Rappresentare il femminismo intersezionale, antirazzista, body e sex positive: è questo il core di “La lotta è FICA”, il nuovo progetto di public art di Cheap, composto da 25 poster realizzati da altrettante artiste e installati sulla centralissima via Indipendenza a Bologna

Nei poster sono rappresentate le lotte femministe che intersecano l’antirazzismo, trova fisicità lo sguardo queer sui generi, entrano i corpi delle donne, corpi trans e corpi eccentrici. Un divertissement femminista su poster per il quale sono state chiamate a raccolta 25 artiste: illustratrici, grafiche, fotografe, perfomer, fumettiste, streetartist – una pluralità di media che corrisponde ad un vasto campionario di biografie e visioni, unite dalle prospettive del transfemminismo.

Ideatrice e curatrice dell’operazione è Cheap, il progetto di public art con sede a Bologna fondato nel 2013 da sei donne: “La lotta è FICA” è il suo primo intervento realizzato dall’inizio del lockdown ed è significativamente stato scelto per sottolineare quanto il femminismo sia un’attività essenziale.

«Questa pandemia» – fanno sapere da Cheap – «ha funzionato in vari ambiti come un acceleratore che ci ha imposto un terribile reality check: all’interno di questa crisi, i divari di genere preesistenti si sono dilatati».

Si è chiesto di restare in casa anche a donne che nelle proprie case non sono sicure perché convivono con uomini violenti: il problema della violenza di genere è stato completamente ignorato all’interno del discorso pubblico istituzionale.

Sono state chiuse le scuole e non sono mai state riaperte configurando uno scenario piuttosto scontato: se già in un periodo di normalità (e per normalità ci riferiamo all’assenza della peste) la divisione del lavoro sulla base dei ruoli di genere comporta per le donne una maggior responsabilità in termini di lavoro di cura domestica, è piuttosto evidente che la chiusura delle scuole insieme alla malattia dei familiari hanno fatto aumentare questa richiesta esponenzialmente, causando con ogni probabilità l’abbandono da parte delle donne del lavoro salariato, specialmente per quelle che non possono attuare lo smartworking.

Claudia Pajewski e Camilla Caré per “La lotta è FICA” (foto: Michele Lapini)

La crisi sanitaria legata alla pandemia ha effetto anche sullo spostamento di risorse economiche dai servizi di salute sessuale, riproduttiva, materna: in un paese dove i consultori erano insufficienti prima dell’arrivo del virus, è legittimo temere che alle donne non verrà garantito il diritto di accedere a servizi sanitari fondamentali. «In uno scenario del genere» – conclude Cheap – «ripartire dal femminismo ci sembra solo un atto di buon senso».

L’intervento di Cheap arriva nelle strade di Bologna a pochi giorni dalla nuova ondata di polemiche sulla statua dedicata a Montanelli a Milano: un caso?

«Il progetto era in cantiere da gennaio ma non c’e nessuna casualità: stiamo finalmente assistendo ad un cambiamento del paradigma. A Bristol, la statua dello schiavista Edward Colston è stata rimossa e buttata nel fiume; negli Stati Uniti varie statue di Cristoforo Colombo sono state rimosse. A Milano si è affermato una cosa che noi troviamo di una banalità sconcertante, cioè che uno stupratore non merita una statua e attraverso di essa una celebrazione pubblica: eppure abbiamo assistito a una levata di scudi agghiacciante in difesa di un suprematista bianco che parlava della sua schiava bambina come di un “animaletto docile”.

Non siamo certe che la difesa del privilegio bianco maschile e coloniale si fermerà alla schiera dei bimbi di Montanelli che si stanno stracciando le vesti, argomentando che lo “stupro va contestualizzato”. Temiamo invece che non solo assisteremo a scene indegne del genere ogni qualvolta un simbolo dell’oppressione verrà contestato ma che le stessa situazione si ripeterà quando cercheremo di produrre un immaginario critico in opposizione a quello sopra citato. Cheap oggi produce un intervento di arte pubblica che parla di femminismo, della connessione del potere sistemico nel generare funzionalmente sessismo e razzismo, della necessità di elaborare strumenti di decolonizzazione, di rappresentare corpi che orgogliosamente esulano dalla bianchezza o dall’eteronormatività o dalla visione binaria del genere: così come sappiamo che non si è pronti a eliminare i simboli del privilegio, pensiamo che sia ora che si facciano i conti anche con quelli della nostra liberazione.

Esattamente come sta succedendo nel resto nel mondo: il dibattito vero dell’arte contemporanea oggi è attorno alla decolonizzazione come pratica artistica e riguarda tutte le figure coinvolte – artist*, curatrici, musei, collezionisti, AD, critiche, scrittori.

La decolonizzazione è LA questione. Per noi si connette intersezionalmente ad altri grandi temi del femminismo affrontati nella pratica artistica di donne il cui lavoro è per noi un riferimento: le Guerrilla Girls, con cui abbiamo collaborato nel 2017, si sono per anni concentrate sulla questione del gender gap all’interno del sistema dell’arte; Tania Bruguera è stata ospite a Bologna della biennale Atlas of Transitions, dove ha realizzato un intervento tra arte pubblica e arte partecipata che sviscerava i temi della migrazione e dei confini, un’eredità coloniale; Kara Walker oggi porta avanti un percorso straordinario sulla blackness, percorso che lavora su altre pesantissime eredità coloniali e sui residui del suprematismo bianco».

