La strategia Netanyahu-Trump costituisce una reale minaccia esistenziale per la Palestina. Si tratta di un tentativo di depoliticizzare la questione palestinese e inquadrarla come un problema umanitario ed economico che può essere risolto con i finanziamenti arabi e la benedizione americana

di Ilan Pappe

“L’accordo del secolo” di Donald Trump e la strategia sul campo di Benjamin Netanyahu costituiscono un reale pericolo esistenziale per la Palestina e il popolo palestinese. È un assalto combinato contro la Palestina e il suo popolo che potenzialmente può essere distruttivo quanto la Nakba del 1948. È un tentativo di depoliticizzare la questione palestinese e rinquadrarla come un problema umanitario ed economico che può essere risolto con i finanziamenti arabi e la benedizione americana.

Al fine di comprendere l’ordine di grandezza di questo pericolo e la sua intensità occorre esaminarlo in due contesti più ampi. Il primo è di natura storica e l’altro più normativa, guardando all’immediato futuro.

“L’accordo del secolo” è l’affermazione americana del Sionismo come movimento colonialistico legittimo che ancora oggi, nel XXI secolo, è motivato da una logica che è stata appropriatamente definita da Patrick Wolfe come «l’eliminazione dei nativi».

Storicamente l’accordo è il culmine delle precedenti politiche americane e israeliane sulla questione palestinese. Da quando il cosiddetto processo di pace è iniziato come Pax Americana, alla fine degli Anni 60 del secolo scorso, gli USA non sono riusciti a essere dei mediatori onesti.

Sulla carta, le amministrazioni successive e i loro inviati si sono impegnati a seguire le linee guida basate sul diritto internazionale e quindi hanno riconosciuto l’illegittimità delle colonie israeliane e dei tentativi di annessione e hanno persino condannato pubblicamente la violazione strutturale dei diritti umani nei Territori Occupati. In pratica, queste riserve non si sono mai tradotte in politica reale o in pressioni su Israele affinché cambiasse il suo comportamento criminale sul campo.

Il risultato finale di questo approccio – che può essere definito come il “parlare tanto per parlare”, ma di certo non “più fatti e meno parole” – è stata l’adesione pubblica alla rilevanza del diritto internazionale come guida morale per la politica americana verso la Palestina occupata, fornendo allo stesso tempo l’immunità, principalmente attraverso l’inazione, alla crescente colonizzazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (quest’ultima sino al suo sfratto nel 2006). Fino alla fine del secolo scorso, i partiti politici dominanti in Israele hanno adottato un approccio simile e hanno coordinato abbastanza strettamente le loro politiche con Washington.

Dall’inizio di questo secolo, e in particolare nell’era Netanyahu (iniziata quando è stato eletto per la seconda volta nel 2009), il divario tra il dire e il fare sia negli Usa sia in Israele è pressoché scomparso. Le azioni sul campo sono state ora pienamente approvate pubblicamente sia dall’amministrazione americana che dal governo israeliano.

“L’accordo del secolo” riassume le precedenti politiche americane e le ri-confeziona con una benedizione ufficiale alle azioni unilaterali di Israele nella Palestina storica.

Queste azioni americane nell’ultimo decennio includono il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele e il trasferimento dell’Ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme Ovest. A questo è seguito il riconoscimento ufficiale dell’annessione israeliana delle alture del Golan e il riconoscimento pubblico della legittimità legale delle colonie ebraiche in Cisgiordania. “L’accordo del secolo” fornisce l’immunità americana alle future politiche di Israele nella Palestina storica che sono volte a disegnare la mappa politica finale del Paese attraverso la coercizione e la creazione sul campo di fatti irreversibili.

