9 febbraio 1893: giovedì grasso. Milano si prepara alla prima della stagione di Carnevale e Quaresima della Scala. In città c’è un clima di febbrile attesa. In cartellone c’è la nuova opera di Giuseppe Verdi. L’ultima opera di Giuseppe Verdi. Naturalmente nessuno dice apertamente che l’ottantenne compositore di Busseto non riuscirà più a scrivere un’altra opera dopo questo Falstaff, ma è quello che tutti pensano. E anche Verdi sa che questo è il suo ultimo lavoro, in un certo senso il suo estremo lascito al mondo del teatro che ha tanto amato. Già finire Falstaff non è stato facile, non tanto per i problemi di salute – tutto sommato sta bene per un uomo della sua età, la tempra è quella forte di un contadino emiliano – quanto per il morale. In quei mesi ha dovuto partecipare a troppi funerali: tutti gli amici di una vita lo stanno progressivamente lasciando.
Grazie a questa curiosità morbosa, la prima di Falstaff è diventata un evento: i biglietti costano trenta volte più del consueto. Eppure tutta Milano è in fila per entrare alla Scala. Da Torino è arrivata la principessa Bonaparte, moglie di Amedeo di Savoia, per il governo è presente il ministro della pubblica istruzione Ferdinando Martini, il professor Carducci è in platea.
Trent’anni prima il ventunenne Arrigo Boito scrive un’ode provocatoria che comincia con questi versi
Alla salute dell’Arte Italiana!
Perché la scappi fuora un momentino
dalla cerchia del vecchio e del cretino
giovane e sana.
Non fa nomi l’impertinente poeta, ma, visto che è anche un musicista e ha l’ambizione di scrivere opere, il suo obiettivo polemico è naturalmente il Maestro Verdi, che in quell’anno ha già scritto ventidue delle sue ventisei opere ed è una star in tutta Europa. Comunque, al di là di quello che Boito scrive o non scrive nei suoi versi, Verdi è convinto di essere il bersaglio di quello strale e non dimentica quelle parole, quando, quasi vent’anni dopo, Boito, che non è più un giovane bohemienne – o scapigliato, come si dice in Italia – gli propone un suo libretto basato sull’Otello di Shakespeare. Non vuole neppure vedere quel giovane arrogante.
Servono tutta la diplomazia di Tito e Giulio Ricordi e la pazienza di Giuseppina Strepponi per convincere Verdi a incontrare Boito. L’incontro però va bene. Verdi ama le opere di Shakespeare, perché ama il teatro e nessuno come il Bardo sa raccontare le donne e gli uomini sulla scena e quel Boito è davvero bravo a trasformare in un libretto un dramma dell’inglese. E così nasce l’Otello, che viene rappresentato a Milano il 5 febbraio 1887, con un enorme successo: Verdi pensa sia il modo giusto per chiudere la sua lunga carriera.
Ma quel Mefistofele di Boito tenta il vecchio Maestro con un nuovo libretto, basato sulla commedia Le allegre comari di Windsor e su alcune scene dei due drammi dedicati a Enrico IV. Verdi resiste: non vuole cominciare una nuova opera. E una commedia per di più. Ormai è troppo vecchio.
Però che sfida sarebbe.
Il 9 luglio 1889 Arrigo Boito gli scrive
C’è un solo modo di finir meglio che coll’Otello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff. Dopo aver fatto risuonare tutte le grida e i lamenti del cuore umano finire con uno scoppio immenso d’ilarità! C’è da far strabiliare!
Ma non è questa lettera che convince Verdi: ha già deciso, accetta la sfida.
Caro Boito, Amen; e così sia!… Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all’età, alle malattie!
E si mette al lavoro. Che seguirà con la consueta tenacia. Come ha sempre fatto, nonostante gli costi sempre più fatica, dirige tutte le prove, perché vuole che Falstaff sia messo in scena come dice lui.
