Le tensioni sociali aumenteranno di pari passo con l’inasprirsi delle restrizioni regionali che si andranno a sommare alle norme previste dal DPCM contro il diffondersi del Covid-19 in questa fase autunnale. E’ una conseguenza quasi endemica, persino meccanicistica, dunque impossibile da arginare con semplici, seppure apprezzabili, richiami al buon senso dei cittadini.

Non è tanto la rabbia a parole quella che preoccupa, anche se non vanno sottovalutate le ripercussioni psicologiche che la pandemia riversa soprattutto sulle categorie emotivamente più fragili e sensibili della società, già – peraltro – vessate da una incertezza economica di enorme rilievo. Quello che deve preoccupare sono le manifestazioni spontanee di cittadini che, pure giustamente, protestano ma lo fanno senza essere organizzati, senza trovare una sponda sociale e politica di riferimento.

Ad Arzano in queste ore commercianti e semplici cittadini hanno creato dei piccoli blocchi stradali contro la chiusura totale della loro zona a causa dell’alto numero di contagi: 200 su una popolazione di 33.000 abitanti. Qualche sospetto che vi siano forze di destra che soffiano sul fuoco del disagio economico, sociale e sanitario permettete che venga a chi da sempre si è accorto del profittamento di certe situazioni da parte dei neofascisti e dei cultori dell’anticostituzionalismo dal sapore nemmeno troppo vagamente eversivo, contro la Repubblica, contro la democrazia.

Ma anche volendo per qualche istante escludere che l’esacerbazione degli animi sia spinta dalla foga negazionista e riduzionista nei confronti del virus (politicamente targata “galassia neofascista” e “sovranista“), rimangono sul tavolo tutti i temi sociali che, soprattutto in vista della fine del blocco dei licenziamenti, del mancato recepimento della cassa integrazione e della stretta economica che sarà – pure questa – conseguente con un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (basta ricordarsi di come frutta e verdura nei mesi di marzo, aprile e maggio balzarono alle stelle…).

I sogni di Confindustria, almeno nel brevissimo periodo, si stanno avverando tutti. E a poco serve che la professoressa Fornero dalle colonne del quotidiano della FIAT si profonda in una spiegazione dell’umanità che sta nel cuore degli economisti, non rigidi calcolatori di colonne di numeri ma comprensivi dello stato miserevole in cui possono piombare oltre un milione di lavoratori. Risulta particolarmente poco credibile la manifestazione di vicinanza agli sfruttati e ai più deboli di questa società colpita del coronavirus quando, soltanto otto anni fa la sua riforma del lavoro interveniva sulle norme che regolavano proprio i licenziamenti per motivi economici, riorganizzava dal punto di vista padronale e liberista i tempi del lavoro e le modalità contrattuali sempre più precarie e parcellizzate.

Secondo la CGIL, niente affatto smentita dal partito dei padroni o dal governo, la fine del blocco dei licenziamenti (stabilita per il 31 dicembre 2020) potrebbe aprire scenari così incerti da considerare la cifra del milione di posti di lavoro potenzialmente non più tali dal 1° gennaio 2021 in difetto piuttosto che in eccesso.

Uno smottamento antisociale di questa portata non farà un favore alle imprese perché sarà incontenibile la restrizione della domanda spalmata su un periodo più lungo del 2021 stesso: le previsioni di Confindustria (più ottimistiche di quelle del Fondo Monetario Internazionale) riferiscono di una crescita del Prodotto Interno Lordo pari al 5,9%, dopo il picco negativo del -10,1% dell’attuale finestra semestrale riferibile ancora al periodo pre-estivo.

Se a ciò si aggiunge la proroga di una cassa integrazione che in molti casi non è arrivata alle aziende e, pertanto, non è nelle tasche dei lavoratori, è più che lapalissiano il terremoto sociale che ne deriverà e tutta l’instabilità che si propagherà ai livelli istituzionali, investendo ogni settore di gestione della cosa pubblica.

La preoccupazione per lo stato sociale deve essere necessariamente anche preoccupazione per lo stato della democrazia in ogni angolo d’Italia. Non si tratta, naturalmente, di fenomeni isolabili e contestualizzati soltanto nei confini della nostra Penisola. Ogni paese europeo sta attraversando una crisi epocale e le tensioni sono all’ordine del giorno. Tuttavia, la comunanza degli effetti prodotti dalla crisi sanitaria non deve essere un alibi per ricercare consolazione nel “mal comune, mezzo gaudio“. Qui di godimento non vi è proprio la benché minima traccia.

Le fila di sacchi della spazzatura messi di traverso nelle strade di Arzano che portano a Napoli sono la linea nera di un disagio che oggi investe il settore del commercio, le attività produttive necessarie al sostentamento di ognuno di noi nel nostro quotidiano; domani saranno la metafora anticipatoria di una linea rossa tra la disperazione di milioni di italiani cui una risposta politico-economica va data.

La propone anche Massimo Cacciari in questi giorni: la patrimoniale. Perché deve rimanere relegata nel deserto dei miraggi, nella brughiera insidiosa dei dubbi di chi si domanda se sconvolga assetti di classe secolarmente dati come tali e ritenuti non modificabili fino a quello che viene considerato un intervento eccessivo? Che le diverse classi di questa società contribuiscano in modo proporzionale ed equo all’enormità dell’emergenza sanitaria dovrebbe essere un principio prima di tutto di buon senso e di “interesse nazionale” (quantomeno).

Ma può il buon senso, che fa parte del buon senso comune, dunque è una forma di ricchezza morale a tinte sociali, interessare ai calcoli umani di certi economisti che hanno distrutto le speranze di almeno una generazione di italiani; può interessare alla naturale aspirazione padronale, perfettamente aderente alla logica merceologica del liberismo, di aumentare massivamente i profitti a qualunque costo, a qualunque sacrificio da imporre ai lavoratori e alle lavoratrici?

Non può, ed infatti è la patrimoniale in Italia o la Tassa Covid in Europa non sono affatto all’ordine del giorno. Mentre il virus avanza, mentre la soglia della frustrazione e della disperazione si alza inesorabilmente.

Purtroppo, a meno che il sindacato non riesca a coinvolgere unitariamente i lavoratori di ogni settore e di ogni categoria in una lotta a tutto campo, la disperazione rischia di non trasformarsi in coscienza di classe e di essere invece utilizzata dai peggiori demagoghi sovranisti per scopi tutt’altro che di interesse sociale e comune. A quel punto l’interesse nazionale, tanto evocato dai padroni, coinciderà solamente con l’interesse di una classe sociale: quella dominante, quella proprietaria delle industrie e di tutti i mezzi di produzione.

L’apertura di una fase

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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