Interpellato sulle continue mutazioni del Coronavirus, il virologo Fabrizio Pregliasco, dell’Università degli Studi di Milano, così si è espresso: «Cerca variazioni sul tema nella sua opera cieca di riproduzione, coinvolgendo più soggetti possibili».
Ebbene, mutatis mutandis è esattamente quanto fa da sempre Das Kapital e quanto ha continuato a fare a cavallo tra vecchio e nuovo secolo. In questo ultimo scorcio temporale, solo accennando ad un itinerario fenomenologico si potrebbe ipotizzare che abbia proceduto dapprima tramite la consueta lobby delle armi (Guerra del Golfo e lotta al terrorismo islamico), passando poi per le banche e la grande finanza delle bolle immobiliari (con conseguente crisi dei mutui subprime e «grande recessione»), per affidarsi in tempi di pandemia alle multinazionali di Big Pharma ed ai colossi digitali garanti del distanziamento sociale. Indispensabile cornice alle varianti su richiamate, nella sua opera – del Capitale si intende – di cieca accumulazione, è l’evento della caduta del muro di Berlino dell’89’ e la conseguente proiezione globale del mercato capitalista, che proprio quella rovinosa caduta ha propiziato.
Evidente che questo tipo di approccio confuta alla radice la tesi secondo la quale il virus saremmo tutti quanti noi in forma indistinta, come pure va ripetendo un certo racconto, che nella migliore delle ipotesi, se in buona fede, è comunque viziato da una pesante ipoteca colpevolizzante di matrice religiosa nei confronti del genere umano in quanto tale. Così in un diario di bordo concepito in pieno lockdown da un intellettuale pure avvertito, come Sandro Veronesi, troviamo tracce di questa Weltanschauung là dove sottolinea che noi tutti «danneggiamo in qualunque modo l’oggetto che ci ospita e non riusciamo nemmeno a concepire di smettere di farlo. E chi, in natura, si comporta così? Qual è l’unica forma di vita che danneggia l’organismo che lo ospita fino a distruggerlo? Il virus. Noi siamo diventati un dannato virus, per il nostro pianeta, e il nostro pianeta cerca di difendersi». E la cosa non deve destare sorpresa, dal momento che un paradigma simile è attivo pure nella riflessione di un insospettabile quale Nietzsche, autore fra l’altro di un emblematico Anticristo. Nella sua giovanile La nascita delle tragedia fa pronunciare al demone Sileno, tormentato da re Mida intorno alla cosa più desiderabile per l’uomo, le seguenti definitive parole: «Stirpe miserabile e effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto». Come ha detto qualcuno, consapevoli o meno, «in occidente siamo tutti cristiani», perché le culture sono secolari, ma le civiltà sono addirittura millenarie.
Ora, sull’essenza riproduttiva cieca, impersonale e quantitativa, dell’accumulazione capitalistica insiste Marx in quell’autentica perla di sapere critico che è il capitolo di apertura del I libro de Il Capitale, la cui lettura lascia la sensazione poco gradevole che il capitalismo si mangia gli uomini. Piroscafi o bambole – aggiungiamo vaccini – non fa differenza; quello che davvero consta è l’estrazione del plusvalore dal lavoro ridotto a mera energia lavorativa calcolabile, per cui sussiste un conflitto insanabile tra l’aspetto qualitativo, «il valore d’uso», rispetto a quello unicamente quantitativo del «valore di scambio»: «Come valori d’uso le merci sono soprattutto di qualità differente, come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè non contengono nemmeno un atomo di valore d’uso». È il denaro che ha preso il controllo delle operazioni e detta legge come fine a cui tutte le altre cose, animate e non, devono tendere come mezzi, in una sorta di rovesciamento perverso dei rapporti di forza tra quantità, dominante, e qualità. Detto altrimenti, il denaro e la sua accumulazione dilagante comanda sui bisogni, se e in che misura soddisfarli, senza alcun riguardo se si tratta di salute o altro, e decide sulla produzione: cosa, come e quanto produrre per il massimo di profitto.
