Di tassa sui grandi patrimoni nemmeno a parlarne, ma per Draghi è persino indebito discutere della timidissima proposta fatta da Letta su un maggiore prelievo fiscale a riguardo dei grani quantitativi di beni che passano agli eredi. Una proposta che il segretario del PD associa all’”essere di sinistra“: una affermazione azzardata dopo la mutazione veltroniana da DS a solo D, dopo l’era Monti e quella Renzi. Dopo le tante, troppe controriforme che hanno investito il mondo della scuola, dei pensionati, del lavoro, i comparti pubblici più importanti e persino la riorganizzazione dei rapporti interni alla Repubblica, tra regioni e Stato, con il sostegno a quella dismissione di egualitarismo da Nord a Sud del Paese che porta l’infausto nome di “autonomia differenziata“.

Il PD non può oggi farsi prendere dal sacro furore del dirsi e, soprattutto, sentirsi di sinistra per una proposta che avrebbe potuto tranquillamente fare e applicare mentre governava con rapporti di forza ben diversi da quelli odierni, con meno contraddizioni in maggioranza e quindi con la concreta possibilità di realizzare un pezzetto di tassazione delle ricchezze che venivano richieste sempre a gran voce dalle sinistre di alternativa e ostacolate – come è ovvio che sia – dalle destre.

Destre che oggi plaudono alle parole di Draghi, che stoppa immediatamente la proposta lettiana sulla tassazione delle successioni oltre i 5 milioni di euro. Secondo il superbanchiere sarebbe un errore prendere ai ricchi per dare, se non proprio ai poveri, quanto meno a quella larga fetta di popolazione giovanile che dai decreti di ristoro non ha ancora visto un centesimo che sia uno e tanto meno un allentamento della disperazione guardando al prossimo futuro.

Draghi veste i panni dell’economista di lungo corso e parla di una Italia che conoscerà presto una ripresa, una espansione economica che abbisogna però di essere accompagnata in questo cammino da un finanziamento pubblico costante: i padroni hanno già usufruito di 40 miliardi di euro a fondo perso; con l’ultimo decreto potranno aggiungere a questa cifra altri 27 miliardi da non dover restiture a nessuno. Eppure Confindustria lamenta la proroga del blocco dei licenziamenti fino ad agosto (mentre il sindacato preme per estenderlo fino a fine ottobre) e parla di recessione, parendo quasi contraddire l’analisi draghiana e le aspettative dell’intero esecutivo.

La proposta del Partito democratico, per quanto giusta possa essere in termini di progressività fiscale, appare dettata più che altro dalla disperazione di marcare le distanze dal resto della maggioranza di unità nazionale per definire più che altro dei contorni politico-elettorali: Marcucci la boccia tanto quanto Draghi e in soccorso di Letta sono venuti solo dalla cosiddetta “sinistra dem” e da Fratoianni di Sinistra Italiana. Il resto dello schieramento è disomogeneo, tra grillini divisi sul plauso e la contestazione, oltre che un mesto silenzio; tra le destre che da sempre sono per la defiscalizzazione dei grandi ricchi del Paese e che, populisticamente, la invocano come misura generale per abbassare le tasse a tutti. Impossibile. Ma questo Draghi lo sa.

L’intempestiva proposta di Letta mette dunque l’accento su una crisi di identità di un PD che da tempo è un ibrido politico, figlio di una simbiosi culturale tra socialdemocrazia, liberalsocialismo e cattolicesimo progressista che non ha gettato le basi per una rinascita della sinistra moderata in Italia ma ha contribuito pesantemente al suo mutamento in un equivoco continuo tra “sembrare” ed “essere di sinistra“.

La maggioranza di governo non ha un progetto politico riferito ad una impostazione ideale, ma si muove, sull’onda dello stato emergenziale sanitario-sociale-economico, su un piano invece fortemente ideologico: senza riferimenti storici, senza agganci a grandi culture che hanno fatto la storia tanto del Paese quanto dell’Europa, ma seguendo il solco del liberismo più sfrenato, concendendo tutto al padronato e praticamente nessuna tutela ai lavoratori. In questo contesto, pericoloso proprio perché privo di chiare differenze politiche (nonostante le polemiche non manchino), procedono le concessioni di denaro pubblico alle grandi aziende e restano senza prospettiva quei giovani che Letta vorrebbe tutelare.

La contraddizione è evidente: fare parte di una maggioranza come quella che sostiene Draghi e che vorrebbe essere interclassisticamente salvifica per l’Italia tutta, vuol dire scegliere da che parte stare sapendo bene dove ci si colloca. Per quanto riguarda il PD, a fronte di una proposta di sinistra, la scelta di tattica politica guarda a diversi scenari possibili; uno di questi non esclude il possibile logoramento della vecchia (si fa per dire…) alleanza con i Cinquestelle (che già scricchiola in vista delle prossime elezioni amministrative) e la riformulazione del perimetro del centrosinistra.

Anche se risulta parecchio complicato riuscire ad intravedere quale altro alleato potrebbe gareggiare insieme al PD, nella contesa dell’alternanza liberista al governo del Paese, contro quel pericolo delle destre sovraniste che vengono aiutate nel loro compito di esacerbamento degli animi e di sfruttamento della disperazione dalle misure prese dal governo, prive di qualunque minima briciola di giustizia sociale, di valutazione progressiva tanto della fiscalità generale quanto della distribuzione delle risorse provenienti dalle casse della BCE.

Pensare alle giovani generazioni, invocando una maggiorazione della tassa di successione per gli straricchi, continuando a promuovere una visione ultratollerante delle bizze del mercato e del capitalismo, non fa del PD una forza di sinistra così come una rondine non fa primavera. La pochezza del riformismo progressista italiano è racchiusa tutta in questo goffo tentativo di Letta di far sembrare il suo Partito quello che, nella variegata maggioranza che sostiene l’esecutivo, si occupa delle classi più disagiate e dei ceti più poveri. La povertà culturale di questa operazione è talmente evidente che non fa altro se non manifestare il fallimento dell’ambiguità democratica: le mosse di Biden sono indubbiamente meglio pensate e meglio giocate in un contesto molto diverso da quello italiano.

La deriva liberista del PD è irreversibile: la sua collocazione antisociale è forse l’unico tratto distintivo identitario che lo contraddistingue. Una particolarità tutta italiana: una anomalia che non esiste in nessun altro paese europeo. Un partito politicamente fraintendibile, idealmente incolore, la cui distinguibilità dalle destre si fonda – come ormai siamo abituati a constatare – solamente sulla differenza culturale tra diritti liberali e sovranismo neonazionalista.

E’ una ben triste evidenza e, per questo, è così tanto invisibile.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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