Nelle ultime tre settimane di sollevazione popolare in Colombia l’evento politico vero e proprio è stato quello di aver rotto il nostro patto con la paura. Non torneremo mai più ad abbassare la testa. Nelle strade e nei quartieri della rivolta popolare, il desiderio di cambiamento è già incontenibile

In Colombia eravamo in tanti a pensare che il 28 aprile sarebbe stato solo un’altra mobilitazione ordinaria in un paese che si è abituato ad assistere a due o tre cortei all’anno; un corteo tra gli altri, di fronte ad un governo cronicamente e storicamente sordo alle rivendicazioni sociali. Tutto è cominciato come sempre, con una serie di cortei che si sono mossi verso il punto di concentramento della manifestazione, una giornata passata a cantare slogan al ritmo dei tamburi. Anche se qualcosa palpitava nell’aria con forza, le condizioni per un’esplosione sociale esistevano da decenni. Non possiamo dimenticare che la stigmatizzazione, la paura e l’indifferenza nei confronti della protesta sociale hanno reso difficile per molto tempo che la mobilitazione potesse trasformarsi in qualcos’altro.

Nonostante tutto, però, stavolta ci sono stati due ingredienti inaspettati che hanno trasformato una giornata di sciopero e manifestazione in una sollevazione popolare generale come quella che vediamo oggi in corso in tutte le città del paese. Che il popolo decidesse scendere in piazza nel pieno della terza ondata della pandemia di Covid sembrava un atto di irresponsabilità, ma d’improvviso la paura nei confronti del virus si è trasformata. E così l’evento politico vero e proprio è stato questo: abbiamo rotto il nostro patto con la paura.

In secondo luogo, le ciniche dichiarazioni dell’ex ministro delle finanze sul valore di una dozzina di uova e la difesa di un progetto di riforma fiscale assolutamente nocivo da tutti i punti di vista per le classi medie e lavoratrici. Le carte erano scoperte: un governo lontano dalla realtà del paese, la diseguaglianza accentuata dalla pandemia e un malessere sociale diffuso rispetto alle modalità con cui il governo stava “amministrando la crisi”.

Il 28 aprile si è spezzato qualcosa nella società colombiana, qualcosa che era appeso a un filo: la paura che avevamo di perdere un lavoro, la paura di soffrire la fame, la paura di perdere il favore del padrone.

Quella parte di cittadinanza che si era mobilitata per decenni ha trovano una risonanza nei settori popolari stanchi, affamati, indebitati, sempre colpevoli e colpevolizzati, stufi di essere maltrattati da un’elité minoritaria che rappresenta solo i propri progetti individuali.

Il cinismo dei tecnici, il disprezzo di un presidente che gode di questo spettacolo e l’autoritarismo dei suoi seguaci hanno fatto a pezzi l’indifferenza dei cittadini.

La paura è uno dei meccanismi che rende possibile la servitù, è un aspetto decisivo dell’eredità coloniale che aiuta il padrone a mantenere i suoi privilegi secondo la logica propria dell’hacienda e della piantagione (modello che si è perpetuato in particolare nella città di Cali).

La violenza omicida di alcuni membri della forza pubblica, con l’auspicio di coloro i quali danno gli ordini e degli autoproclamati “cittadini per bene”, ha rotto l’indifferenza – timorosa – dei cittadini.

La forza brutale con cui hanno attaccato le mobilitazioni, la persecuzione, la minaccia continua di dichiarare lo stato di emergenza e la narrazione funesta dei mezzi di comunicazione, quella che divide il popolo colombiano tra buoni e cattivi, si è spezzata.

Oggi, pochi credono alle menzogne in diretta televisiva di un presidente che governa da una stanza piena di telecamere che sono lì solamente per compiacerlo; non credono nemmeno ai media dei potenti che si sforzano, giorno dopo giorno, nel delegittimare le degne e giuste proteste; la paura ha cambiato lato e oggi, dietro il discorso dell’ “autodifesa”, i cosiddetti “cittadini per bene” provano a recuperare, con sangue e fuoco, quella compiacenza che per decenni i cittadini hanno concesso per timore; timore delle loro logiche mafiose e necropolitiche il cui unico orizzonte è l’accumulazione infinita.

Si è spezzata la compiacenza con i potenti. Non torneremo mai più ad abbassare la testa. Non sentiremo mai più pena o colpa. Loro non ci stanno facendo dei favori, e ora sappiamo che se ci vogliamo dire un paese democratico è necessario sapere che tutti ne facciamo parte.

Le giornate di mobilitazione nei quartieri ci dimostrano che abbiamo una sola via d’uscita: l’organizzazione. Riconoscere le nostre necessità, raccontare le nostre storie, decolonizzare il potere e le leadership.

Il popolo ha prodotto un nuovo racconto necessario per sopravvivere: vogliamo e desideriamo una Colombia diversa e in pace. Loro, i potenti che rappresentano se stessi, continuano ad essere ugualmente violenti, sordi, indifferenti e superbi, noi, che abbiamo vissuto e sentito la disuguaglianza nei nostri stomaci e nelle nostre sofferenze, non potremo continuare ad essere gli stessi. Il desiderio di cambiamento in Colombia è già incontenibile.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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