La tragica esplosione al porto di Beirut (che pare aver causato oltre 100 morti e oltre 4000 feriti e per la quale è stata proclamata oggi una giornata di lutto nazionale) è avvenuta in un contesto già segnato da una profonda crisi economica e sociale, in cui non ci sono energie per costruire un nuovo progetto politico

I cucchiai sbattono contro le pentole di metallo, i piatti tintinnano mentre vengono impilati. Nel quartiere di Achrafieh, a Beirut, una quindicina di persone si danno da fare per preparare da mangiare, armate di cappelli e grembiuli da cucina. Ma la scena non si svolge dietro le quinte di un ristorante. Gli aspiranti cuochi sono volontari dell’associazione Al-Achrafieh, che ogni giorno distribuisce piatti caldi alle persone più povere del quartiere. A un angolo, Bassam, pensionato, riempie i vassoi con la pasta: «Siamo una piccola associazione, ma riusciamo comunque a distribuire duecento pasti al giorno». Quando la struttura è nata, a marzo, ne distribuivano appena cinquanta. Ma con il peggiorare della crisi aumenta sempre di più il numero di libanesi senza accesso al cibo.

VERSO LA CARESTIA

A mezzogiorno e mezza, Mario e Tony, volontari dell’associazione, riprendono la loro routine: con l’auto piena di pasti, girano per il quartiere e portano da mangiare a chi ha bisogno di aiuti alimentari. I vassoi di pasta ballano al ritmo delle curve. L’auto si inerpica per le ripide serpentine di Achrafieh, quartiere a maggioranza cristiana nella zona est di Beirut, costruito sulle alture della capitale libanese e formato oggi da un agglomerato di case colorate.

Dietro agli affascinanti muri degli edifici, alcune famiglie soffrono la fame e aspettano l’arrivo dei volontari. Sono soprattutto anziani, isolati e con una pensione irrisoria, che non possono più fare affidamento sulla solidarietà familiare in questo periodo di crisi.

Ma cresce anche il numero di famiglie con due o tre figli, in cui il padre ha perso il lavoro all’inizio della crisi o durante il lockdown. Secondo il Programma alimentare mondiale, in questo momento il 50% dei libanesi vive al di sotto della soglia di povertà. Senza nessuna rete di sicurezza statale, molte famiglie senza risorse finanziarie non riescono a procurarsi da mangiare.

Con l’emergenza, la distribuzione di pasti si sta intensificando. Il gruppo Al-Achrafieh opera a livello di quartiere, ma altre strutture si sono estese a tutto il Libano, a dimostrazione che è in corso una crisi generalizzata in tutto il Paese. È il caso, ad esempio, del Rotary Club di Beirut: il direttore, Hagop Dantziguian, ha dichiarato che l’organizzazione «aiuta migliaia di famiglie su tutto il territorio nazionale, ma la cifra aumenta in maniera esponenziale ogni mese». La sua opinione è che «la situazione peggiorerà nei prossimi mesi. L’ombra della carestia minaccia la popolazione». Durante le ultime settimane è cresciuto il numero di suicidi legati all’impossibilità di sopravvivere economicamente. A inizio luglio nella capitale un uomo si è sparato un colpo in testa dopo aver lasciato scritto su un biglietto: «Non sono blasfemo, ma la fame è una forma di blasfemia».

A RISCHIO COLLASSO

Com’è arrivato il paese a questo punto? A inizio marzo, per la prima volta nella sua storia, il Libano è andato in default a causa di un debito insostenibile. Il governo di Hassan Diab ha chiesto l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e, da allora, il Paese continua la sua drammatica caduta nel baratro della crisi.

Secondo l’economista libanese Hassan Moukalled, «per capire la crisi attuale bisogna fare un passo indietro al periodo della guerra civile (1975-1990)».

All’epoca, con l’obiettivo di ricostruire l’economia nazionale, «il Libano ha stabilito un sistema monetario e ha sviluppato un’economia non produttiva», dichiara l’economista ai microfoni di El Salto. La piccola Svizzera del Medio Oriente [soprannome del Libano, ndr] è ormai al primo posto nell’ambito finanziario e in quello dei servizi. Ma la produzione del Paese dei cedri è pressoché inesistente: dovendo importare quasi l’80% di quanto consuma, il suo deficit commerciale si è ampliato a 15 mila milioni di dollari nel 2019. Con gli anni, il debito pubblico è cresciuto fino a raggiungere il 170% e l’inflazione galoppante ha fatto lievitare i prezzi fino a più del 50%.

Per Moukalled, «il Libano si trova ad affrontare un problema strutturale. Non basterà l’aiuto del Fmi per uscire dalla crisi. C’è bisogno di riforme di grande portata». Tuttavia, ad oggi il governo di Diab non ha annunciato nessun programma di cambiamento per uscire da questa situazione. I leader libanesi, continua Moukalled, vogliono soprattutto proteggere i loro privilegi: «I conflitti di interesse tra la classe politica e il settore economico e bancario impediscono qualsiasi tentativo di riforma».

Davanti alla negligenza dello Stato, i servizi essenziali si stanno sgretolando giorno dopo giorno. Nelle case dei libanesi i blackout possono durare fino a dodici ore. Persino i generatori, una soluzione privata che sopperisce alla mancanza di elettricità pubblica, non funzionano più come dovrebbero. Il Libano è letteralmente piombato nell’oscurità. Per strada molti semafori sono spenti. Inoltre, in un Paese che ha basato la propria economia sui beni di importazione, la scarsità di combustibile e risorse alimentari è costante.