Nicoz Balboa per “La lotta è FICA”(foto: Michele Lapini)

In alcuni dei 25 poster, ricorre il nudo: il pensiero che questo possa essere un problema viene accolto dal gruppo con una certa rassegnazione. «Il problema non è il nudo, anche se sicuramente qualcuno darà segni di scompenso davanti a dei capezzoli e utilizzerà la cosa strumentalmente. Il problema non è se ci svestiamo o se ci copriamo: lo dimostra il linciaggio mediatico a cui è stata sottoposta Aisha Romano dopo 18 mesi di sequestro. In Italia il problema sono le donne libere che si autodeterminano».

Prosegue Cheap: «Per troppo tempo le donne sono state rappresentate dallo sguardo maschile: anche in questo è in atto un cambiamento di paradigma davanti al quale c’è la solita resistenza che porta a problematizzare le donne che si rappresentano in un nudo che non è eroico ma esprime potenza, a gridare allo scandalo le donne che passano dall’essere oggetto a soggetto del desiderio».

Nei poster di Cheap e nella narrazione femminista a cui questi rimandano, ci sono naturalmente anche corpi trans realizzati da persone trans, come ad esempio il poster dell’illustratrice e fumettista Josephine Yole Signorelli aka Fumettibrutti, caso editoriale con P. la mia adolescenza trans, uscito per Feltrinelli Comics: il suo manifesto affronta la feticizzazione di cui sono oggetto i corpi trans. Cheap, a questo proposito, cita le parole di Antonia Caruso, attivista, scrittrice e editrice trans femminista: «Forse non esiste una rappresentazione perfetta delle persone trans e dei nostri corpi trans. Ma la rappresentazioni sbagliate sono chiare. Sono quelle feticizzanti e pruriginose, concentrate sui genitali in maniera non consensuale, quelle che escludono le soggettività non binarie, quelle binarie, quelle normalizzanti dove siamo impiegat* sorridenti del capitale, quelle metaforiche, quelle dove siamo solo dei corpi da ammirare per il coraggio. Abbiamo dei corpi molto più imperfetti di quanto sembri e questa dissimulazione ci rende tristi e furenti».

I temi dell’antirazzismo e della prospettiva anticoloniale sono invece presenti nei poster dell’illustratrice Rita Petruccioli, dell’artista argentina Mariana Chiesa, della visual designer Ilaria Grimaldi e street artist americana The Unapologetically Brown Series, quest’ultima alla sua prima prova in Italia.

Bastardilla + Chiesa per “La lotta è FICA” (foto: Michele Lapini)

C’è anche un poster realizzato dal team Cheap, con la scritta tipografica “WE can’t breathe”: un rimando alle lotte di Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd? «Non vogliamo solo esprimere vicinanza alla lotta di BLM. Non è solo questione del fatto che riconosciamo il razzismo come un sistema di potere che opera sulla stessa direttrice del sessismo» – risponde Cheap. «Abbiamo un problema molto locale: siamo un paese razzista e non lo sappiamo.

Siamo un paese che razzializza i corpi e non lo sappiamo. Siamo un paese con una storia coloniale, uno sguardo coloniale e non lo sappiamo.

Non ce n’è nemmeno la percezione». Cheap rimanda alle parole della scrittrice Igiaba Scego che denuncia la mancanza di «riflessione sul privilegio bianco in un paese post coloniale», così come a quelle della docente universitaria Angelica Pesarini che parla della frustrazione che «ha preso il sopravvento obbligandomi a riflettere su certe questioni riguardanti il corpo nero e la sua percezione, un senso di mancata consapevolezza del proprio posizionamento e la dimensione prettamente performativa di un certo antirazzismo italiano»: due donne nere italiane che, come altre, hanno preso parola nei giorni successivi alle manifestazioni di solidarietà in Italia per BLM.

Alla violenza di genere sono invece dedicati due poster di due artiste internazionali: Bastardilla, straordinaria street artist colombiana che evoca i dati sull’incidenza della violenza tra le mura di casa; MissMe, artista di base in Canada già precedentemente ospite in città di Cheap, che invece rivendica la rabbia come strumento di lotta. E poi il manifesto di Joanna Gniady, sulle lotte femministe in Polonia; il contributo di Ivana Spinelli, a partire delle suggestioni di Gimbutas e infettato dalla lezione di Haraway; i poster sex positive di Cristina Portolano e di Chiaraliki.art; le rivendicazioni del fat queer activism nelle immagini di Chiara Meloni; l’intersezionalità pop di Giorgia Lancellotti; la messa in discussione da parte di Maddalena Fragnito di ciò che è essenziale in un’ottica di critica netta al capitalismo; i poster body positive della performer Silvia Calderoni e quello firmato da Claudia Pajewski & Camilla Carè; le sirene trans di Nicoz Balboa; il binomio ”amor y lucha” che attraversa come un “fil fuxia” i manifesti di Athena, Luchadora, Ritardo e Jul’Maroh; la sisterhood illustrata da Flavia Biondi; il divertissement visivo di Redville che gioca col titolo del progetto; le lumache ermafrodite sprigionate dal corpo queer disegnato da To / LeT.

La lotta non è mai stata così FICA.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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