L’accelerazione della campagna vaccinale è senza ombra di dubbio un dato positivo, un punto di ripartenza sociale ed economico per l’intero Paese. Ma la lode sarebbe meritata per il governo se, a questo riscontro di riorganizzazione della fiducia nelle istituzioni che si relazionano con i problemi della vita quotidiana dei cittadini, corrispondesse una eguale difesa dei diritti sociali, del lavoro, unitamente alla salute collettiva e singola.

Invece, mentre l’esecutivo di Draghi si adopera alacremente per vaccinare entro settembre l’80% della popolazione, mentre procede con circa 600.000 inoculazioni di dosi di vaccino al giorno, una parte del governo stesso, con in testa il Presidente del Consiglio, coerente con le critiche liberiste espresse dalla Commissione Europea e dalla BCE, si prepara a dare libertà di licenziamento alle grandi imprese a partire dal 1° luglio, mentre per tutte le altre se ne riparla ad ottobre.

Draghi e Salvini si dicono in piena sintonia e allargano uno schieramento che fino a pochi giorni fa era minoritario, pur potendo vantare la piena adesione alla linea della libertà di riorganizzazione della forza-lavoro nelle aziende da parte del superbanchiere, prestato alla salvezza nazionale nel secondo anno dell’era pandemica. Più che altro sembra di assistere all’ennesima puntata del ricorso al taglio occupazione per risolvere i problemi di cassa, per fare bottino di profitti su mercati che non ne vogliono sentir parlare di garanzie e tutele per i lavoratori.

Guglielmo Epifani, già Segretario generale della CGIL e per alcuni mesi anche del Partito Democratico, socialista riformista, se ne è andato da poche ore, dopo una vita passata al fianco dei più deboli. Proprio mentre arriva la notizia della morte di Epifani, i sindacati e il suo ex partito discutono al Nazareno di blocco dei licenziamenti e di provvedimenti di tutela del lavoro da parte di Palazzo Chigi. Lui, seppur con lo spirito di circospezione fin troppo pragmatica che lo contraddistingueva e che aderiva perfettamente alla cautela di chi cerca il dialogo con la controparte padronale e non la lotta di classe, avrebbe tuttavia detto di no a consentire ai padroni di poter licenziare anche in tempo di coronavirus.

Se la crisi c’è ed investe ogni classe sociale, con una inversione di proporzionalità inaudita, scaricandosi quindi maggiormente sui più deboli e flebilmente su imprenditori e finanzieri, è evidente che meno tutele vengono disposte evitando di proteggere milioni e milioni di lavoratori, per giunta già attanagliati dal dramma della precarietà strutturalizzata, e meno garanzie avrà l’economia italiana di poter contare su una ripresa della domanda che le permetta di crescere secondo stime anche parzialmente ottimistiche.

Ma, se l’ottimismo di Banca d’Italia e di Palazzo Chigi è basato su indici che riguardano settori delle esportazioni sulle nuove vie commerciali (prima di tutto vero USA e Cina) e sull’importazione turistica, sulla espansione della media e piccola impresa, si può anche ritenere secondario mettere in salvaguardia i grandi centri produttivi, valutando per questi una riorganizzazione lasciata alle dinamiche globali del mercato: insomma, decidendo di non decidere politicamente, di non convocare adeguati tavoli di discussione con i sindacati e affidandosi invece alla mano invisibile del mercato.

La linea del ministro del lavoro, Andrea Orlando, sposata da Cinquestelle e PD, ha finito col diventare minoritaria in queste ore grazie all’asse trasvesale che si è formato tra la ferma intransigenza di Draghi contro la proroga del blocco dei licenziamenti fino a fine anno e il plauso che gli hanno tributato – senza troppi distinguo di sorta – Salvini, Meloni, Forza Italia, renziani e satelliti gravitanti tutti attorno al blocco iperliberista.

Dal 1° luglio si introduce una distinzione non solo tra aziende grandi e medio-piccole nel trattamento che riguarda gli ammortizzatori sociali, ma si operano veri e propri distinguo di diritti tra lavoratori che potranno essere espulsi dal mondo del lavoro e altri che saranno ancora tutelati (seppure per pochi mesi). Il tutto in base alla grandezza dell’impresa ed alla discrezionalità padronale nel valutare ovviamente i minori costi possibili, incidenti sia sulla qualità produttiva ma, soprattutto, sulla quantità della resa.

