Per un attimo facciamo un esercizio zen, anche se non è per niente semplice essere passivi, calmi e riflessivi nel turbine di opinioni e di ipotesi che si stanno facendo sulla possibile formazione del nuovo governo a guida Draghi e sulla maggioranza che lo potrebbe sostenere in Parlamento.

Ma tant’è, proviamoci. Astraendoci solamente dalla baraonda di supposizioni e dietrologie ormai congenite a qualunque trasmissione televisiva, ben guardando i fatti, la politica italiana entra in una fase nuova non tanto con la crisi del Conte bis, quanto con il discorso del Presidente della Repubblica.

Mattarella ha circostanziato molto attentamente la situazione complicata dall’emergenza sanitaria, che tutto sovraespone e sovradimensiona, rendendo urgente ciò che prima era conseguente nel suo svolgersi sociale o istituzionale, creando una stagione dell’immediatezza che non può prescindere da una efficienza amministrativa che, allo stato dell’arte attuale, manca e anche di molto nella complessa macchina dei rapporti istituzionali tra i diversi livelli di potere dello Stato, delle Regioni e delle suddivisioni minori (ma non meno importanti) della gestione della Repubblica.

L’Italia che il Capo dello Stato traccia nelle linee del suo discorso, poco prima della nomina di Mario Draghi a Presidente del Consiglio incaricato (con riserva), è veramente uno scenario drammatico che comprende prima di tutto le responsabilità di una mancata capacità di elevazione della politica a divenire principale luogo di incontro delle diverse istante sociali del Paese e anche terreno di confronto aspro tra le parti in causa: mondo del lavoro e mondo dell’impresa, lavoratori e padroni, sindacati e Confindustria.

L’Italia pandemica, ormai entrata in un secondo anno del protrarsi della crisi economica esponenzialmente fatta esplodere dal Covid-19, avrebbe urgente necessità di riforme che si rivolgano alla tutela della stragrande maggioranza della popolazione, prendendo le risorse, oltre che dall’Europa, anche da un paniere di voci economiche che riguardino prima di tutto i ceti abbienti, quelli che sono in grado di sopportare una tassazione patrimoniale perché, fino almeno ad un anno fa, hanno generato ingenti profitti senza curarsi della sicurezza sul posto di lavoro, cercando di scudare ingenti somme di capitali, trasferendo all’estero il grosso del peso delle loro entrate, per eludere il fisco italiano.

Il Presidente della Repubblica, stretto tra la contingenza dei fatti che si incrociano pericolosamente in una dinamica di relazioni impazzite, entro una carente amministrazione da parte dello Stato, esercita pienamente il suo mandato costituzionale, vi affianca la propria valutazione personale e dichiara con oculatezza che il ricorso alle urne esporrebbe il Paese ad un rischio prima di tutto sanitario, ma anche istituzionale: visto che il Parlamento non è arrivato alla sua naturale scadenza di legislatura. Scioglierlo, vorrebbe dire non avere altra alternativa, nessuna possibilità ulteriore per cercare una soluzione che consenta al principale organo legislativo della Repubblica di continuare ad esercitare le proprie funzioni.

La scelta di Mario Draghi è inevitabile per Mattarella. La benedizione che il Colle dà al grande banchiere, internazionalmente riconosciuto come tale in ogni organismo sovranazionale che gestisca le fasi di crisi del capitalismo mondiale, certamente è un biasimo per una politica incapace di autogestirsi e riproporsi come solutrice di un dilemma aperto dal capriccio renziano, dalla voglia di rappresentanza degli interessi dei grandi imprenditori e finanzieri; ma è prima di ogni altra cosa il ricorso ad un nome che unisce tutte le forze politiche che accettano il punto di vista del mercato, che chiude la stagione delle maggioranze variabili pentastellate e contiane e, infatti, apre una enormità di contraddizioni nell’agorà politica italiana.

Draghi è, in questo senso, una scelta fortemente “di classe“, che oltrepassa i confini della politica propriamente detta e si rivolge tanto ai partiti presenti in Parlamento quanto alle cosiddette “forze sociali” e alle rappresentanze della grande economia. L’”enormità del nome“, tanto declamata dalle sviolinate dei giornalisti in televisione e da una vasta caterva di commentatori su altrettanti quotidiani, non nasce da un curriculum che ci parla di un Draghi tutto intento a salvaguardare la “zona Euro” per fare gli interessi dei popoli europei. Semmai per tutelare quel capitalismo liberista continentale che, a quasi vent’anni dalla nascita della moneta unica, è entrato in fibrillazione sia per i rapporti interni all’Unione Europea, tra stati ricchi e stati strangolati dalla Troika, sia per l’inevitabilità del confronto con i poli economici americani e asiatici.

Ma la grandezza del nome rimane, diventa un totem cui affidarsi per non eliminare i tabù che ci si è imposti dopo che li si è subiti con ampia sufficienza, trasformandosi davvero nevroticamente da forze di sinistra moderata a sicuri alleati di un centro che richiama al “senso di responsabilità verso il Paese“. Ecco il mantra che si ripete per convincersi – ormai senza nemmeno molti sforzi – che solo spingendosi verso la riconferma esclusiva del governismo e dello stare in una maggioranza si ottiene la simbiosi tra visibilità, riconoscimento (scegliete voi come interpretare il termine) e presunta rappresentanza dei ceti più deboli della società.

Le parole di Bonomi non sono così eccezionali: nel plaudire sperticatamente all’arrivo di Draghi, in una intervista dalle risposte molto adulatorie nei confronti dell’ex presidente della BCE, il presidente degli industriali se non altro conferma l’evidenza del ruolo classista, inevitabile, che dovrà avere il governo. Forse un misto tra tecnici e politici, ben sapendo che nessun esecutivo è scevro dalla politica ma, proprio nel farla, può escludere dalle decisioni importanti proprio quegli interessi che una azione istituzionale e pubblica dovrebbe mettere in essere. Qui sta la differenza tra il governo di compromesso di Conte e quello di salvezza del capitale nazionale di Draghi.

Il sostegno a Draghi è una scelta ben precisa che non può essere equivocabile facendo riferimento a giustificazioni che riportano all’”interesse nazionale“. Sono quei concetti buoni per tutte le stagioni e quindi trasversali, interclassisti e, per l’appunto, così tanto vuoti di significato da essere utilizzabili per qualche acrostico gioco enigmistico. Una volta trovata la parola che si nasconde nelle iniziali delle definizioni tanto studiate, la soluzione, in questo caso, pur cambiando nei termini dà sempre lo stesso significato: Draghi è sinonimo di banchiere e banchiere di capitali.

Non rimproverate a Draghi di fare il suo mestiere. Rimproverate ad una certa sinistra di volerlo sostenere, come ha sostenuto in passato altri personaggi di più piccolo calibro intellettuale e di minore accredito presso le grandi centrali economiche globali, dando ad intendere di fare il bene sociale, l’interesse dell’Italia, ma non certo quello dei lavoratori e degli sfruttati.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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