Luciana Cadahia

È dal 1977 che la Colombia non viveva uno scenario di proteste così intenso. A differenza di altri paesi della regione, lo sviluppo del conflitto sociale colombiano ha seguito dei canali molto singolari. E questo è dovuto a due fattori: il conflitto armato e il narcotraffico. Entrambi hanno funzionato come meccanismi repressivi per mettere un freno ai diversi tentativi di articolazione popolare di vasta portata. In Colombia decidere di alzare la voce o promuovere organizzazione popolare implica che la tua vita inizia ad essere in pericolo, dato che verrà usata la scusa del conflitto per accusarti simbolicamente e giuridicamente di essere un guerrigliero, un terrorista o un narcotrafficante, e, nel peggiore dei casi, assassinarti. È attraverso questo meccanismo, proprio di una dittatura, che hanno messo sotto scacco i sindacati, le organizzazioni studentesche, contadine, indigene e nere. Tuttavia, a partire dalla firma degli accordi di pace questa situazione cominciò a cambiare. Si iniziò cioè a pensare che il conflitto potesse passare da altri canali, e che quindi la stigmatizzazione sociale poteva progressivamente cessare. Le generazioni più giovani, che conobbero solo il governo di Santos, si formarono nella convinzione che il paese potesse essere qualcosa di diverso e vissero l’uribismo come un incubo del passato.

Il trionfo di Iván Duque nel 2018 però mise di nuovo l’uribismo al centro della scena. L’incubo del passato si trasformò in un orizzonte tenebroso del futuro. Fummo in molti ad avvertire che ciò sarebbe potuto succedere se Duque avesse vinto le elezioni. Ma l’establishment colombiano, ovvero i mezzi di comunicazione ufficiali e il liberalismo delle élite della cultura, della politica e dell’accademia furono i principali responsabili nel creare un’immagine di Duque che nonostante fosse del partito di Uribe, non era uribista. Cosa significò quindi il trionfo di Duque? Fare a pezzi gli accordi di pace, tornare all’agenda della guerra e riattivare il fantasma del conflitto armato e del narcotraffico per tornare a perseguitare e assassinare le voce di opposizione al governo. Ma a questo si unì una pessima gestione dell’economia e una crisi economica senza precedenti nel paese. A differenza del resto della regione, la Colombia, grazie all’economia illegale del narcotraffico, aveva mantenuto una finanza robusta e non aveva bisogno di entrare nel ricatto del FMI. Perché distruggere il paese economicamente se il conflitto armato e il narcotraffico già funzionavano come il meccanismo perfetto di controllo sociale e di imposizione dell’agenda neoliberale?

Quindi Duque ci ha riportato la guerra all’ordine del giorno, ma il paese già era cambiato e lui e il suo capo supremo, Uribe, non lo hanno saputo vedere. Che ha significato questo? Un’esplosione sociale senza precedenti, e un gemellaggio con le proteste cilene nel 2019. La gioventù colombiana prese le redini della protesta, alla quale si sommarono la “minga” indigena, il movimento nero, e altri settori popolari del paese. Ma la pandemia interruppe questa onda di proteste, fino a che tornarono in scena la settimana passata. Il detonatore fu il rifiuto generalizzato di una riforma fiscale aggressiva nei confronti dei settori medi e popolari del paese, alla quale si somma una precedente, del 2019, della quale beneficiavano i settori più potenti del paese. Entrambe le riforme, insieme all’inedito prestito richiesto al FMI, hanno messo la Colombia in una situazione economica delicata con un governo nazionale e un insieme di governi locali incapaci di trovare soluzioni per i settori più colpiti dalla pandemia. Attualmente il 42% dei colombiani si trova sulla soglia della povertà.

Il rifiuto della riforma fiscale fu quindi la superficie di un malessere molto più profondo: il rifiuto della guerra e dell’impoverimento generalizzato dei colombiani. È per questo che il ritiro della riforma fiscale e le dimissioni del suo ideologo, il ministro delle finanze Carrasquilla, non è bastato a calmare il malcontento popolare.

A questo va sommato quello che oggi fa notizia in tutto il mondo: la brutale repressione poliziesca delle proteste. Ma questa repressione va compresa nel contesto di un paese addestrato alla guerra. Così il governo colombiano ha trasformato il popolo nel suo obiettivo militare. La polizia spara ai manifestanti e terrorizza, durante la notte, i residenti dei quartieri popolari con diversi tipi di armi da fuoco. Allo stesso tempo, l’esercito è intervenuto nelle principali città, e oggi il popolo colombiano non può godere dei suoi diritti di cittadinanza. Siamo stati trasformati tutti in un obiettivo militare. Chiunque può morire oggi in Colombia. A questo va aggiunto che da Twitter l’ex presidente Álvaro Uribe elabora teorie deliranti di una “rivoluzione molecolare diffusa” (termine usato da un guru cileno neonazista che forma l’esercito e la polizia colombiana per combattere il “neocomunismo della decostruzione”) e incita polizia ed esercito ad attaccare il popolo. E sindaci come Claudia López soddisfano alla lettera i deliri dell’uribismo, nel non condannare gli atti di violenza. Hanno creato la figura del “vandalo” per giustificare l’attività della polizia e dell’esercito, fino al punto di inventarsi che le guerriglie avrebbero cooptato le proteste. Ma questa strategia narrativa non funziona più. In primo luogo perché le immagini che circolano in tutto il mondo mostrano che nelle le strade si vede il popolo resistere pacificamente. In secondo luogo, perché le guerriglie hanno compiuto la loro parte nell’iniziare il processo di pace. E in terzo luogo, perché è di pubblico dominio che è lo stesso uribismo che infiltra le proteste per farle esplodere e giustificare la violenza della polizia.

L’uribismo, rappresentato da Iván Duque è accerchiato. Il centrismo vuole imporre la “teoria dei due demoni” (teoría del los dos demonios), insinuando che tanto il governo tanto il popolo sono colpevoli della violenza. Il patto storico liderato da Gustavo Petro è l’unico all’altezza delle circostanze e chiede un tavolo dei negoziati democratico fra il governo e le organizzazioni che dirigono la protesta.

Va detto infine che il governo colombiano sta discutendo la possibilità di dichiarare lo stato d’assedio, l’ultima carta della strategia della guerra che gli resta per mettere da parte lo stato di diritto, prorogare le elezioni presidenziali il prossimo anno, prolungare il suo mandato anche attraverso una guerra a bassa intensità contro la propria popolazione e agitare la minaccia di una guerra al Venezuela. Mi sembra che questa velleità uribista abbia poche possibilità di realizzarsi, dato che lo scenario post-trumpiano appare poco favorevole a tali strategie. La Colombia è così entrata in un terreno incerto alla quale non è abituata e non è assurdo pensare che, per la prima volta nella storia del XX e XXI secolo, un presidente colombiano sia obbligato a rinunciare al suo mandato.

Originale in #lacanemancipa, link: https://lacaneman.hypotheses.org/1878

Tradotto dallo spagnolo da Alessandro Volpi

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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