Benjamin Netanyahu

La natura di questa soluzione futura è abbastanza chiara. Le sue caratteristiche principali sono già state rivelate da una legislazione israeliana aggressiva e razzista nella Knesset iniziata nel 2010. La legislazione discrimina il popolo palestinese presente su entrambi i lati della Linea Verde in ogni aspetto della vita, si tratti di opportunità occupazionali, residenza o fondamentali diritti civili. Questo in aggiunta all’espropriazione di terre già esistente, alle punizioni collettive e alle gravi restrizioni di movimento e di qualsiasi normale attività umana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

L’orgia legislativa è culminata nell’adozione della legge della nazionalità israeliana nell’estate del 2018. Questa legge di apartheid afferma chiaramente che solo gli ebrei possono essere riconosciuti come un gruppo nazionale con il diritto all’autodeterminazione all’interno di Israele; tuttavia, cosa sia “Israele” è definito in un’altra clausola che incoraggia i futuri governi a continuare la colonizzazione ebraica nella Terra di Israele (ossia Israele e la Cisgiordania). I confini finali non sono menzionati nella legge, poiché ci si aspetta che il futuro Grande Israele si estenda anche su delle parti della Cisgiordania e in tutte questi parti Israele di certo non consentirebbe al nazionalismo palestinese di esprimersi in alcun modo.

Questa legge ha fatto retrocedere i cittadini e le cittadine palestinesi all’interno di Israele (e potenzialmente chiunque si aggiunga a questa comunità mediante l’annessione di parti della Cisgiordania e della Grande Gerusalemme) a gruppo con caratteristiche linguistiche e non a una comunità nazionale, più precisamente come recita la legge «persone parlanti arabo» con la promessa che la loro lingua godrà di uno «status speciale» nello Stato di Israele.

Questa legge è una legge fondamentale e, poiché Israele non ha una costituzione, ha uno status costituzionale. Come tale, essa legittima a posteriori le politiche di fatto dell’apartheid e della colonizzazione e, al tempo stesso, prefigura il futuro Israele come Stato ufficiale dell’apartheid. Ampi settori della società civile internazionale hanno messo in evidenza queste azioni e le hanno condannate. Negli ultimi anni, tre distinti processi hanno eroso l’immagine internazionale di Israele. La comparsa del movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), lo spostamento verso l’estrema destra del sistema politico israeliano e l’ascesa di una nuova generazione di politici e società civile pro Palestina in Occidente.

Ufficialmente Israele ha reagito a questo cambiamento dell’opinione pubblica prendendo di mira, già nel 2016, la memoria e la narrazione collettiva palestinese. La leadership politica e strategica ritiene la memoria storica e la storiografia strumenti che possono essere caricati contro l’ulteriore erosione di una già deteriorata immagine pubblica internazionale di Israele. Questa azione è un ulteriore tentativo di gestire questo mutevole panorama mediante la depoliticizzazione della questione palestinese, proprio come ha fatto l’attuale amministrazione statunitense con il suo “accordo del secolo”.

L’assalto alla narrazione è stato reso esecutivo con la chiusura degli archivi israeliani che conservano i documenti della Nakba. Come divulgato da “Haaretz” nel 2019, la restrizione israeliana all’accesso del materiale d’archivio è parte di un’operazione ufficiale guidata da Malmab (l’acronimo in ebraico del Direttore per la sicurezza dell’esercizio della difesa), il dipartimento della sicurezza riservata del Ministero della Difesa israeliano.

Si tratta di un’unità clandestina le cui attività, attivisti e budget sono classificati e la cui esistenza è stata per la prima volta rivelata dallo storico israeliano Avner Cohen nel tentativo di far luce sulla politica nucleare di Israele.

Nel corso dell’indagine, “Haaretz” ha scoperto che Yehiel Horev, che ha diretto Malmab per due decenni sino al 2007, aveva iniziato a lavorare alla rimozione di documenti dagli archivi quando era al comando del dipartimento riservato, una pratica continuata sino a oggi dai suoi successori. Parlando al quotidiano, Horev ha sostenuto che la chiusura degli archivi è stata giustificata con la motivazione che la scoperta di documenti della Nakba avrebbe, con le parole del giornale, «generato disordini tra la popolazione araba del Paese».

L’argomento è ridicolo per due motivi. In primo luogo, la minoranza palestinese di Israele, che i funzionari israeliani chiamano «gli Arabi israeliani», è stata, sin dalla metà degli anni ‘80 del secolo scorso, tra i gruppi più attivi e consapevoli nell’impegno – e protezione – della memoria della Nakba. L’Associazione per la difesa dei diritti degli sfollati interni (Adrid), che rappresenta i rifugiati palestinesi all’interno di Israele, insieme con gli studiosi e gli attivisti e le attiviste palestinesi locali, sostiene l’interesse pubblico per la narrazione dei fatti del 1948 da parte del popolo palestinese.