L’altra grande vittima della crisi è l’istruzione, che non promette nulla di buono per il futuro del Paese.

All’inizio dell’anno scolastico 2020-2021, molti libanesi non potranno iscrivere i propri figli a scuola: il governo ha già annunciato che, a causa del fallimento e della chiusura delle scuole private, molti bambini dovranno ricorrere al sistema pubblico. Ma, aggiunge, lo Stato non è in grado di garantire l’istruzione pubblica a tutti.

Proteste del 2019 (fonte: commons.wikimedia.org)

Davanti alla depressione economica e sociale, il docente di scienze politiche Zyad Majed taglia corto: «Il Paese è a rischio collasso». Secondo la sua analisi, «il Libano si sta avvicinando a uno scenario simile a quello del Venezuela» con un impoverimento generale della popolazione, la mancanza di risorse di prima necessità e l’uso generalizzato della violenza.

LA SCOMPARSA DELLA CLASSE MEDIA

In Libano, solo pochi privilegiati riescono a evitare la crisi. Oltre alle fasce più povere che vivono sotto pressione, anche la classe media libanese risente di questo clima di incertezze. Questa tendenza è incarnata dal successo del progetto LibanTroc, creato a dicembre 2019. L’iniziativa mette in contatto i libanesi che non hanno la possibilità di acquistare certi beni, ma che possono ottenere scambiandoli attraverso il baratto. Con più di 57.000 membri (su una popolazione di sette milioni), il successo è innegabile. Secondo il fondatore, Hala Dahrouge, LibanTroc si dirige soprattutto alla classe media che si sta impoverendo: «Sono stati colpiti tutti, non solo le persone che erano già molto povere. Chi ha un conto in banca non può neanche prelevare i propri risparmi. LibanTroc si rivolge direttamente alla classe media perché i più poveri non hanno neanche beni da scambiare».

LE SPERANZE FRUSTRATE DELLA RIVOLUZIONE

È venerdì [24 luglio, ndt], giorno della settimana tradizionalmente legato alle mobilitazioni, e centinaia di libanesi si sono riuniti nella centralissima piazza dei Martiri. Rappresentanti della società civile, politici in cerca di rinnovamento, discorsi in cui si invoca la caduta del governo si susseguono davanti a una folla esigua ma determinata di manifestanti. Le bandiere nazionali, rosse e bianche con il piccolo cedro, simbolo del Paese, sventolano nel cielo.

In fondo alla piazza si vede l’installazione montata qualche mese fa dai manifestanti: un pugno alzato accompagnato dalle parole «للوطن» («per la patria») e «ثورة» («rivoluzione»). Tra i manifestanti, Noor, 45 anni, veste i colori del Libano e si mostra ancora motivata, nonostante la situazione economica in cui versa il Paese: «Anche se abbiamo ormai poche speranze, continuo a scendere in piazza ogni settimana. Non dobbiamo abbandonare le proteste.»

Ma con appena un migliaio di persone, la manifestazione di questo venerdì risulta poco partecipata se comparata con le mobilitazioni dello scorso ottobre, che avevano fatto sperare in una seconda primavera araba.

Decine di migliaia di libanesi avevano inondato le strade chiedendo l’abolizione del sistema confessionale, la fine della corruzione e l’introduzione di politiche pubbliche sociali in un paese ultraliberale. Nonostante abbiano poi ottenuto la caduta del governo di Saad Hariri, da allora la stanchezza dei manifestanti ha spento la fiamma rivoluzionaria.

Oltre alla perdita delle speranze generata dalla mancanza di riforme e dalla crisi da coronavirus, nelle strade si è diffusa la paura: «La polizia ha effettuato arresti arbitrari e si sono verificati casi di tortura», dichiara il direttore del Centro Libanese per i Diritti Umani (Cldh), Fadel Fakih. A tutto questo va aggiunta la spirale infernale della crisi economica delle ultime settimane. In questo momento l’unica preoccupazione dei libanesi è quella di trovare un modo per mangiare e pagare l’affitto, non hanno energie per costruire un nuovo progetto politico.

IL LIBANO DURANTE LA STAGNAZIONE

A partire dalla scorsa primavera, il primo ministro Hassan Diab ha intensificato le richieste di aiuti alla comunità internazionale, in particolare al Fmi. Ma i continui appelli dividono il governo, soprattutto a causa della reticenza di Hezbollah, che mantiene un forte potere e vede il Fmi come un’emanazione degli Stati Uniti. Senza dimenticare, poi, che i donatori internazionali tendono a non appoggiare un Paese che non ha promosso nessuna riforma sostanziale e che non è pronto a lottare contro la corruzione endemica.
Torniamo alla zona cristiana di Beirut, con i volontari di Al-Achrafieh. Mario si ferma a piazza Sassine, cuore pulsante del quartiere, dove svetta con orgoglio una maestosa bandiera libanese. Tra l’interminabile viavai delle auto, un uomo minuto siede a terra. Un’immagine molto strana nelle società arabe: l’uomo non ha più una casa. «Ci sono due persone senza fissa dimora nella piazza», spiega Tony, prendendo il vassoio di pasta da portare all’anziano. «Marwan è uno di loro». Dall’auto, Mario osserva la scena: «Quando una famiglia ne ha bisogno, può venire da noi. È il lato positivo della distribuzione limitata a un solo quartiere». Abbassa la testa, deluso: «Ma chi lo sa… forse dovremo estendere il nostro raggio d’azione ad altri quartieri, la crisi peggiora sempre di più»

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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