Adesso proviamo ad applicare per un istante questo discorso sui vaccini. Con il laissez-faire sui brevetti, una manciata di grandi multinazionali del farmaco si sono ritrovate nella invidiabile, per loro, condizione di fare profitto sul bene per eccellenza quale la vita stessa. I vaccini sono stati così trattati alla stregua di un qualsiasi altro bene di consumo e dunque distribuiti a chi ha innanzitutto la forza economica e monetaria di acquistarli: in buona sostanza questo significa trasmutare i valori d’uso in valori di scambio, volti questi ultimi a realizzare il profitto e non più a garantire il diritto alla salute.
Ma l’essenza virale del capitalismo in generale e del neoliberismo in particolare, come versione estenuata del primo, è data dalla sua natura strutturalmente non autosufficiente, messa bene in evidenza dalla filosofa Nancy Fraser. Nei suoi lavori introduce la nozione di «laboratori ancora più segreti di quelli della produzione», volendo alludere in questo modo a quelle condizioni non economiche di possibilità che consentono al virus capitale, annidandosi, di riprodursi. E ne rintraccia quattro tipologie: «La prima è una quantificabile sacca di lavoro non remunerato intento alla riproduzione sociale […]. La seconda condizione non economica indispensabile per un’economia capitalista è una grande riserva di ricchezza espropriata alle persone sottomesse, in particolare su basi razziali […]. Una terza condizione non economica indispensabile per un’economia capitalista è una grande quantità di doni e/o contributi a basso costo provenienti dalla natura non-umana. […]. Quarta e ultima condizione non economica indispensabile per un’economia capitalista è la grande quantità di beni pubblici forniti dagli Stati o da altri poteri non privati». Come un virus distruttivo e letale, attinge dagli ambiti della riproduzione sociale, dei beni pubblici e soprattutto della ricchezza espropriata alla terra. La Fraser sul punto è alquanto esplicita e sostiene che il capitale ha una tendenza innata a erodere o distruggere o impoverire i propri stessi presupposti di sopravvivenza.
Viene alla mente a tale proposito il frammento profetico di Benjamin Capitalismo come religione (1921), dove in un passaggio equipara lo sviluppo del capitalismo a quello di un parassita cresciuto a spese del cristianesimo. Probabile che in questo caso il filosofo forse più visionario del Novecento volesse mettere in guardia sulla estrema difficoltà di una eventuale opera di sradicamento della malapianta, vista la sua solida figura di calco in una forma religiosa addirittura bimillenaria: parassita della specie teologico-economica, dunque, e per questo più difficile da estirpare. E’ del tutto evidente che il capitalismo si pone oggi come una forma religiosa alternativa a quelle canoniche, il cui principio monoteistico coincide con il mercato. Lo stesso slogan thatcheriano degli anni ottanta, There Is No Alternative, reso nel proverbiale acronimo TINA, pare annunciare un comandamento tanto sconvolgente quanto profondamente falso: non avrai altra società al di fuori di questa. Del resto, «ce lochiede il mercato»è forse l’espressione quotidiana ancora più usata e abusata.
Ma per fortuna è lo stesso Benjamin che ci fornisce in simultanea l’indicazione di un antidoto possibile – un vaccino con linguaggio sintonizzato sull’attualità. Negli appunti preparatori alle sue memorabili Tesi sul concetto di storia (1940), rovesciando un certo progressismo marxiano così si esprime: «Marx ha detto che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia globale. Forse le cose sono diverse. Le Rivoluzioni possono essere l’atto con cui l’umanità che viaggia sul treno tira il freno di emergenza». Forse però neppure il più pessimista dei marxisti poteva prevedere che con la combinazione micidiale di crisi ambientale e pandemia potevano dischiudersi così rapidamente le porte dell’abisso. Eppure l’idea di rivoluzione come freno di emergenza di un convoglio con pilota automatico, fra l’altro metafora delle vetture senza conducente dei giorni nostri, pone l’accento implicitamente su quel carico sovrabbondante di vite umane da salvare e che per questo esige un agire frenante (il katéchon paolino) di una soggettività finalmente collettiva orientata dal bene comune del vivere, inteso come sostanza.FacebookTwitterWhatsAppTelegramCopy LinkCondividi