Non avevano bisogno della documentazione israeliana per confermare la loro propria esperienza di pulizia etnica. Secondariamente, come fatto notare “Haaretz”, molti dei documenti ora in fase di riclassificazione sono stati già pubblicati, segnatamente dagli storici israeliani critici. Horev confidava che l’impossibilità di questi storici di ricontrollare la loro documentazione avrebbe «minato la credibilità di questi studi [critici] sulla storia del problema dei rifugiati».

Nakba

Come notato all’inizio di questo articolo, i movimenti colonialisti quali il Sionismo sono informati da quello che Patrick Wolfe ha definito «l’eliminazione dei Nativi». Implicita nell’esistenza di Israele quale stato coloniale è la previsione che esso voglia nascondere le prove delle sue azioni di eliminazione, in special modo in un’epoca che guarda con sfavore al colonialismo e nel contesto di un paese che pretende di essere “l’unica democrazia nel Medio Oriente” e uno “Stato ebraico e democratico”.

La pulizia etnica della Palestina nel 1948 e il tentativo di cancellarne la memoria sono parte integrante della stessa azione di eliminazione. Come Wolfe ha indicato, il colonialismo non è un evento ma una struttura e quindi i tentativi di eliminazione c’erano già stati prima del 1948 e sono proseguiti da allora sino a oggi. In termini più concreti, la visione di una Palestina de-arabizzata ha alimentato le note vicende di violenza della storia moderna del Paese: la pulizia etnica del 1948; l’imposizione del controllo militare su vari gruppi di popolazione palestinese negli ultimi 70 anni; l’aggressione all’Olp in Libano nel 1982; le operazioni in Cisgiordania nel 2002; l’assedio di Gaza; i progetti di giudeizzazione ovunque all’interno della Palestina storica, solo per citarne alcuni di una lista piuttosto lunga.

Ora possiamo aggiungere a questa lista il nuovo progetto dell’”accordo del secolo” e la programmata annessione di parte o dell’intera Area C (circa il 60% della Cisgiordania). È l’insieme di un tentativo di inquadrare i membri del popolo palestinese come persone senza diritti politici collettivi e allo stesso tempo di espandere la giudeizzazione della Cisgiordania. Chiudere gli archivi mediante la rimozione di materiale declassificato fa parte della stessa strategia di “chiudere” del tutto la questione palestinese.

A una Palestina depoliticizzata non è permesso sottoscrivere una narrazione storica che può alimentare le richieste politiche di uno Stato, di autodeterminazione o del diritto al ritorno, che l’amministrazione Trump ha già sviluppato chiudendo la missione dell’Olp a Washington, trasferendo l’ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme, sospendendo i fondi americani all’Unrwa e presentando come legali le colonie israeliane nei Territori Palestinesi Occupati.

Come molte volte nel passato, l’interpretazione israeliana del cosiddetto “accordo” è importante tanto quanto l’accordo stesso. Agli occhi del governo israeliano quell’”accordo” ha legittimato in anticipo la futura annessione dell’Area C a Israele. A luglio di quest’anno Netanyahu ha dichiarato che avrebbe reso effettiva quella parte dell’accordo durante l’estate.

Quest’interpretazione ignora l’adesione di facciata pagata nell’”accordo” che dichiara le restanti aree della Cisgiordania con la Striscia di Gaza quali un futuro Stato palestinese. I governi di Netanyahu, o del Likud, in futuro non accetteranno la parte dell’”accordo” che si riferisce allo Stato palestinese, mentre i loro principali rivali, il partito Blu e Bianco o qualsiasi altra coalizione anti-Netanyahu, potrebbero fare propria questa adesione di facciata e sostenere l’idea di un mini-stato, come un problema di forma e non di sostanza.

Non è chiaro se sino alle prossime elezioni americane l’amministrazione Trump consentirà una piena annessione dell’Area C o di parte di essa. Questa parte del piano è stata recentemente bloccata con i due accordi di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, firmati in cambio della promessa israeliana di posticipare l’annessione. Tuttavia, le aree destinate da Netanyahu all’immediata annessione ufficiale quest’estate sono state già ripulite etnicamente dagli Israeliani.

