Il 5 novembre 2013 il Centro di identificazione ed espulsione della provincia di Gorizia viene chiuso dopo tre giorni di rivolta. Il 17 dicembre 2019 gli stessi luoghi sono riaperti con un nuovo nuovo: Centro di permanenza e rimpatrio. Già 11 le persone riuscite a fuggire

Majid è sul tetto con gli altri, il tempo è quello compreso fra l’11 e il 12 agosto del 2013, una notte in cui si suda per afa e agitazione.

Eppure appena due notti prima si festeggiava: è il Bairan, amico. Il Ramadan è finito, stanotte cerchiamo di essere felici, nonostante i muri di cemento attorno e il filo spinato e la libertà mangiata. E allora festa sia, che anche chi è rinchiuso in un Centro per l’Identificazione e l’espulsione ha diritto a un po’ di leggerezza. Dura poco. Alle due di notte fanno irruzione: sono in tenuta antisommossa. «Rientrate nelle vostre stanze», si cerca di spiegare che «Please, it’s really hot inside, you know?», la notte è caldissima, le camerate sono sovraffollate, le finestre sigillate, l’aria non circola. Li lasciassero almeno stare all’aperto. Niente da fare, l’ordine è dato: dentro. La tensione sale. Poi accade, gli agenti hanno iniziato a usare la forza. Qualcuno si è fatto male? Non ha importanza, tanto non lo saprà nessuno. Se nei giorni seguenti si andrà a cercare di scoprirlo interpellando il personale del Pronto Soccorso, ci si scontrerà con la riluttanza a parlare dello stesso, «È la privacy, bellezza».

A un certo punto qualcuno si ritrova immerso nel fumo, è una nuvola che fa bruciare gli occhi e affatica il respiro: sì, stanno usando i lacrimogeni, in uno spazio chiuso dal plexiglass. Questo almeno si saprà, perché verranno raccolti i bossoli. Uno è svenuto: è asmatico. L’angoscia crea l’urgenza: i più forti uniscono le forze per rompere il plexiglass, bisogna fargli riprendere conoscenza, bisogna dargli aria.

Qualcuno chiederà conto di questi fatti, avvenuti due giorni prima che Majid salisse sul tetto, alle forze dell’ordine? Sì, i rappresentanti della Questura e della Prefettura di Gorizia verranno interpellati. Non negheranno. Diranno che si è trattato di una banale colluttazione.

Ma ora sono le 21.30 dell’undici agosto: due italiani, fuori dal CIE, ricevono delle telefonate. È qualcuno dall’interno del centro, chiamano per chiedere aiuto con dei cellulari sfuggiti ai controlli. È partita una nuova colluttazione, durante la chiamata si sentono distintamente le urla dei trattenuti in sottofondo. Poco dopo i due italiani sono là fuori, impotenti. Cercano preventivamente di far arrivare un’ambulanza: niente da fare, se la chiamata non arriva dall’interno, si rifiutano di mandarla. Intanto le urla aumentano e si sentono spari ripetuti.

E così adesso Majid è lassù. Lui e gli altri dal tetto non vogliono scendere e ci rimarranno fino all’alba. «Chiedono di essere ascoltati, di essere trasferiti in altro Centro dove sia loro garantito un trattamento più umano o, in alternativa, di poter uscire fuori dalle “vasche” (vere e proprie gabbie ricavate nei cortili interni, sulle quali si affacciano le camerate), di usare i cellulari (vietati in base a un’ordinanza di due anni prima e all’epoca vigente), di ottenere una riduzione del tempo di trattenimento o, infine, di esser rimpatriati pur di non dover subire il disumano trattenimento nel CIE», come riporta l’esposto presentato più tardi alla struttura.

Abdel Majid El Kodra ha trentaquattro anni e viene dal Marocco; e in questa notte del 12 agosto 2013 si sta battendo per i diritti umani che la Repubblica Italiana gli sta negando. Come questa battaglia finirà non lo saprà mai. Non è mai stato chiarito come sia caduto. La morte è arrivata dopo otto mesi di coma e svariate operazioni alla testa.

Il CIE di Gradisca non è stato chiuso subito dopo l’incidente, Majid non era sufficiente e gli altri hanno dovuto continuare a lottare. Lo sgombero è arrivato la mattina del 5 novembre 2013, dopo tre giorni di poteste intense, materassi incendiati e uno sciopero della fame.

Sei anni più tardi, il 17 dicembre 2019, gli stessi luoghi sono stati riaperti dopo una riqualificazione e un semplice cambio di sigla. Niente più CIE, ora si dice CPR (Centro permanente per i rimpatri).

