Le manifestazioni indette dall’opposizione stanno registrando cifre record di partecipazione, mentre l’attuale Presidente sembra sempre più in difficoltà. A sfidarlo Svyatlana Tsikhanouskaya, moglie del blogger estromesso dalla competizione elettorale e incarcerato, e le rappresentanti di altri due ex-candidati vittime della repressione

«In Bielorussia gli eventi hanno sempre una doppia faccia», dice Vika Biran del gruppo di promozione dei diritti Lgbt “Makeout” commentando gli ultimi sviluppi politici nel paese che si prepara alle elezioni presidenziali. Qualche giorno fa, nella capitale Minsk, un comizio indetto dalla candidata d’opposizione Svyatlana Tsikhanouskaya, moglie del blogger-oppositore estromesso dalla competizione elettorale Sergey Tichanovsky, assieme a Veranika Tsepkalo, moglie di Valery Tspekalo (uomo d’affari al quale è stato impedito di candidarsi), e a Maryya Kalesnikava, assistente di Viktar Babariko (ex-dirigente della Belgazprombank e candidato alle elezioni incarcerato), ha radunato oltre 60mila persone, mentre anche nei piccoli centri si moltiplicano manifestazioni picchetti di sostegno. «L’immagine di una candidata femminile che raccoglie l’entusiasmo della folla è un’immagine potente», prosegue Vika Biran. «Eppure, allo stesso tempo, può rappresentare anche una dinamica molto tradizionale: quella di una donna che in fin dei conti segue il percorso del proprio marito, determinata ma che non ha preso per prima l’iniziativa».

Il presidente della Bielorussia Alexander Lukashenko, da 26 anni alla guida della repubblica post-sovietica, sembra essere ai minimi storici di consenso.

Nelle strade, sui palazzi così come nella pubblicistica on-line ha iniziato a diffondersi la scritta “Sasha [diminutivo di “Aleksander”, nda] 3%”, a indicare la percentuale di voti a cui numerosi sondaggi inchioderebbero il capo di stato uscente. Sulla possibilità di una sua rielezione, pesa il ruolo “rivelatorio” che l’epidemia di Covid-19 sta giocando in Bielorussia: se ufficialmente non è stata presa alcuna misura di distanziamento sociale (all’insorgere dell’emergenza, Lukashenko – che, per inciso, è poi risultato positivo alla Covid-19 – dichiarava che si sarebbe affrontato la nuova sindrome influenzale con una combinazione di «vodka, sauna e lavoro»), le iniziative di informazione (sono nati numerosi canali Telegram dedicati) e prevenzione (lockdown volontari da parte della popolazione, gruppi di supporto al personale medico…) spontanee e “dal basso” stanno mettendo sempre più in luce l’inefficienza operativa del regime e la sua scarsa trasparenza. Ma, oltre all’emergenza sanitaria che come in altri luoghi del mondo non fa che catalizzare e amplificare meccanismi già presenti nella società, pesa l’insofferenza verso l’autoritarismo dell’attuale blocco di potere, che poco spazio lascia alla partecipazione politica: dagli anni 2000 in avanti, praticamente in vista di ogni appuntamento elettorale o in occasione dell’introduzione di nuove leggi, si sono verificati proteste, scontri e arresti (tra cui l’incarcerazione di candidati dell’opposizione). Non è un caso, dunque, che lo slogan utilizzato in alcuni picchetti anti-governativi che sono andati moltiplicandosi negli ultimi mesi in vista delle presidenziali sia stato “Кто угодно – только не Лукашенко”, “Chiunque, ma non Lukashenko”, a rendere evidente quanto la priorità più sentita sia innanzitutto quella di un cambio della guardia.

«Ma ciò non vuol dire che, per quanto riguarda i diritti Lgbt o i diritti femminili, ci siano candidati particolarmente sensibili e attivi», puntualizza sempre Vika Biran.

