Si può parlare di “pericolosità” della crisi di governo? Sì, se la si fa uscire dalle mura dei palazzi dove si tengono i colloqui di Roberto Fico, se la si osserva contestualmente e pienamente inserita nelle giornate di ritorno di gran parte delle regioni nella “zona gialla“: le folle di persone che si riversano nelle strade, che si muovono come se il virus fosse una caratteristica esclusiva delle altre due colorazioni dei territori, evidenziano la spossatezza di una popolazione che risente di tutta la sommatoria di disagi che la pandemia ci ha fatto vivere da un anno a questa parte.

In questo senso, l’attivazione renziana di un percorso di instabilità istituzionale, sebbene possa anche essere stato supportato e sorretto dalle migliori intenzioni (e ci permettiamo di dubitarne, criticamente si intende), è l’inopportunità elevata all’ennesima potenza che, inevitabilmente, rischia di aprire un solco ancora più ampio tra esigenze e dinamiche sociali rispetto alla tanto declamata “fiducia nelle istituzioni“.

La ormai cosiddetta “incomprensibilità della crisi” avrebbe potuto avere relativa considerazione, un po’ da parte di tutti, visto che la natura della medesima si è dimostrata sufficientemente chiara fin da prima che Italia Viva entrasse in contrasto col resto della maggioranza di governo: le motivazioni di carattere economico, tradotte in considerazioni politiche sulla destinazione delle centinaia di miliardi di euro del Recovery Fund, non avrebbero potuto essere l’unico motivo per sfasciare un esecutivo che ha gestito il primo tempo della fase pandemica con una reazione tanto dura e decisa quanto apprezzata successivamente dai cittadini per i risultati ottenuti nel contenimento del virus.

Un governo, quindi, che nella storia più recente della Repubblica ha visto crescere il consenso e l’approvazione anche in quella parte di popolazione che guardava decisamente a destra o che aveva smesso di credere che con la politica di palazzo si potesse davvero risolvere anche qualche benché minimo problema di natura sociale, non soltanto i drammi degli imprenditori con uno zero virgola in meno di profitto all’anno.

Un governo che ha abilmente usufruito dell’emergenza sanitaria per rimandare gli interventi riformatori su tutte le altre contraddizioni economiche presenti nel Paese e che, solo davanti alla marea di quattrini che arriveranno dall’Europa, è entrato in crisi. Purtroppo non per una spinta sociale, per una protesta sindacale, per una qualche forma di sciopero generale mai proclamato nonostante le minacce di Confindustria sulle proroghe del divieto di licenziamento, ma per il contenzioso tutto politico in merito al piano di distribuzione dei miliardi di euro per arginare le ferite procurate dal Covid all’economia privata e a settori pubblici dirimenti per la tenuta sociale dell’Italia intera.

La proposta di una “tassa-Covid” europea è ancora tutta in alto mare, così come non passa nemmeno per l’anticamera di Palazzo Chigi l’idea che una progressività fiscale espressa con una patrimoniale (anche una tantum), avrebbe evitato ad esempio il dibattito estenuante sul più conosciuto degli acronimi internazionali: MES. Se, da un lato, il ricorso a questi fondi (e alle clausole di restituzione del prestito, un vero e proprio cappio al collo per le nazioni che lo richiedono) mette in crisi il rapporto fra Cinquestelle e resto della maggioranza, la patrimoniale agisce da catalizzatore: tutti, anche quelli che si prentenderebbe fossero eredi di una qualche certa sinistra (fatta eccezione per Liberi e Uguali), sono compatti nell’affermare che l’emergenza sanitaria e sociale va affrontata senza prendere ai ricchi per dare agli indigenti, ma pagando un po’ tutti allo stesso modo.

Come se povertà e ricchezza esistessero solo sulle tabelle di dati dell’ISTAT o nelle relazioni annuali della Caritas e, men che meno, nei rapporti dell’OCSE. Al di fuori di quelle pagine, il liberismo di governo non è messo in discussione, nemmeno davanti alla perdita di oltre 444.000 posti di lavoro, nel corso degli ultimi dodici mesi: un numero enorme, che sale oggi alla ribalta delle cronache come dato eclatante di una penalizzazione antisociale che si riversa sulle donne, sui precari e sui lavoratori a chiamata.

Il blocco dei licenziamenti non riguarda le categorie più vessate nel disarmonico e atomizzato mondo del lavoro tanto pre quanto intra-pandemico. I numeri esorbitanti della crescita di disoccupati e inoccupati (questi ultimi sono 50.000 in più rispetto al 2019), tuttavia, lo riconoscono anche gli analisti de “Il Sole 24 Ore” e altri commentatori non certo riferibili ad aree del sindacato o della sinistra, sono in parte attribuibili all’effetto disastroso sull’economia dovuto alla tavolozza di colori delle restrizioni dovute al Covid.

La somma di tanti anni di crisi, di rapporti sempre meno competitivi tra l’imprenditoria italiana e quella dei paesi europei, oltre che lungo la nuova “via della Seta“, e di politiche di compressione dei salari e delle pensioni, hanno oggi come risultato la fibrillazione sociale che può nascere in un momento di esasperazione, di insostenibilità della non-vita che milioni e milioni di cittadini sentono crescersi intorno e da cui non possono sfuggire.

Se oggi, in media, si perdono 50 posti di lavoro ogni ora, e se di questi ben 40 sono di donne, precari e comunque lavoratori senza un posto fisso, è del tutto evidente che ci troviamo innanzi ad un pericoloso aumento delle diseguaglianze sociali, di genere e di età che stanno a monte delle cause complessive per cui oggi contiamo uno stillicidio di espulsioni dal mondo dell’occupazione.

Non sono soltanto le somme algebriche che vanno considerate quando si parla di incremento dei livelli disoccupazioni e di instabilità sociale: bisognerebbe prendere in esame una ben più articolata disamina del corpo sociale, di un intero Paese che vive anche di quel “lavoro sommerso” che rende invisibili persino i numeri che andrebbero ad appesantire ulteriormente uno scenario di per sé molto problematico: ai 444.000 posti di lavoro persi andrebbero aggiunti almeno un milione di persone tra cassintegrati, disoccupati “potenziali” e inattivi. Lo sostengono gli studi già citati dell’ISTAT, ma non sembra che al momento la politica di palazzo intenda occuparsene.

Il cronoprogramma della crisi di governo prevede almeno ancora due giorni di tavoli di trattative che vengono spacciati anche come luoghi dove si discute delle sorti del Paese e dove, in realtà, si tratta sulle caselle ministeriali, sulle sostituzioni negli enti governativi e su riequilibri tra le forze politiche che alla stragrande maggioranza della gente paiono solamente, alla fine, quello che realmente sono: lotte di potere per aggiudicarsi la rappresentanza in seno alle istituzioni del prossimo ridisegno della ristrutturazione economica post-pandemica.

Mentre la povertà rischia di generare una insicurezza sociale incontrollabile, ma abilmente eterodiretta da sovranisti, destre populiste, complottisti, no vax e condottieri dell’ultimo minuto, un po’ come è accaduto e accade in Olanda, la risposta del governo è oggi afona, priva di qualunque sostanzialità. Non essendovi un governo nel pieno delle sue funzioni, è ovvio che sia così.

Ma anche esistesse già il Conte ter, è davvero pensabile che metterebbe mano alla crisi economica mettendo mano a riforme sociali propriamente dette, reali, concrete, evitando qualunque ricorso a semplicistici slogan? La domanda rimane come un caffè al bar: sospesa. La raccolga chi può, chi ne ha bisogno…

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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