L’epidemia da Coronavirus sembra aver fatto affiorare crisi di ogni tipo; si è parlato di crisi di identità, sanitaria, finanziaria, alimentare, istituzionale, migratoria … chi addirittura in punta di piedi ha accennato a una crisi della globalizzazione.

Difficile determinare in che misura, anzi, a dire la verità sarebbe un esercizio fine a sé stesso; eppure quel che sembra certo è che l’emergenza sanitaria abbia solo acuito problematiche che sono state sempre lì pressoché ignorate dalle agende politiche nazionali e più in generale dal senso comune delle persone.

E se ne aggiungessimo un’altra? CRISI AMBIENTALE. Il quadro è apocalittico certo, ma non surreale ed è retaggio di anni di un’incuranza collettiva disarmante.

Sì, perché se c’è qualcosa che erroneamente e volentieri viene tralasciato, abili quali siamo come scaricatori di responsabilità, è che a fare politica siamo tutti noi e non si può demandarne le colpe a pochi soggetti appartenenti ad un certo ceto dirigente.

Ad ogni modo, tra i protagonisti di accesi dibattiti nei vari approcci finalizzati a gestire la contingenza, ci sono quelli che definirei due grandi esperimenti sociali, almeno per il nostro Paese: smart working (“telelavoro” per i detrattori degli anglicismi) e didattica a distanza. Questi due (non più troppo sconosciuti) ci stanno seriamente mettendo alla prova, perché ad essere endemica non c’è solo la pandemia ma anche la capacità di adattarci alle situazioni più impreviste che, bisogna dirlo, ci appartiene.

Certo, ce la stiamo cavando zelantemente arrancando tra un “mi senti?” e qualche discorso spezzettato che dà spazio alla nostra più recondita immaginazione.

Nessun mistero se pensiamo che le ore di informatica nelle nostre scuole primarie equivalgono più o meno a quelle settimanali destinate alla ricreazione.

In fin dei conti, quale miglior significante se non quello di “alienazione” per racchiudere questo stato di smarrimento ed estraniazione a cui siamo stati sottoposti. C’è qualcuno che di straniamento dell’Essere in relazione al lavoro se ne è occupato molto prima di noi. Sto parlando senza sorprese di Karl Marx.

E pensare che è vissuto solo all’inizio di quell’enorme processo che ha dato vita al capitalismo (almeno come lo intendiamo nel senso odierno). Chissà cosa penserebbe oggi il nostro filosofo a vederci consumare le nostre vite dal lavoro, ingobbiti sulla scrivania della nostra camera, dietro uno schermo, senza proferire parola alcuna né guardare negli occhi il nostro interlocutore.

Nell’articolazione del suo pensiero chiaramente, il lavoro non era da intendersi come “disgrazia da evitare come la peste”; al contrario, poteva vantare un aspetto edificante se inteso come momento dialettico dell’oggettivazione e cioè come gratificazione ricavata dal prodotto del nostro impegno/tempo dedicato all’attività svolta.

Il momento negativo del processo invece, quello alienante è l’oggettificarsi del lavoratore che diventa cosa, appunto.

Ormai alle soglie del 2021 è inutile dire quanto questo rappresenti il quadro più fedele a quello odierno ma se a tutto ciò aggiungiamo ore extra non pagate perché svolte da casa e il diritto alla non reperibilità h24 completamente calpestato e ignorato da tutti, la situazione si complica e non poco.

E se invece non esistesse un’alternativa non alienante nel rapporto tra uomo e tecnica? Potremmo mai negare i vantaggi di quest’ultima? No. E infatti, bisognerebbe aggiungere al discorso, che c’è un unico grande sistema (di cui si avverte in lontananza lo scricchiolìo) che permette il disorientamento dell’Essere: il capitalismo.

Quindi, il problema sembrerebbe non essere la tecnologia ma un meccanismo che se ne serve a detrimento dell’intera specie vivente seguendo la dottrina del dio denaro, della produzione intensiva e dei profitti (bastassero almeno ad acquistare un altro pianeta tutto inizierebbe ad avere più senso).

In pillole, l’enorme eredità di cui il pensiero di Marx ci ha omaggiato è il fatto che senza la sua filosofia materialistica oggi probabilmente non avremmo i mezzi per interrogarci su quanto diventare ingranaggi di una grande macchina, rinunciando alla nostra essenza non sia auspicabile da nessuno. Né tantomeno realizzare il primato della produzione di beni sulla libera espressione dell’animo umano. Questo sembrerebbe essere insindacabile.

E tutto ciò a cosa ha portato? Alla mancanza di influenza decisionale e quindi alla non libertà dell’individuo, alla privazione di un suo diritto inalienabile.

Ma la funzione rivestita dal lavoratore nel processo produttivo viene meno quasi definitivamente se volgiamo la nostra attenzione a un andamento preoccupante che si sta manifestando nelle nostre società, cioè quello dell’automazione. Le macchine ci sostituiscono nelle mansioni da svolgere, dunque (povero Marx) non si salva nemmeno più l’accezione positiva di lavoro secondo cui l’individuo prende coscienza di sé anzi entra in un vero e proprio vicolo cieco. Ma qui l’analisi va oltre il problema esistenziale o psicologico legato a quanto l’uomo a quel punto possa percepire tutta la sua inutilità nel mondo.

Nel concreto, innovazione dopo innovazione, con un piede sull’acceleratore del progresso tecnologico si corre verso lo schianto finale. Ciò che risulta lampante infatti, è la totale assenza di un piano B, di ricollocazione dell’attività umana, di quei mestieri che cesseranno di esistere e soprattutto, come sopperire alla perdita di milioni di posti di lavoro?

Certe analisi corrono spesso il rischio di essere dileggiate, percepite come inconsistenti, anacronistiche. Certo è che sarebbe pretenzioso anche solo pensare di fermare un sistema che ormai ci avvolge in tutto quello che facciamo anzi, in tutto quello che siamo. (E se non c’è riuscita una pandemia globale..!)

C’è una cosa però che rimane un’arma (debole ma pur sempre un’arma) che può diventare rivoluzionaria se condivisa ed è la presa di coscienza. Nessun apparecchio tecnologico, nemmeno il più avanzato potrà mai privarcene. Né esiste modo di produzione capace di annientarla completamente ed è l’unica che è ancora in tempo per poter fare la differenza, forse.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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