Adesso è, fisicamente, per metà CARA (Centro Accoglienza per Richiedenti Asilo) e per metà CPR. Ambivalenza che lo rende un caso unico in Italia. La struttura è una ex caserma con la faccia da carcere. Faccia che si è indurita con l’ultima ristrutturazione, secondo quanto riportato da “Il Piccolo”, l’edificio è «di massima sicurezza, con tanto di sistema di video sorveglianza potenziato rispetto a quello di alcuni anni or sono, vasche esterne non più comunicanti tra loro ma divise per camerata, e l’impossibilità di accedere al tetto», grazie a una rete che affetta l’azzurro del cielo. Muri alti quattro metri, con aguzzi denti di vetro in cima.

Meno di un mese di attività, undici persone fuggite (tre a inizio gennaio e otto l’altro ieri) e un’interrogazione rivolta al Ministero dell’Interno, depositata ieri da Sabrina De Carlo (M5S): «Nella disperazione di voler scappare, gli ospiti sono arrivati a preoccupanti forme di autolesionismo, procurandosi ferite profonde e tentando il suicidio». Pochi giorni fa, davanti al CPR si è tenuta anche una manifestazione di solidarietà, organizzata dall’Assemblea No CPR – No Borders, che ha visto la partecipazione di circa 200 persone. «A un certo punto, dopo che ci eravamo tutti fermati davanti al CPR a trasmettere questo messaggio, intervallato ogni tanto dallo slogan “FREEDOM, HURRYA, LIBERTÀ” gridato a squarciagola, abbiamo sentito delle voci».

Racconta Margherita Cogoi, presente all’evento. «Voci che ci rispondevano o che comunque si rivolgevano a noi, e che provenivano dall’interno. È stato commovente. Mi sono sentita parte di un gruppo di umani che parlano ad altri umani, e questa era ed è l’unica cosa forse davvero importante. Non li vedevamo, non vedevamo le loro differenze fisiche o di vestiario, ma li sapevamo ingiustamente dietro alle sbarre, dietro ai muri e alle reti. Li sentivamo parlare italiano come fratelli, anzi urlare LIBERTÀ, e questo mi è sembrato meraviglioso, e meravigliosamente triste. Oltre che terribilmente reale. Tra l’altro il fatto che chi ci rispondeva parlasse italiano fa capire che sicuramente quel “clandestino” è rimasto in Italia per un po’, magari lavorando o comunque parlando con italiani, integrandosi – almeno nella misura necessaria per saper parlare. Per poi finire dietro a sbarre, muri, reti, piantonato dagli operatori della Edeco [la cooperativa a cui sono stati appaltati i servizi all’interno del centro, già indagata per precedenti gestioni irregolari – nda] e dal dispiegamento di forze dell’ordine massiccio che la politica ha richiesto “per la sicurezza dei cittadini”».

A ogni modo, non è Gradisca il problema. In Italia i CPR sono sette: la cronaca è sempre la stessa. Rivolte a Caltanissetta. Rivolte a Bari. Materassi incendiati; in gola lamette, palline da ping pong, saponette. Rivolte a Trapani. Rivolte a Torino. L’ultima appena ieri. L’ANSA riporta le parole degli inquirenti, secondo i quali «i disordini avrebbero una regia comune, l’ipotesi è che a pianificare le ribellioni siano esponenti della galassia anarchica».

È possibile che l’Italia, senza accorgersene, abbia ora il movimento anarchico più diffuso ed efficiente di sempre. Oppure è possibile che gli italiani, oggi, mettano altre persone in centri così disumani da far loro desiderare di morire.

I CPR sono strutture detentive dove vengono reclusi i cittadini stranieri, non comunitari, sprovvisti di regolare titolo di soggiorno, eppure subiscono un trattamento più duro che in carcere. L’estate scorsa lo stesso Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà si è espresso duramente in merito: «Una privazione della libertà, disposta perlopiù non in conseguenza di reati ma per irregolarità amministrative, non può essere simile o peggiore a quella di chi sconta una pena. Tantomeno può prevedere minori garanzie di tutela dei propri diritti: per questo il diritto al reclamo e il potere di vigilanza dell’autorità giurisdizionale devono essere introdotti per le situazioni di privazione della libertà delle persone migranti, come il Garante nazionale ha da tempo raccomandato».

Majid non è l’unico morto di un centro di detenzione amministrativa né il più recente. Questa storia di abusi, violenza e privazione va avanti da anni, grazie a forze politiche di sinistra quanto di destra, senza eccezioni. Però, si sa: italiani, brava gente.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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