Nonostante l’inedito protagonismo di tre donne nel corso della campagna elettorale venga interpretato da alcuni analisti anche come segno di emancipazione femminile, questo non sembra tradursi direttamente in un cambio radicale di proposte politiche. «Vuoi per questioni strategiche o perché magari prevalgono visioni conservatrici, il tema dei delle minoranze sessuali e dell’uguaglianza di genere è stato accennato solo di striscio durante la campagna elettorale e sempre da una prospettiva molto generica di tutela dei diritti umani. Perciò, anche noi come membri della comunità Lgbt, ci limitiamo ad affermare che siamo favorevoli a un cambio di regime, senza supportare alcun candidato specifico».

D’altronde, i 26 anni di presidenza di Aleksander Lukashenko non sembrano essersi caratterizzati per una grande inclusività da questo punto di vista: leggendo una ricostruzione storica realizzata dalla stessa “Makeout” si osserva come «[in Bielorussia] nell’intero periodo dal 1999 a oggi, è stato autorizzato dalle amministrazioni cittadine un solo evento di promozione dei diritti Lgbt, e non si trattava di un pride. […] Molte azioni e dimostrazioni sono state condotte in maniera informale e in zone “periferiche” delle città, senza durare più di dieci minuti e sviluppandosi in maniera improvvisa e repentina: se si fossero maggiormente protratte nello spazio e nel tempo, si sarebbero puntualmente risolte in brutali detenzioni». Inoltre, proprio a marzo di quest’anno, un’iniziativa di alcuni gruppi religiosi bielorussi ha raccolto circa 52mila firme per l’introduzione di una legge che sanzioni la “propaganda omosessuale” (sullo stampo delle misure legislative presenti nella vicina Russia).

In ogni caso – e forse al di là di quelli che saranno i risultati delle elezioni previste per il 9 agosto – nella parabola politica di Svyatlana Tsikhanouskaya è forte la sensazione di un “riscatto”, anche di genere.

Dopo essersi attivata politicamente in seguito alla detenzione del marito blogger e oppositore Sergey, la candidata attorno a cui si sono “unificate” anche le campagne elettorali condotte da Veranika Tsepkalo e da Maryya Kalesnikava è stata denigrata per il suo “essere donna” dal presidente Lukashenko, che la ha definita “troppo fragile” per guidare la Bielorussia. Al contrario, comizi, incontri e manifestazioni indetti da queste tre figure femminili stanno riscuotendo un successo che denota la “forza” del loro progetto politico, sempre più percepito come un’alternativa credibile all’attuale stato di cose: oltre al meeting di giovedì 30 luglio nel parco della Vittoria in pieno centro a Minsk che ha radunato oltre 60mila persone, anche nei giorni successivi di venerdì e sabato gli eventi per la campagna elettorale di Svyatlana Tsikhanouskaya tenutisi nei centri minori rispettivamente di Molodechno (circa 100mila abitanti) e Hrodna (circa 350mila abitanti) hanno visto la partecipazione di migliaia e migliaia di sostenitori (è stato urlato a gran voce lo slogan «Amiamo! Possiamo! Vinceremo!», accompagnato dalla canzone Mury, “Muri”, del cantautore polacco Jacek Kaczmarski).

Dal canto suo, Lukashenko risponde con la “consueta” repressione:

secondo l’associazione per i diritti umani Viasna96, si trovano attualmente in carcere 27 prigionieri politici, mentre in generale sono stati denunciati da varie associazioni 1140 casi di detenzioni arbitrarie fra il sei maggio e il 20 luglio di quest’anno. Inoltre, nella giornata di mercoledì i servizi segreti bielorussi hanno arrestato 33 foreign fighter russi presenti sul territorio della piccola repubblica nonché lo spin doctor Vitaly Shklyarov, che ha lavorato nel team elettorale di Barack Obama. Un avvenimento prontamente utilizzato per paventare ulteriori restrizioni: le autorità hanno infatti dichiarato che i foreign fighter fanno parte di un più ampio gruppo di 200 miliziani determinato a «destabilizzare la situazione del paese in vista delle elezioni presidenziali» e che dunque verranno adottate misure più stringenti per avvenimenti di natura politica. Lukashenko prova a mostrare i denti ma – si diceva in apertura – «in Bielorussia gli eventi hanno sempre una doppia faccia»: il suo pugno di ferro è anche segno di un’inarrestabile erosione del consenso, del vicolo cieco in cui sembra essere arrivato il suo regime.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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