Un tempo l’Italia era il Bel Paese, di poeti, di santi, di navigatori. Poi è diventata la culla di colonizzazioni interne ed esterne, di trasformismi politici di fine ‘800 e inizio ‘900, di dittature che hanno inventato sé stesse senza saperlo e si sono scoperte così audacemente d’esempio per il resto di uno sciagurato mondo nel pieno delle crisi economiche più devastanti. Frutto di guerre, di un militarismo da “grande proletaria” che si muove, accompagnato da una cieca fede nel credere, nell’obbedire e nel combattere.

La straordinaria storia del nostro Paese è una cavalcata novecentesca sulle pesanti ali di piombo di una dittatura feroce, messa a fine da una catastrofica riduzione in macerie delle città ed anche dei piccoli luoghi sperduti dove pareva che il conflitto non potesse arrivare, dove ci si sentiva salvi, in un certo qual modo.

Qualcuno ha pensato di isolarsi anche in questa pandemia, di sfuggire al Covid-19 eremitizzandosi, collocandosi fuori dal mondo, estraniandosi prima di tutto dalla cloaca di falsificazioni mediatiche che sommergono le informazioni vere, scientificamente date. Ma, in particolare, di far pace con la mente, di metterla al sicuro da ansie, timori, paure soverchianti sul raziocinio, sulla fredda calma di chi sa di essere immerso in un contesto molto più grande di lui e deve, volente o nolente, affrontarlo.

Un cataclisma, una catastrofe, una linea di demarcazione di una storia che non sarà più quella di prima: il solco è stato tracciato. Se ne conosce il tratto iniziale di una circonferenza che non si chiuderà mai del tutto: perché è propensione temporale al futuro, non si rivolge all’indietro, non è un Giano Bifronte, ma un dio vendicatore che punta il suo braccio teso e le sue dita oltre il nostro sguardo. Indica e mostra tutta l’incertezza e l’inadeguatezza di una politica che fallisce due volte nella gestione della pandemia se deve abdicare a sé stessa, se deve chiamare a gestirla i cosiddetti “tecnici“.

All’economia (politica) un banchiere di fama internazionale, di imperturbabile dirittura morale, silenziosissimo: fa parlare i fatti, dicono. Non si espone mediaticamente. Sta a Palazzo Chigi imperturbabile, serafico. Decide e non rilascia nessuna dichiarazione: parlano soltanto i comunicati stampa ufficiali della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le decisioni sono, lo si voglia o no, l’essenza prima della politica: farla, vuol dire assumere una posizione piuttosto che un’altra, scegliere, dirimere controversie e farlo operando sintesi che dovrebbero (il condizionale è, ahi noi, purtroppo sempre d’obbligo) puntare al bene comune della popolazione, del Paese.

E Draghi le decisioni le prende: mette sempre più da parte la politica per fare spazio all’eccellenza tecnica sul campo, all’esperienza provata. Non si affida a mediatori e a terze figure che provengono da qualche mandato popolare, anche velatamente e indirettamente espresso tramite un consenso elettorale; sceglie chi è in campo, nel campo militare in questo caso. Per la prima volta dall’insediamento del suo governo, trascorsi una ventina di giorni, Draghi parla con i “fatti“: un generale, insieme ad un esperto di protezione civile, alla guida della grande campagna vaccinale italiana per arginare il coronavirus.

A molti parrà una vittoria della lungimiranza strategica di chi è abituato a scegliere il meglio, come al ristorante (se te lo puoi permettere) o in un negozio di grandi firme (se te le puoi permettere). Si tratta, invece, di una ulteriore e anche piuttosto inquietante retrocessione democratica, perché è un venir meno di quell’esercizio costante che la politica dovrebbe fare per essere essa stessa “tecnica” e poter fare a meno, nei centri decisionali, di esperti in materia. Non per gelosia o per saccentismo burocratese, ma perché è compito del governo essere esclusivamente politico, per essere veramente democratico.

Il così tanto vituperato “politico” dovrebbe acquisire le esperienze dei tecnici, attorniarsene e istruirsi in merito. Ma la decisione deve essere scelta politica, perché in sé non può non avere la direttrice che è dettata dalla scelta popolare, dalla trasmissione del mandato di rappresentanza che, costituzionalmente, in quanto a sovranità, spetta esclusivamente e solamente al popolo. La tecnica, per quanto politica possa provare ad essere, sarà sempre ibrida in questo senso e non rappresenterà mai veramente altro se non il clima di disperazione in cui versa un Paese dove il cedimento è proprio nel cuore della Repubblica: il Parlamento.

La crisi del precedente governo, proprio perché irragionevolmente non nata in seno alla dialettica parlamentare, ma frutto di meri giochi di voglia di primato della rappresentanza dei poteri economici nei nuovi assetti pandemici della politica nazionale (e continentale), è il punto di partenza di una distorsione emblematica tanto dell’impalcatura repubblicana, forma e anche sostanza della macchina statale, quanto del distacco profondo tra popolo e istituzioni. Una scissione espansa dal crudele biennio pandemico, dall’avanzare di un impoverimento generale che riguarda soprattutto le classi già pesantemente disagiate e precarizzate, ma che investe anche una vasta fascia di ceto medio che pensava di essere – in un certo qual modo – al sicuro da cataclismi economici dovuti anche al più impensabile degli incontrollabili eventi naturali.

Il governo Draghi è la risposta ad una non-risposta della politica (che, con tutti i suoi difetti, il Conte bis rappresentava), un soccorso a-democratico ad una democrazia sciancata, debole, che ha bisogno di banchieri e generali di lungo corso dell’esercito per provare a rianimarsi. Ben triste quadro di un Paese che, se lo si osserva attentamente, vira sempre più verso soluzioni antisociali, estranee ad una chiave interpretativa agganciata ad una visione sociale della politica.

L’orientamento è trovare soluzioni altre rispetto a quelle che proprio la “classica” politica potrebbe individuare. Ormai ci troviamo molto oltre le visionarie lotte, del tutto illusorie, affidate alle goliardate pentastellate, a metà tra la propaganda populista e la voglia di governismo malcelata. Qui si è davanti ad un progressivo, collettivo abituarsi all’uomo che decide, non “solo al comando“, che rispetta la formalità, tutto il protocollo necessario per dimostrare che la Repubblica esiste e si può preservare, ma che, nella sostanza, agisce con dei pieni poteri che non ha avuto bisogno di reclamare.

Gli provengono da una autorevolezza che pare innata, e che è la chiave di volta del momento: viene dalla benedizione dei grandi centri di controllo delle crisi del capitalismo mondiale, dalle banche private e “pubbliche“, dall’aura mistica che lo circonda, alimentata dal panico sociale che scombussola i giudizi critici, addomestica e ammansisce la necessità del dubbio.

La guerra contro il Covid-19, adesso, con buona pace della politica e della democrazia, può cominciare…

MARCO SFERINI

Foto di Frank Spencer da Pixabay

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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