Queste includono la Valle del Giordano, l’area intorno alla colonia Givat Hamatos (“Collina degli aerei” in ebraico), a sud di Gerusalemme, che si insinua come un cuneo in Cisgiordania che disconnette la sua parte meridionale da Gerusalemme e il blocco coloniale all’interno dell’area E-1, a est di Gerusalemme e taglia fisicamente e irreversibilmente la Cisgiordania in due entità geopolitiche separate. Così, quando l’annessione ufficiale sarà dichiarata, essa sarà un atto simbolico, piuttosto che trasformativo.

Sezionare la terra, intagliarla in piccoli “bantustan”, e attaccare la narrazione e l’identità collettiva sono parti integranti dello stesso furto del secolo escogitato da Washington e Tel Aviv.

Foto di Yonatan Sindel / Flash90

Due nuovi sviluppi, che in apparenza possono sembrare potenzialmente in grado di cambiare il corso della storia, potrebbero rivelarsi alla fine insignificanti per il ginepraio che riguarda il popolo palestinese. Il primo è il crescente malcontento sociale e le manifestazioni in Israele contro il Primo Ministro Netanyahu, che attraggono settimanalmente dai 10.000 ai 20.000 dimostranti vicino alla sua residenza ufficiale, e il secondo è la possibilità di un’amministrazione democratica a Washington dopo le prossime elezioni presidenziali a novembre 2020.

Le manifestazioni sono un grido di protesta dell’area sionista di centrosinistra che in qualche modo non può rassegnarsi al fatto che l’elettorato ebraico da anni preferisce la coalizione di destra. La personalità particolarmente corrotta di Benjamin Netanyahu, da un lato, e il suo costante tentativo di sottrarsi alla giustizia, dall’altro, sono al primo punto all’ordine del giorno dei manifestanti.

A loro si è aggiunta la classe media che non è stata adeguatamente compensata dalle chiusure imposte durante la crisi da Covid-19. Insieme sperano di far crollare Netanyahu con il sistema legale o con le elezioni. È degno di nota che la maggior parte dei manifestanti non avverta alcun problema rispetto al Sionismo o all’oppressione del popolo palestinese. Anche se i manifestanti avessero un certo impatto sul sistema politico israeliano, questo avrebbe ben poca rilevanza per la situazione del popolo palestinese.

Un’amministrazione democratica negli Stati Uniti invertirà questa attitudine e questa politica? È difficile dirlo, poiché le precedenti amministrazioni, pur non adottando lo stesso discorso trumpiano, hanno fatto molto poco per opporsi all’unilateralismo israeliano sul campo. Se questa continuerà a essere la politica americana, le attuali politiche americane costituiranno un pericoloso sviluppo che interesserà l’intera regione. L’accordo trasmette un chiaro disprezzo per il diritto internazionale e la giustizia universale di base.

Questo disprezzo per il diritto internazionale, da un lato, e l’esclusione di Israele da un dibattito sui diritti civili e umani nella regione, dall’altro, impedirà agli Stati Uniti e all’Occidente di svolgere un ruolo utile nell’affrontare seriamente la tetra realtà di questi diritti nella regione.

È importante ricordare che il passato colonialismo e l’imperialismo occidentale, così come il sostegno occidentale al dominio autocratico, hanno contribuito tanto ai locali regimi quanto ai gruppi di opposizione che oggi abusano dei diritti del loro stesso popolo.

Sembra che la società civile globale, malgrado i risultati ottenuti in passato e l’impegno per la giustizia in Palestina, debba lavorare ancora più duramente, in solidarietà con un movimento nazionale palestinese che disperatamente cerca, finora senza successo, l’unità, per sventare il prossimo sforzo americano-israeliano di distruggere la Palestina e il popolo palestinese.

Immagine di copertina di Konevi BDS Movement. Immgini nell’articolo: 1) e 2) commons.wikimedia.org; 3) Immagine di Yonatan Sindel / Flash90.

Articolo pubblicato originariamente sul sito InsideArabia

Traduzione dall’inglese di Elisabetta Valento per DINAMOpress

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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