Quella sera di carnevale il pubblico sembra impazzito dall’entusiasmo. Il Maestro Verdi esce tre volte dopo il primo atto, sei dopo il secondo e sette alla fine. La folla che è rimasta fuori dalla Scala accompagna la carrozza che riporta il compositore e sua moglie Giuseppina al Grand Hotel et de Milan. Verdi esce diverse volte al balcone della sua suite per salutare quella folla che cresce ogni momento.
Certamente Verdi è contento di quell’entusiasmo, che è prima di tutto un segno di stima nei suoi confronti, per tutto quello che ha fatto in tanti anni di carriera. Eppure non può non pensare che forse tutti quegli applausi servono al pubblico per esorcizzare la storia che lui e Boito hanno messo in scena quella sera. Quando Falstaff e il resto della compagnia cantano “Tutti gabbati!” non si riferiscono solo a quello che è appena successo sul palco, ma guardano in faccia gli spettatori, ministri e generali, poeti e professori, accademici e musicisti, nobili e ricchi. Il vecchio Verdi, il senatore Verdi, il padre della patria Verdi, saluta il suo pubblico con un ghigno anarchico: avete poco da ridire – sembra dire – perché tutti siamo gabbati.
Certo Falstaff è una commedia, ma il suo protagonista non è un personaggio farsesco. Falstaff è un contemporaneo di Don Chisciotte e, come lui, è una sorta di “reduce” del medioevo in un mondo che è ormai definitivamente cambiato: di entrambi ridiamo perché si ostinano a vivere in maniera anacronistica come cavalieri in una società dominata dai borghesi. Eppure amiamo il cavaliere dalla triste figura perché si aggrappa con pazza ostinazione alla sua idea di onore e all’amore puro per la sua Dulcinea. Invece finiamo per detestare Falstaff che, in uno dei suoi interventi più crudi, dice che a lui l’onore non interessa, e chiede con cattiveria ai suoi due servi infedeli (così diversi da Sancho Panza):
Può l’onore riempirvi la pancia?
E nonostante parli sempre d’amore, Falstaff non è capace di provarlo, a lui interessano le donne solo se hanno denari. E naturalmente non ha la grandezza tragica di Don Giovanni che non si pente neppure di fronte ai diavoli e sfida apertamente la morte. Falstaff sotto la quercia di Herne piagnucola e chiede perdono.
Falstaff è il meschino che non conosce grandezza. È qualcuno che conosciamo bene, perché noi siamo così. Ridiamo di fronte alla sua sconfitta, ma anche noi siamo spaventati, perché sappiamo di essere molto più simili a lui che a Don Chisciotte. O siamo come Ford o come il dottor Cajus o come Bardolfo. Il nostro destino è quello di essere gabbati. Non illudetevi – dice Verdi – non rimpiangete il mondo vecchio: non era migliore. E non sperate nel mondo nuovo: non sarà migliore. Vivete la vostra mediocrità, qui e ora. Per questo, nonostante le risate, Falstaff non è una commedia, ma forse una delle più terribili tragedie di Verdi.
E chissà se il Maestro ha pensato che stava per chiudere la sua storia teatrale con una commedia in cui i gabbati sono gli uomini, mentre le donne riescono a ottenere quello che vogliono. Verdi ha spesso raccontato la storia di grandi donne che fanno impallidire i loro uomini – come Violetta con Alfredo, Gilda con il Duca, Aida con Radames – ma alla fine muoiono tutte. In Falstaff invece le donne vincono. E si godono i frutti della loro vittoria. Finisce rivoluzionario il vecchio Verdi.
Anche il giovane compositore toscano Giacomo Puccini ha voluto assistere al Falstaff. Ascolta quelle note del vecchio maestro, che potrebbe essere suo padre, e ne coglie tutta la modernità. Rimane sbalordito. Si chiede se lui a ottant’anni, a metà del prossimo secolo, sarà mai capace di scrivere una musica così nuova.
E mentre Falstaff canta “Tutto nel mondo è burla”, Verdi guarda il suo “complice” in quell’avventura e ricordando quei versi di trent’anni prima, che non ha mai del tutto dimenticato, pensa:
Allora, caro Boito, chi è il vero scapigliato?
se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…