Gli stessi ammortizzatori sociali avrebbero bisogno di una seria riforma, dal carattere universalitico, che li riconosca come diritto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori. Per essere applicati veramente in quanto tali e non usati secondo gli andamenti dei dividenti aziendali, come se fossero ammortizzatori per le imprese, vie di fuga per evitare tracolli finanziari e libri in tribunale. Ad oggi, il ricorso alla cassa integrazione è una variabile sempre più dipendente dal mercato e sempre meno una conquista del mondo del lavoro.

Insieme alla proroga del blocco dei licenziamenti va portata avanti anche l’estensione dei contratti di solidarietà per tutte le aziende e non solamente per chi ha visto un fatturato decurtato della metà nel corso dell’ultimo anno e mezzo. La tutela delle imprese non può essere affidata a scappatoie finanziarie private, al ricorso esclusivo a fondi che sono regali e non investimenti, ma deve essere vincolata ad una visione di espansione dei diritti degli operai, di tutti i lavoratori.

In questo senso occorre che la gestione del Piano nazionale di ripresa e resilienza avvenga tenendo presente un punto di osservazione che non sia esclusivo, bensì che riguardi prima di tutto la maggioranza della popolazione che è costituita da chi lavora, da chi sopravvive in stato di precarietà e da chi il lavoro l’ha perso, non l’ha mai avuto o rischia di perderlo dal 1° luglio in avanti…

Draghi, Salvini, Meloni, forzitalioti vecchi e nuovi fanno il loro mestiere. E lo fanno molto bene: assecondare le pretese padronali di Confindustria e delle altre associazioni di categoria imprenditoriali, in grazia di una eterogenesi dei fini che oggi costituisce il migliore innesto per la crescita di una ispirazione liberista dell’azione di governo sul terreno delle (contro)riforme economiche e della gestione del Recovery Fund. Sapendo che non esiste una vera controparte in questo gioco politico: sapendo che, anzitutto, Cinquestelle e PD non potranno tirare troppo la corda senza rischiare di spaccare la maggioranza di governo e, ovviamente, senza tradire la loro impostazione liberista.

L’inversione di rotta di Letta sui temi del lavoro, che in molti vorrebbero leggere come una nuova occasione per una rinascita di una sinistra nel PD, è significativa se si pensa al renzismo, ma rimane ben misera novità se si osserva il contesto in cui avviene: il governo Draghi, il vincolo dettato dall’Europa con le riforme richieste in cambio dei 190 miliardi in arrivo. Impedire il blocco dei licenziamenti è, per la saldatura tra destra di opposizione e di governo, un caposaldo che inaugura una stagione non riformista ma iperliberista e, quindi, antisociale per eccellenza. Per antonomasia.

Il PD a parole si schiera con i lavoratori e, nella pratica, nega questa vicinanza, ripetendo quel rapporto di causa ed effetto cui siamo abituati da vent’anni: apparire sociale ed essere antisociale, stando questa volta in una compagine di governo che, nell’essere votata alla protezione dei profitti, assumendosi la difesa del bene comune solo in relazione alla primaria tutela del privato, tradisce ante litteram, prima ancora di concretizzarsi nella sua azione politico-gestionale del Paese, quel ruolo di “salvezza nazionale” che ha tentato di darsi enfaticamente, tronfiamente.

E’ lo schema classico, già provato molte volte, che ha distrutto quel poco che rimaneva di fiducia dei ceti popolari nella classe dirigente del Paese, nella sinistra stessa (moderata e liberale prima, moderata e liberista poi). Non si può accreditare nessuna fiducia ai servitor cortesi del capitalismo moderno: un modello in cui Letta e amici credono, in quanto a motore di sviluppo…

Nella più evidente delle ineguaglianze, il PD, i Cinquestelle e chiunque pretenda di riferirsi ad una visione sociale di una Italia recuperata alle ragioni del lavoro, vedono l’uguaglianza. In Confindustria e nei padroni vedono dei sostenitori dell’intera società, del benessere comune. E’ uno strabismo autoindotto, cercato dal riformismo moderno. Almeno da quello che ha rinunciato da tempo a trasformare il mondo, a battersi per una parte e contro un’altra. Una scelta che Guglielmo Epifani non avrebbe condiviso, pur da socialista riformista quale era. Di questo possiamo essere certi.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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