Andrea Alba

Salvini e Meloni hanno passato le ultime 72 ore a delirare attorno a quello che è ormai l’acronimo più celebre della Pasqua 2020, edizione quarantena.

di Andrea Alba

Stiamo parlando del MES, il fondo salva stati che nella vulgata populista è stato approvato come il patto di Londra, il trattato col quale l’Italia passava dalla triplice Alleanza alla triplice Intesa siglandolo con una firma segreta e all’insaputa del parlamento.

Peccato che quel patto lo avessero desiderato ardentemente i sovranisti ante litteram, i veri sostenitori dei pieni poteri, del Paese sovrano, del grande Paese che doveva affermare il suo dominio tra gli altri stati europei. Un po’ come il MES, che non è una dichiarazione di guerra, ma un’organizzazione internazionale a carattere regionale nata come fondo finanziario europeo per la stabilità finanziaria della zona euro, istituita dalle modifiche al Trattato di Lisbona. E che in assoluta trasparenza è stato preparato dal governo Berlusconi IV durante il 2011. In quell’anno di grazia il centrodestra era più compatto che mai, forse un po’ meno di adesso ma poco importa. Quello che ci interessa sapere è che a sostegno di quell’esecutivo ci fosse l’intero centrodestra, dal PDL alla Lega. Giorgia Meloni aveva addirittura un incarico di governo, visto che era stato istituito giusto per lei il Ministero della gioventù, dicastero la cui funzione era riecheggiare l’organizzazione dei balilla del ventennio del secolo scorso e ridare dignità ai post-fascisti, dopo l’umiliazione subita per essere confluiti nel PDL senza fiatare.

Roberto Maroni guidava il Ministero degli Interni, come in tutti i sogni erotici leghisti, mentre Tremonti era il guru dell’economia e di lì a breve sarebbe diventato quello della bancarotta. Perfino a Bossi avevano dovuto dare un Ministero in quell’esecutivo. Non è detto che se ne sia mai accorto, ma questo è un altro discorso.

A nessuno della maggioranza era saltato in mente di scrivere una sola riga sul MES, fosse solo di lecito dubbio, di sana critica, di giubilo o di approvazione. Nessuno sembrava preoccupato per quella scelta, nemmeno lontanamente. Basti pensare che ad agosto 2011 il voto in Consiglio dei Ministri andò liscio come l’olio. Forse con un po’ di fastidio per quell’incombenza estiva, tra il caldo romano, qualche abbraccio, un paio di battute sull’abbronzatura e poi tutti a contendersi l’invito in Sardegna nella villa del Cavaliere, anche solo per un fine settimana.

Certo, va detto che quando il MES arrivò in parlamento, si era già insediato il governo Monti e il quadro politico era mutato radicalmente. La Lega era passata all’opposizione e per questa ragione votò contro, non perché nel lungo inverno i deputati avessero passato la testa sui manuali di economia a studiare, ma per mera disciplina di partito. Votarono a favore quasi tutti i deputati del PD e del PDL, a eccezione di poche mosche bianche. Un voto così unanime il centro destra lo aveva espresso solo per la parentela che legava Ruby al recentemente scomparso Mubarak, pace all’anima sua.

Giorgia Meloni, che condivide col suo socio Salvini uno dei tassi più alti di assenteismo, in quella legislatura partecipò al 26,54% delle votazioni in aula, tra cui proprio quella in cui si ratificava la genealogia della giovane Ruby. A fare i conti della serva potremmo dire che la leader di Fratelli d’Italia, allora Ministra del PDL, era presente a una votazione su 4. E quella sul MES se la perse. Assieme a tante altre. Forse per questo si è sentita legittimata a parlare di alto tradimento nei giorni scorsi.

Il buon Salvini invece coltivava il suo otium europeo a Bruxelles, alimentando ancora risentimenti grossolani ma sinceri contro i meridionali, al tempo ancora indicati come il nemico numero uno della gloriosa nazione padana. Fosse stato in parlamento, avrebbe votato sicuramente contro il MES, come fece il suo partito. Ma quello era un altro mondo: il M5S era soltanto una conventicola di fanatici digitali ossessionati dalle scie chimiche che si mandavano giulivamente a fanculo e di lì a breve la Lega un partito quasi estinto per via degli scandali, dei discutibili successi accademici in Albania e per la biancheria di lusso comprata coi soldi dei contribuenti.

Ma non finisce qui, perché anche quest’estate si è ripreso a parlare di MES. Stavolta però nessun hashtag, nessun colpo di stato o alto tradimento. In compenso Matteo Salvini fa il vice-premier, la Lega guida metà dei Ministeri e i Presidenti della Commissione Bilancio e Finanze.

Il 13 giugno del 2019 Giuseppe Conte e Giovanni Tria sono all’Eurogruppo e contrattano un ampio accordo di revisione del trattato economico. Matteo Salvini ha ancora il segno dell’abbronzatura a forma di canottiera. E dalle trascrizioni di camera e senato non risultano interventi a suo nome o di altri esponenti leghisti contro il super fondo europeo. Vabbè, direte voi: sarà stato impegnato al Ministero dell’Interno. Quello era il periodo dello sciacallaggio sulla pelle di poveri cristi al largo delle coste, della campagna elettorale perpetua e perenne, spacciata il più delle volte per inaugurazione di caserme o missioni inerenti al suo Ministero e il leader leghista era dunque molto impegnato. O molto più probabilmente si era appena aperta la stagione balneare del Papeete.

E poi ci sono gli ultimi giorni, i tweet più recenti, i post convulsi delle ultime ore, quelli che hanno portato l’hashtag #MES tra i più popolari di questa bizzarra Pasqua ai domiciliari, molto più in alto di #uovadicioccolato e #colomba. E non è affatto inspiegabile, a giudicare dagli straordinari che stanno facendo durante queste vacanze i poveri social media manager della cosiddetta destra sovranista italiana. Fatto sta che nell’uovo di Salvini e Meloni quest’anno ha campeggiato un enorme schiaffone a reti unificate tirato dal signor Conte. Che sarà lo stesso che ha governato con Salvini, che non ha ancora abolito i criminali decreti sicurezza, che potrebbe lavorare per una redistribuzione maggiore delle ricchezze dentro la crisi che stiamo vivendo, che probabilmente ha usato in maniera impropria il suo spazio televisivo, ma che ha dovuto, per amore della chiarezza, smascherare due politici che fanno dell’avvelenamento dell’informazione carburante per il loro consenso malato e cinico.

Un pezzo di stampa italiana si è anche indignata, ma forse è la stessa stampa che in questi anni ha permesso a Salvini e Meloni di parlare in ogni studio televisivo senza contraddittorio, senza mai scalfire le loro granitiche certezze, molto spesso labili come un castello di carta.

Il quarto potere si è riscoperto liberale in un mondo illiberale che ha contribuito a costruire. Salvini ha gridato alla censura, Meloni ha parlato di dittatura. E lo hanno fatto appena pochi giorni dopo aver acclamato le scelte autoritarie, liberticide e antidemocratiche del loro punto di riferimento europeo, Viktor Orban. Nessuno dei giornalisti che si sta strappando le vesti per il tiro mancino di Conte ha messo insieme questi due semplici elementi, nessun paladino di Voltaire ha giocato sulla contraddizione del fare gli autoritari per poi invocare la democrazia.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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