Il collegio dei sacerdoti di Olimpia ha impiegato vent’anni per scegliere lo scultore che avrebbe dovuto realizzare la statua per il tempio di Zeus. Comprensibile: si trattava della statua più importante all’interno del tempio più prestigioso di tutto il mondo greco. Immaginatevi le pressioni politiche, i tentativi di corruzione, le dispute artistiche che una tale scelta comportava. Ogni artista greco avrebbe fatto carte false per un tale onore e ogni città voleva poter dire che era stato preferito il “suo” scultore.

Il tempio è stato terminato nel 456 a.C. e finalmente nel 436 i sacerdoti hanno annunciato che sarebbe toccato a Fidia. Il suo nome è il più accreditato già da molti anni, ma dopo l’inaugurazione ufficiale del Partenone, avvenuta nel 438, non c’è più discussione. Anche se probabilmente gli spartani hanno continuato a insistere affinché quell’incarico non fosse affidato a un ateniese, per di più così legato all’ambiente pericleo. Ad Atene Fidia aveva avuto l’incarico di sovrintendere all’edificazione del tempio, di disegnare i bozzetti di tutte le decorazioni esterne e interne e di realizzare la grande statua di Atena Parthénos. Quando finalmente i sacerdoti di Olimpia comunicano il nome del prescelto tanti greci hanno già ammirato il Partenone: ormai Fidia è una star.

I sacerdoti gli mettono a disposizione un edificio a fianco del tempio per realizzare quella statua. Gli archeologi lo hanno individuato e all’interno hanno ritrovato tracce dei materiale impiegato, avorio, ceramica, ossidiana e poi punteruoli, martelli, scalpelli, gli arnesi del lavoro di Fidia e dei suoi uomini. Verosimilmente l’artista si è portato dietro gran parte della propria bottega e ha assunto altro personale a Olimpia. Nel 433, dopo soli tre anni, la statua è pronta.

È colossale: supera i dodici metri di altezza. Appare sproporzionata rispetto al tempio, che pure era molto grande. Strabone nella sua Geografia scrive

Zeus, seduto, sfiorava il soffitto con la testa, dando l’impressione che, se si fosse alzato in piedi, avrebbe sfondato il tetto.

Pausania, nel quinto libro del Viaggio in Grecia, ne dà la descrizione più completa. Il dio, fatto di oro e avorio è seduto in trono. Indossa una corona di ramoscelli di ulivo, sandali d’oro, un mantello anch’esso d’oro, decorato con fiori di giglio in pietra dura e figure di animali. Nella mano destra tiene una Nike alata, anch’essa di oro e avorio, mentre nella sinistra uno scettro, su cui poggia un’aquila, ovviamente d’oro.

Sul fatto che questa statua di Fidia fosse un capolavoro dobbiamo fidarci, oltre che della descrizione di Pausania, del giudizio degli antichi che l’hanno considerata una delle sette meraviglie del mondo, perché la statua è andata perduta, probabilmente distrutta nell’incendio che ha devastato Costantinopoli nel 475 d.C.; la statua infatti era arrivata nella collezione di un ricco funzionario dell’impero, un tal Lauso, e il suo palazzo è stato distrutto proprio in quella data, insieme all’Afrodite Cnidia di Prassitele e a molti altri capolavori. Lauso aveva un ottimo gusto e le capacità di soddisfarlo.

Vi consiglio però di fare una gita a Modena. Vedrete uno dei capolavori assoluti del romanico, il duomo di Lanfranco con le statue di Wiligelmo, mangerete benissimo – anche senza andare dal cuoco più bravo del mondo – e, se vi rimane un po’ di tempo, potrete visitare il museo archeologico-etnologico, che custodisce una lastra di marmo, che è una copia di ottima fattura, probabilmente di una bottega di artigiani greci, di una parte del rilievo del trono di Zeus a Olimpia. C’è qualcosa del genere anche al British Museum, però a Londra non c’è il gnocco fritto.

I sacerdoti devono essere stati piuttosto minuziosi con Fidia rispetto a tutti i particolari della statua, ciascuno dei quali ha un preciso significato simbolico. Ma probabilmente l’artista ha avuto una qualche libertà in più rispetto alle figure del basamento e del trono, di cui si è forse limitato a disegnare i bozzetti, lasciandone la realizzazione alla sua bottega.

