Uno studio dell’Istat mostra la crescita di episodi di violenza domestica nei mesi della pandemia. Una situazione di crisi a cui centri anti-violenza, collettivi e associazioni hanno saputo far fronte con soluzioni alternative e nuove modalità di azione

I dati confermano l’evidenza empirica: fin dalle prime avvisaglie di pandemia in Italia e con la conseguente decisione di intraprendere il lockdown, reti, associazioni e movimenti femministi avevano denunciato un probabile aumento della violenza di genere. Alcuni rapporti dell’Istat pubblicati a luglio di quest’anno, che si vanno ad aggiungere agli studi già compiuti dall’Associazione nazionale dei centri antiviolenza Dire – Donne in rete contro la violenza, mostrano come sia in effetti avvenuta una crescita delle richieste di aiuto e delle segnalazioni: da marzo a maggio di quest’anno (dunque nel periodo in cui sono state applicate le restrizioni più dure della possibilità di movimento) si è verificato un +119% delle telefonate al numero anti-violenza e stalking 1522 rispetto allo stesso arco di tempo nell’anno precedente.

«Esiste una dimensione “sistemica” dell’oppressione e della violenza di stampo machista», spiega Simona Ammerata della Casa delle donne Lucha y Siesta, casa-rifugio e spazio di autodeterminazione attivo nella capitale che da più di un anno a questa parte è alle prese con minacce di sgombero e di distacco delle utenze. «Come è capitato per diversi fenomeni sociali, anche nel caso delle dinamiche di genere le misure intraprese per il contenimento della Covid-19 non hanno fatto altro che esacerbare conflitti e tensioni pre-esistenti, aumentandone l’intensità e moltiplicandone le conseguenze, del resto l’isolamento è una delle condizioni tipiche della violenza di genere. Il nostro telefono ha preso a squillare in continuazione da quando è iniziato il lockdown».

Non a caso, allora, un aumento della violenza domestica e di genere pare essersi verificato ovunque nel mondo ci si sia dovuti confrontare con l’emergenza pandemica.

È lo stesso rapporto Istat a suggerirlo, facendo notare per esempio che «in Canada, Germania, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, le autorità governative, ma anche le associazioni di volontariato e le organizzazioni della società civile, hanno indicato l’aumento delle segnalazioni di violenza domestica durante la crisi e/o l’aumento della domanda di alloggi di emergenza», così come è stato rilevato pure dalle «helplines di Cipro e di Singapore» e Argentina nonché da «un sondaggio sulla sicurezza delle donne» in Australia.

«Le donne che hanno subito violenza in questa fase si sono viste ridurre di molto le proprie possibilità di trovare protezione o aiuto», racconta sempre Simona di Lucha y Siesta, che al momento accolgono circa 7 donne e bambini. «I centri anti-violenza erano pieni, mentre le altre strutture hanno praticamente cessato di operare: l’intero circuito dell’accoglienza del comune di Roma, ad esempio, ha chiuso del tutto gli accessi. In più, all’inizio non era neanche possibile recarsi presso amici o parenti nonostante nella propria abitazione si subisse violenza. Abbiamo dovuto far pressione al governo affinché si prevedessero dei permessi speciali». Una situazione complicata su più livelli, dunque, che non si è tra l’altro sviluppata in maniera omogenea nei diversi territori: sempre secondo i dati Istat, infatti, se tutte le regioni italiane hanno assistito a un aumento del tasso di incidenza delle telefonate al numero anti-violenza (nel Lazio si passa dal 12 al 25,7%), in alcune aree – principalmente al sud – questo numero è addirittura triplicato.

Il centro Lucha y Siesta

«Sicuramente alcuni territori e alcuni Comuni hanno saputo mettere in campo delle soluzioni alternative con maggior prontezza di altri», prosegue Simona. «In generale, per quanto riguarda le strutture come la nostra, si è trattato soprattutto di costruire nuovi canali di comunicazione e contatto, avendo chiaro che in situazione di isolamento forse le donne non avrebbero potuto usare il telefono per chiamare, dalla chat di Facebook a un indirizzo di posta elettronica specifico, oppure di “pubblicizzare” maggiormente le possibilità di rivolgersi alla nostra struttura, magari attraverso il volantinaggio. Inoltre, si è cercato di rendere più operativa la rete con le altre associazioni e gli altri collettivi».

Restando nella capitale, è il caso – per esempio – delle collaborazioni che si sono sviluppate con e attraverso la cooperativa contro tratta, violenze e discriminazioni BeFree, che si è attivata durante il lockdown per stringere accordi e convenzioni con strutture alberghiere, ostelli e B&B in modo di poter far fronte alla carenza di rifugi e posti letto per le situazioni di violenza di genere.

Anche perché – come fanno ripetutamente notare movimenti femministi e reti anti-violenza – nella più parte dei casi, il soggetto che viene allontanato dalle abitazioni è chi subisce la violenza piuttosto che chi se ne rende colpevole.

Ma, se da una parte la pandemia e il lockdown hanno contribuito a far ulteriormente “esplodere” il fenomeno dell’oppressione machista e di genere, dall’altra proprio l’evidenza della sua “sistemicità” e della sua pervasività stanno forse portando a una consapevolezza più diffusa. «A un certo punto è divenuto chiaro a tutti che, con i decreti per l’emergenza sanitaria, stavamo rinchiudendo le donne in una “prigione”, assieme al loro oppressore», afferma l’avvocata del Centro Antiviolenza di Lucha y Siesta e attivista femminista Tatiana Montella. «Per quello che ho potuto osservare dal punto di vista legale e nelle aule di Tribunale, mi pare che una simile evidenza stia generando maggiore attenzione da parte di giudici, avvocati, etc. Si tratta, principalmente, di un effetto dovuto al lavoro che stanno svolgendo da anni movimenti, associazioni e centri anti-violenza ma che è andato probabilmente accelerandosi per via della pandemia». Sussistono ovviamente ancora sentenze e decisioni che fanno discutere, come quella di martedì 20 settembre a Milano per cui la vita sessuale della persona che ha subito violenza è stata presa in considerazione in quanto attenuante e contro cui ci sono state contestazioni, ma sembrerebbe che, in generale, il rispetto dei diritti e dei percorsi di autodeterminazione delle vittime sia in crescita.

«Detto questo, i problemi strutturali restano», aggiunge l’avvocata Tatiana Montella. «Scontiamo un’assenza di strumenti giuridici e pratici, dovuta a decenni di disinteresse verso la questione dell’oppressione machista. Scoppiata l’emergenza sanitaria con la conseguente crescita di casi di violenza di genere, abbiamo assistito a una società civile e a una rete di associazioni e collettivi che hanno saputo attivarsi e mettere in campo soluzioni alternative. Ma, proprio come per la pandemia di Covid-19, non era avvenuto un adeguato lavoro di prevenzione a monte, cosa che ha generato la crisi. È qui che dobbiamo intervenire per il futuro».

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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