di Gianluca Cicinelli

Come dovremo fare i richiami per rendere efficace il vaccino contro il covid nei prossimi anni, così si comincia a capire che – da adesso in poi – ci sarà bisogno di molti e diversi richiami sul tema della povertà futura. Da qualche giorno i giornali pullulano delle cifre che i lettori di queste righe conoscono bene: un milioni di poveri in più da inizio pandemia, 5 milioni e 700 mila in totale gli italiani in povertà assoluta, 4 milioni di disoccupati, 6 milioni e trecentomila italiani in bilico fra lavoretti e disoccupazione. Questo per i dati ufficiali a cui si aggiungono le stime della Caritas: a Roma il 18% dei residenti è a rischio povertà, il 10% va in crisi per spese fisse o improvvise, il 7% vive in condizioni di grave deprivazione abitativa, con incrementi a tre cifre per il sostegno relativo ai beni alimentari. A Milano, da ottobre a dicembre, il numero delle famiglie che si sono rivolte ai soli empori solidali di Caritas è aumentato del 45%.

Potremmo continuare con le cifre ma il problema è chiaro. Se da una parte il fallimento della campagna vaccinale – che prosegue con continui zig zag tra categorie prescelte che cambiano, saltafila e dubbi sulla sicurezza di alcuni prodotti come AstraZeneca – allontana il momento in cui sarà possibile la cosiddetta “ripresa”, dall’altra grande è la confusione intorno al Recovery Plan, che dovrebbe essere lo strumento da cui ripartire, il piano su come investire il denaro proveniente dall’Europa che lo Stato userà per rilanciare le attività economiche. Secondo Confindustria, l’Italia avvierà la sua ripresa economica verso la fine del 2022 ma sembra una previsione molto ottimistica a meno che non si limiti a indicare la media e grande industria. Il resto – dai proprietari di un solo esercizio, di ristoro o turistico, ai dipendenti delle loro attività, spesso in nero, alle piccole imprese edilizie e relativi operai – non ha alcuna garanzia di una rete d’investimenti adeguati a far riprendere le loro attività. E stiamo parlando dell’esistente, in un’Italia che avrebbe bisogno d’interventi strutturali e quindi investimenti in settori attualmente ai margini produttivi e ugualmente non previsti fin’ora da tutte le ipotesi di Recovery Plan arrivate sui tavoli del governo e dei giornalisti.

Mancano pochi giorni per il varo del provvedimento – deve essere presentato entro il 30 aprile – e noi sappiamo poco o nulla di cosa contenga davvero, anche perchè ogni giorno si registrano cambiamenti dovuti al termometro politico. Draghi parla di tre strutture: una struttura centrale che riceve il denaro dalla Commissione europea e lo dà agli enti attuatori; una struttura di valutazione per controllare gli obiettivi progressivi degli investimenti; la terza di controllo specifico che dirà se i soldi sono stati spesi come previsto. Questa però è la forma di gestione; del piano nel suo insieme sappiamo molto poco. C’è un passagio interessante con cui Draghi ha anticipato ai media le sue intenzioni: “In fondo noi non abbiamo credibilità per la capacità di investire, l’abbiamo persa tantissimi anni fa. Ma non è che l’abbiamo persa perché non si volesse investire, ci sono centinaia di miliardi appostati in bilancio per investimenti mai fatti. Bisogna cambiare tutto per diventare credibili, per superare gli ostacoli a livello politico, istituzionale, amministrativo, contabile e financo giudiziario. Sono aree in cui chiedersi se l’attuale contesto istituzionale è adatto a procedere con rapidità, efficienza e onestà per l’attuazione di questo piano”. E’ interessante se non altro per mettere nero su bianco qualcosa che è davanti agli occhi di tutti. Ma le sue parole rendono ancora più pressante la domanda su come allora verrano investiti i soldi. C’è davvero scarsa o nulla trasparenza sui progetti del Recovery Plan italiano.

Sappiamo che al momento le richieste dei vari ministri superano di circa 40 miliardi i fondi previsti dall’Europa. Sappiamo che servirà per ripagare i sostegni erogati nell’ultimo decreto. Conterrà misure a copertura dei costi fissi sostenuti dalle aziende e dalle partite Iva, e la Cassa Integrazione. Sappiamo che il 40% delle risorse è destinato al Mezzogiorno, ma è una frase da titolo sul giornale se non viene supportata da come e dove. Ciò che non sappiamo è il resto, ovvero quasi tutto. Un esempio è il cosiddetto Digital Divide (il divario digitale) fra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione e chi ne è escluso: un problema che l’esperienza della Didattica a distanza ha accentuato, togliendo la residua possibilità di usufruire dell’istruzione pubblica a chi non è in possesso di un collegamento internet stabile, cioè quasi la metà delle famiglie italiane. Ma vale persino per gli “affari”: un viaggio in treno fra Milano e Napoli ancora oggi presenta zona morte di segnale da cui è impossibile il collegamento mobile. Nel Recovery Plan previsto dal precedente governo Conte erano previsti 60 miliardi di euro per la digitalizzazione del territorio, ma non sappiamo quanto resterà di quelle indicazioni nel nuovo Piano.

Il tempo scorre e già, per i ritardi, da Bruxelles sono stati tagliati 4 miliardi ai circa 200 previsti per l’Italia. Ci sono 500 sindaci del Mezzogiorno – fanno parte della rete Recovery Sud, ovvero il fronte compatto dei primi cittadini – a chiedere che il 68% dei 209 miliardi venga destinato a questa area del Paese; i 500 dopo aver scritto a Mario Draghi e Sergio Mattarella (senza risposta) hanno scritto a Ursula von der Leyen affinché “l’Unione Europea vigili sui fondi. L’Unione Europea – hanno ricordato – ha concesso quei fondi sulla base di vari princìpi: popolazione, livello di disoccupazione, rapporto inverso del Pil. Stando ai dettami comunitari – concludono – i primi cittadini meridionali ritengono che non il 34%, ma il 68% del Recovery Fund debba andare al Sud, chiedendo dunque un vincolo di destinazione. Al momento neanche la Von der Leyen ha risposto a questa sollecitazione. Il Censis, che è ottimista e si aspetta dagli interventi del governo, senza sapere quali, un aumento di 4,2 milioni di nuovi posti di lavoro, sottolinea come formazione di capitale umano, propensione al’innovazione e creazione di nuove conoscenze e competenze siano le leve con le quali l’Italia sfuggirà al declino. Tre punti su cui al momento nel Recovery Plan – costruito nelle stanze dei ministeri senza partecipazione delle parti sociali – non c’è alcuna indicazione da sostenere o criticare.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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