, come questo interesse ci abbia condotto all’orrore, ma sappiamo anche come combattere con la conoscenza della lotta anticoloniale e anticapitalista del sud globale.

I popoli in Cile hanno protestato intensamente negli ultimi 10 anni, il che significa che la concertazione politica che ha inaugurato il ritorno alla democrazia vive di fallimenti da anni  e che questa è la chiave per comprendere la massività e la trasversalità delle proteste attuali. Quello che dobbiamo chiederci oggi è: cosa è successo con queste proteste? Che misure sono state adottate? Come si può passare da questa grande ribellione popolare a una organica che riesca a contestare il potere a proporre in modo comune nuove formule strutturali?

Uno dei grandi allarmi presenti nella discussione rispetto a quello che vive il Cile sostiene la presupposta ignoranza del movimento e con esso la mancanza di rappresentanza politica, cosa che metterebbe ad alto rischio le vertenze e le negoziazioni  possibili per un’uscita dalla crisi. Capisco questa preoccupazione ma non la condivido, visto che è stata proprio la rappresentanza politica partitica quella che ha distorto le richieste avanzate dai precedenti movimenti e l’attuale rivolta sta mettendo in questione esattamente quel modello di pratica politica. È in questa prospettiva che ritengo che questa assenza di rappresentanza vada letta come un potere, come la possibilità di costruire nuove forme di pensare la  partecipazione politica della società. È in questo momenti al limite dove si esprime chiaramente la lotta di classe, in cui stiamo imparando che questa grande rivolta è anche una scuola che ci sta insegnando a credere nel pubblico, che desidera chiudere con la politica dei buoni, dei patti, della rappresentanza e delle agende politiche. Oggi dobbiamo produrre ideologie e non convenzioni. E allo stesso modo in questi giorni abbiamo visto crollare il mito del successo dell’economia cilena, della democrazia cilena e dei media ufficiali.

Siamo consci che l’attuale crisi – che ha dimensioni globali e che ovviamente eccede i limiti del l’economia – è stata causata da un modello di devastazione patriarcale che ha disumanizzato il mondo, negando i diritti umani e i beni pubblici.

L’esperienza più significativa di questa meravigliosa ribellione di ottobre è che ci sta facendo comunità e questo senso di appartenenza ricostruisce le nostre relazioni dopo tanti anni di un capitalismo selvaggio che ha precarizzato le risorse produttive, le relazioni e le soggettività. Di certo, se una massiccia ondata di proteste è stata capace di fermare il paese per un mese, di elaborare un nuovo immaginario politico con simboli senza precedenti come il nostro amato “perro matapacos”, a promuovere la realizzazione di assemblee territoriali, a deridere il coprifuoco imposto dall’applicazione della Legge di sicurezza dello Stato e dare continuità alle mobilitazioni, nonostante l’estrema violenza esercitata dalla  polizia e dall’esercito, non sembra adeguato parlare di mancanza di volontà politica.

Questa volta la relazione si deve invertire e le epistemologie e gli apparati ideologici devono essere disposti a cambiare al passo degli eventi.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

Un pensiero su “Cile, ripartire dalla rivolta di ottobre”

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