C’è una parte della sinistra comunista italiana che, un po’ per nostalgia verso l’impero sovietico e un po’ per contrarietà nei confronti dell’Occidente (evitiamo di classificarlo come “capitalista“, visto che lo è per antonomasia), si schiera in difesa di regimi che campano di rendita sulle rovine del socialismo reale e che, al suo pari, sono degni eredi della peggiore torsione autoritaria ed antilibertaria nei confronti dell’originario “assalto al cielo“.

Lukašėnka, detto da noi “Lukashenko“, ha fatto della Bielorussia uno stato dipendente dalla sua persona, fondato su una economia di Stato e su una sovrastruttura politica che coincidono e fanno riferimento esclusivamente a lui e all’oligarchia che lo circonda. Scambiare questo potere autocratico per qualcosa di buono, per una alternativa al capitalismo, è fare l’ennesimo torto allo spirito primigenio del comunismo come movimento di spontanea organizzazione operaia, del mondo del lavoro e di tutti gli sfruttati.

Provando ad osservare imparzialmente il modello bielorusso, stando quindi ai fatti scevri da valutazioni storico-politiche, è innegabile che in questi anni sia venuto progressivamente meno quel minimo benessere economico che permetteva ai lavoratori di porre in secondo piano la questione delle libertà civili, regalamendo al regime di Lukašėnka ancora l’emblema di ultimo bastione del sovietismo persino in quella Comunità di Stati Indipendenti dove il libero scambio capitalistico è un dato ormai consolidato, una certezza della globalizzazione che si è ampliata su tutto il globo.

Se facciamo riferimento a paesi dichiaratamente liberisti e capitalistici, ci troviamo innanzi ad una contraddizione che vede (più o meno) riconosciuti i diritti civili (liberali) in cambio del liberismo (anche quello più sfranto), quindi con una penalizzazione che si riversa completamente sull’economia pubblica, sui beni comuni, sulle elementari tutele e garanzie da classico “stato-sociale“.

Se, invece esaminiamo gli equilibri sociali, politici ed economici in paesi che si richiamano (più o meno) al comunismo e al marxismo, possiamo chiaramente evincere che qui è l’esatto opposto: a fronte di un rapporto a favore della struttura sociale dell’economia, quindi la garanzia di un minimo benessere per tutti i cittadini, la bilancia dello scambio ineguale pende a sfavore dei diritti civili, delle libertà civili.

La coniugabilità tra uguaglianza e giustizia sociale è il grande irrisolto dilemma novecentesco del socialismo e, come è possibile vedere anche dalla crisi bielorussa, si trascina pesantemente oltre il “secolo breve” e entra anche nel nuovo millennio.

Sviatlana Tsikhanouskaya non rappresenta certamente una possibilità di passaggio da uno Stato paternalistico-oligarchico ad un modello di socialismo modernamente applicato e, proprio per questo, diventa molto difficile poter sostenere che la rivolta scoppiata dopo l’esito del voto presidenziale e nei giorni successivi sia completamente eterodiretta da spie, sicofanti del XXI secolo al soldo del capitale occidentale e degli Stati imperialisti avversari della Russia di Putin.

Quelle manifestazioni di piazza sono piene di persone che rabbiosamente si vedono costrette a scegliere il “meno peggio” (pure in Bielorussia…), sapendo che né Lukašėnka né Tsikhanouskaya sono, da un lato persuadibili al cambiamento, alle riforme; dall’altro, nel secondo caso, orientati a correggere le storture autoritarie, repressive e oligarchiche di un regime che conserva in sé le potenzialità per un mantenimento di un sistema sociale che vede il capitale privato subordinato alle esigenze pubbliche e popolari.

In entrambi i casi, la Bielorussia non ha scelta, sembra intrappolata nello schema già visto, dopo il 1989, della sostituzione del socialismo irrealizzato con un capitalismo che allarga la sfera di influenza occidentale e fa buon gioco nella lotta mondiale per l’egemonia economica: i popoli restano, comunque, sempre sullo sfondo.

Come ha prospettato molto bene Alexander Buzgalin, professore all’università Lomanosov di Mosca, direttore del centro di ricerca del marxismo contemporaneo e della rivista “Alternative” in una sua recente intervista a “il manifesto“, tra queste due scelte obbligate – rimanere fedeli al potere paternalistico di Lukašėnka o gettarsi nelle braccia del liberismo sfrenato – la terza opzione, non completamente scartabile ma altamente improbabile nella sua realizzazione, sarebbe la costituzione di una sinistra vera, anticapitalista e antiautoritaria che sia sinistra di popolo, che nasca da una rivolta delle coscienze sociali.

