Un milione di lavoratori in meno. Comincia così, con un affresco drammaticamente crudo dell’attuale situazione del mercato del lavoro in Italia, un commento apparso lo scorso 7 aprile su Repubblica, a firma Tito Boeri. Personaggio, costui, che ha fatto in più occasioni capolino sul nostro blog, difficilmente per ricevere apprezzamenti. Le migliori intenzioni sembrano animare l’ex presidente dell’INPS: il titolo del suo intervento, ‘Come creare nuovo lavoro’, sembra una manna dal cielo, qualcosa di cui, vista la situazione in cui verte lo scenario occupazionale in Italia da ormai molti anni, ci sarebbe estremamente bisogno. L’articolo di Boeri, tuttavia, non si cimenta in un’analisi di lungo periodo delle dinamiche del mercato del lavoro italiano, ma si sofferma unicamente su quanto accaduto all’occupazione ‘dai giorni dei primi tre contagiati di coronavirus’, ossia dallo scorso febbraio ad oggi.

Boeri parte da una fotografia asettica della distruzione di lavoro che la pandemia ci ha portato: un crollo dei dipendenti con contratti temporanei (-13%), una sensibile riduzione dei lavoratori autonomi (-7%), e una perdita occupazionale (1 milione di lavoratori in meno) che ha maggiormente colpito le fasce più fragili della classe lavoratrice, quali donne e giovani. Inoltre, Boeri ci ricorda che all’aumento dei disoccupati ha fatto seguito anche una crescita degli inattivi, ossia di coloro che non hanno un lavoro, ma che al momento non lo stanno cercando. Tra questi, numerosi sono coloro che non cercano in modo attivo un lavoro, pur avendone in verità bisogno, perché scoraggiati dalle condizioni di enorme difficoltà del mercato del lavoro, o perché costretti dai vincoli familiari in assenza di alternative: emblematico il caso dei genitori, quasi sempre madri, senza lavoro che, con le scuole chiuse, non possono più permettersi di lavorare in quanto impegnati nel lavoro di cura.

Un’eredità occupazionale, quella lasciataci dalla pandemia, molto pesante, come giustamente riporta lo stesso autore. In questa palude, che fare? Ed è qui che Boeri tira fuori il meglio di sé, proponendo tre specifiche ricette.

La prima consisterebbe nel favorire la contrattazione decentrata, ossia la contrattazione a livello aziendale. A detta dell’autore, la ripresa occupazionale sarebbe favorita dall’aumento del lavoro di prossimità, tramite la maggiore capacità dei datori di scegliere i lavoratori più adeguati alle proprie esigenze. Trattasi naturalmente di una copertura ideologica per nascondere il vero ed unico fine della contrattazione a livello aziendale, ovvero l’indebolimento drammatico della capacità contrattuale dei lavoratori che vedrebbero spostare una parte consistente delle proprie rivendicazioni da un piano ampio e universale – nazionale – ad una dimensione piccola, quella aziendale, molto più facilmente soggetta ai ricatti dei datori di lavoro.

In secondo luogo, Boeri sottolinea il ruolo di un ‘servizio pubblico per l’impiego funzionante’. In altre parole, l’autore suggerisce di ricorrere alle cosiddette politiche attive del mercato del lavoro, ossia a misure in grado di riqualificare la forza lavoro e di favorire il ricollocamento della stessa verso le imprese sopravvissute alla tempesta. Tanto per cambiare, il disoccupato, colui che ha perso il lavoro a causa di un’emergenza sanitaria e di una crisi economica senza precedenti, è visto come un rottame, una risorsa non più al passo con i tempi, una persona da riqualificare perché, si sa, le imprese virtuose non vedono l’ora di ricominciare ad assumere… Un’impostazione, quella di Boeri, tutta ideologica e non suffragata dall’evidenza empirica. Nessun riferimento, come del resto potevamo attenderci dalla sua penna, al fatto che in Italia la disoccupazione a due cifre – quel mare magnum di senza lavoro e di sottoccupati in cui sguazzano i capitalisti per reperire manodopera à bon marché – permane ormai da anni, figlia di decennali politiche di austerità di matrice europea. Per quanto riguarda invece le supposte frizioni, quella contrattazione collettiva che, a detta di Boeri, impedirebbe l’incontro tra domanda e offerta di lavoro quasi a due passi da casa, l’autore dimentica che in Italia è in atto un processo trentennale di progressiva flessibilizzazione del mercato del lavoro: dal pacchetto Treu del 1997, al Jobs Act, il mercato del lavoro è stato reso sempre più rispondente alle logiche di mercato e la contrattazione collettiva depotenziata. Il problema vero è allora un altro, ovvero la cronica carenza di domanda di lavoro capace di assorbire i disoccupati: in altri termini, specialmente in questo periodo caratterizzato da una frenata generale dell’economia, non vi sono imprese in cerca di lavoratori.

Dulcis in fundo, Boeri rispolvera il Jobs Act: l’autore vede nella misura di renziana memoria lo strumento migliore per far sì che i contratti a tempo determinato vengano trasformati, attraverso incentivi fiscali, in contratti a tempo indeterminato, e, udite udite, ‘gioverà grandemente’ (sì, vengono usate proprio queste parole) a questo passaggio lo sblocco dei licenziamenti, misura sulla quale il Governo, a detta di Boeri, sta colpevolmente traccheggiando. Un triplo tuffo carpiato: per far nascere posti di lavoro occorrerebbe dar modo alle imprese di licenziare. Come se negli ultimi anni, contrassegnati, ben prima dell’emergenza Covid, da una dinamica occupazionale debolissima, non vi fosse stata quella smaccata libertà di licenziamento plasmata dalle modifiche della legge Fornero e del Jobs Act all’articolo 18.

Insomma, come creare occupazione, stando alle parole di uno dei maggiori esponenti del pensiero liberista in Italia? Le ricette, ahinoi, sono sempre le stesse: ogni volta che si ha a che fare con la disoccupazione, una piaga economica e sociale che morde più di tre milioni di persone, non si perde occasione di puntare il dito o contro i lavoratori, considerati non sufficientemente formati o qualificati per determinate mansioni, o contro le più basilari forme di regolamentazione del mercato del lavoro, come ad esempio la contrattazione collettiva, considerate colpevoli di limitare la fluidità del mercato del lavoro e, in questo modo, di non permettere alla disoccupazione di riassorbirsi.

Ancora una volta, i competenti corrono in soccorso di un Governo che sembra sempre più orientato a mettere mano al mondo del lavoro in senso regressivo: mentre la fine del blocco dei licenziamenti viene invocata da Confindustria, diverse propaggini dell’attuale esecutivo avanzano l’idea di un sistema di ammortizzatori sociali che prescinda dalla prosecuzione del rapporto di lavoro e che sia invece basato sulle politiche attive. Politiche inutili e dannose, che anziché affrontare il problema della disoccupazione a partire dalla sua vera causa, la carenza cronica di domanda aggregata di beni e servizi, ergono il disoccupato a capro espiatorio del proprio destino.

La pandemia finirà, ci auguriamo presto. Gli strali del mondo liberista, spesso scoccati da un’accademia asservita agli interessi dominanti, non termineranno, e non si fermano nemmeno di fronte all’attuale catastrofe economica. Impariamo a riconoscerli.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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