Per il trono ha scelto un motivo piuttosto tradizionale, l’uccisione dei Niobidi. Niobe è figlia di Tantalo e sorella di Pelope. Tantalo è così benvoluto dagli dei da essere invitato con una certa regolarità sull’Olimpo. Proprio in una di queste occasioni ha fatto una cosa piuttosto sconveniente, ha rubato l’ambrosia, il cibo degli dei, e l’ha portata sulla terra, dandola ai suoi sudditi, non per generosità, ma certo per far pesare il suo legame con gli dei, e per fare del populismo a buon mercato, una cosa che i politici tendono a fare anche oggi, pur non regalandoci l’ambrosia. Come ben sappiamo Tantalo per questo è stato crudelmente punito. Niobe da bambina ha probabilmente seguito il padre nei suoi viaggi sull’Olimpo, ha frequentato le giovani dee, e, una volta diventata sposa di Anfione, figlio di Zeus e re di Tebe, crede di essere come loro. Non capisce perché tutti onorino la sua compagna di giochi Leto, che non è regina e ha avuto solo due figli, un maschio e una femmina, mentre lei ha avuto sette figli forti e robusti e sette figlie bellissime. Ma quei due giovani sono Apollo e Artemide, che, istigati dalla madre, decidono di punire la presunzione di Niobe e ne uccidono rispettivamente i figli e le figlie. Fidia nel fregio che adorna il trono di Zeus rappresenta proprio l’uccisione di questi quattordici giovani, innocenti.

È un mito tradizionale, la strage dei Niobidi è soggetto spesso rappresentato dagli antichi in pittura e in scultura, ma perché Fidia ha voluto scegliere proprio questa scena, in una celebrazione di Zeus trionfante?

Probabilmente quando Fidia ha sottoposto i bozzetti del trono al collegio dei sacerdoti questi hanno lodato la scelta: una storia edificante, il segno che gli uomini non devono essere superbi, non devono peccare di ὕβϱις – hybris – ossia di tracotanza, che devono accettare i propri limiti. Niobe è il simbolo della superbia ancora in Dante che la mette nel Purgatorio

O Nïobè, con che occhi dolenti

vedea io te segnata in su la strada,

tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!

E probabilmente qualcuno di quei sacerdoti, amici di Sparta e difensori delle tradizioni, avranno pensato che quella di Niobe era una lezione che avrebbero dovuto imparare quei tracotanti degli ateniesi, che si consideravano ormai i migliori dei greci: una sorta di contrappasso che proprio il loro più grande artista ricordasse a cosa rischiavano di andare incontro, sfidando le antiche leggi.

Ma credo che Fidia abbia ingannato quei sacerdoti. Non vuole raccontare l’espiazione di una colpa. Nel momento in cui celebra la massima potenza di Zeus, il re degli dei, signore della pace e dell’ordine, ricorda che tutto ciò poggia sulla crudeltà e sul sangue. Certo Niobe è stata superba, ma perché uccidere quattordici giovani innocenti per punirla? La strage dei Niobidi è irrazionale, sproporzionata, violentemente sadica. Come si fa a onorare un dio il cui regno poggia su una strage di tale efferatezza?

Chissà se qualcuno dei sacerdoti di Olimpia ha capito il gioco di Fidia. Far entrare in un tempio, il tempio più sacro di tutta l’Ellade una statua con un messaggio così radicalmente antireligioso. Comunque sia a Olimpia tutti ringraziano l’artista ateniese per quella statua, che, al di là del messaggio, porta nuovi turisti e quindi soldi.

E così lo scultore torna ad Atene, ma qui l’aria è cambiata, i sostenitori di Pericle non hanno vita facile. Nel 432 viene accusato di malversazione: si sarebbe impadronito di una parte dell’oro destinato alla statua di Atena. Per fortuna Fidia ha tenuto i conti in ordine, riesce a dimostrare che tutto l’oro ricevuto è servito per le vesti della dea, che vengono pesate: non manca un grammo. Neppure questa statua si è salvata dalle fiamme, la conosciamo solo grazie alla testimonianza del viaggiatore Pausania. Il braccio sinistro della dea poggiava su un grande scudo, del diametro di quattro metri, dietro a cui si nascondeva il serpente Erittonio; sul lato esterno dello scudo Fidia ha scolpito delle scene di amazzonomachia, mentre su quello interno una gigantomachia. Una delle figure su questo scudo aveva il suo volto: un piccolo peccato di vanità, che gli è stato fatale. Viene accusato di empietà e stavolta non può scagionarsi: viene imprigionato e qui muore dopo pochi mesi, forse avvelenato. La lotta politica ad Atene era piuttosto violenta e non risparmiava queste esecuzioni sommarie. In fondo Fidia ce l’aveva già raccontato: il potere, per quanto appaia sfavillante, poggia sempre sulla crudeltà.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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