Purtroppo i tanti condizionamenti esterni, che sono poi veri nemici anche di Lukašėnka, i migliori fomentatori del liberismo nel paese, compreso il regime nazionalista e autoritario di Putin, vedrebbero come fumo negli occhi la sollevazione popolare tanto equidistante dai modelli occidentali quanto dalla rigida osservanza di un filo-moscovitismo dai tratti non più sovietici ma comunque dirigisti, imperativamente autoritari.

Il silenzio delle sinistre comuniste italiane in merito è problematico ed esprime una immaturità conclamata almeno nel tentare di dare un giudizio sulle rivolte di massa di queste settimane a Misk come a Brest. Non è possibile far finta di niente, soprattutto sul piano dei rapporti internazionali, in un mondo dove la globalizzazione è anche politica e ha reso fluidissimi e veloci gli scambi anche in tema di analisi di quanto avviene oltre i nostri confini nazionali.

La richiesta di sanzioni contro la Bielorussia potrebbe anche avere un senso se ci trovassimo in una situazione simile a quella ucraina: ma non è così. Minsk non è Kiev: se gli ucraini nel corso della Seconda guerra mondiale si schierarono largamente con il Terzo Reich, costituendo anche milizie mercenarie addirittura a guardia di campi di sterminio come Sobibor, contro l’odiata Russia, tanto zarista prima quanto sovietica poi, i bielorussi invece si batterono contro il nazismo senza esclusione di colpi.

Questa coscienza civile storica, si proietta ancora oggi nella società bielorussa: per questo le manifestazioni di piazza non possono essere semplicisticamente liquidate come un insieme di enorme fraintendimento dei concetti di libertà, democrazia, uguaglianza. Gran parte dei lavoratori cerca oggi una soluzione che non oltrepassi le garanzie da stato-sociale esistenti pienamente ancora fino a poco tempo fa, dopo la crisi economica e quella sanitaria del Covid-19, ma che, anzi, le valorizzi entro un contesto non liberista.

Non è possibile per i comunisti e gli anticapitalisti italiani continuare a tergiversare in merito: chi ha a cuore un neocomunismo libertario deve prendere una posizione e dire senza alcun infingimento che né l’appoggio al regime fintamente socialista di Lukašėnka né il sostegno alla presunta alternativa (fintamente) democratica (poiché liberal-liberista) di Tsikhanouskaya possono essere una soluzione per la crisi sociale del popolo bielorusso.

La rivolta di Minsk, se esistesse una sinistra politica e partitica ispirata da un vero socialismo antiautoritario, libertario e non riformista, potrebbe assumere le sembianze di una evoluzione diversa rispetto agli altri ex Stati – satellite dell’URSS: non una involuzione ad un’altra, dai regimi nominalmente comunisti a regimi gestiti dai nuovi padroni del libero mercato; bensì un esempio di una “terza via“, di un alternativa alle alternative.

La Bielorussia è attraversata, ironia della sorte, dall’”Oleodotto dell’Amicizia” (“Nefteprovod Družba“), il più lungo al mondo (4.000 km), e sul suo territorio insistono anche le infrastrutture dei gasdotti “Nothern light” e “Jamail Europe” (che si innesta nel primo). Da Minsk, inoltre, parte una linea ferroviara che si proietta verso la Cina e che è la rappresentazione migliore dello sguardo economico di Lukašėnka sul mondo: ad Est, non ad Ovest.

Stati Uniti e alleati occidentali hanno dunque tutto l’interesse ad invertire questa tendenza: purtroppo, per chi come noi combatte tanto le dittature politiche quanto quelle economiche, si finisce per soffrire di strabismo se non si fissa lo sguardo direttamente sul suolo bielorusso, senza voltarsi troppo ad Est per tornare ad un passato-presente che fa fatica a finire, ma senza neppure guardare verso l’orizzonte del neomercato capitalistico, del neoliberismo sfrenato.

La Bielorussia, nei suoi quasi trent’anni di vita indipendente da Stato sovrano si è trasformata in un cuneo che può diventare il trampolino di lancio di Mosca sotto molti punti di vista e tanti interessi e, dall’altro, la medesima, identica cosa se si gira la punta del cuneo verso oriente.

E’ un grande dilemma che potrebbe essere sciolto soltanto da una presa del potere da parte popolare, sconfessando i tiranni paternalistici scambiati per grandi leader di un ultimo socialismo che nega sé stesso e i nuovi arrampicatori liberisti. La potenza della piazza fa gola a tutti e, del resto, nessuno potrebbe comunque farne a meno.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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