Pochi giorni fa l’ISTAT ha pubblicato l’ultimo aggiornamento sui numeri relativi alla povertà assoluta in Italia. Si tratta di una statistica – tanto triste quanto interessante – che viene elaborata a partire dal 2005 e che tiene conto del potere di acquisto delle famiglie italiane. Al di sotto di una determinata capacità di acquisto, tarata su un paniere che include generi di prima necessità (cibo, indumenti, affitto della casa, spese sanitarie, trasporti, bollette per le utenze), e tenendo conto dei prezzi medi delle diverse zone geografiche e dei carichi familiari, la condizione di un individuo e/o di un nucleo familiare viene qualificata come ‘di povertà assoluta’. Per l’ennesimo anno, abbiamo a che fare con numeri impietosi. Ad oggi, in Italia ci sono 5,6 milioni di persone in povertà assoluta. Dal 2006 al 2020, il numero di famiglie italiane che si trovano al di sotto di questa soglia è passato da 789 mila ad oltre 2 milioni. Stiamo parlando di una tendenza allarmante anche alla luce dell’apprezzabile progresso tecnologico avvenuto negli ultimi anni: combinato ad una sostanziale stagnazione della popolazione, ciò avrebbe dovuto provocare un risultato opposto, assicurando un miglioramento degli standard di vita per tutti. La lezione che ne traiamo, quindi, è che pochi privilegiati si sono appropriati dei benefici derivanti dagli avanzamenti della tecnologia, mentre la maggior parte della popolazione non ha raccolto neanche le briciole di questo progresso.

Migliaia di famiglie italiane in condizione di povertà assoluta. Fonte: nostra rielaborazione su dati ISTAT.

Nell’ultimo anno, complici gli effetti devastanti della pandemia sui redditi e sull’occupazione, assistiamo infine ad un vero e proprio balzo della povertà assoluta, con un incremento di quasi 400 mila famiglie in condizioni di indigenza. Si tratta di un dato che marca un’involuzione storica enorme e allarmante. Eppure, i toni usati dalla stampa padronale per riportare la notizia sono piuttosto distaccati ed asettici, puntando il dito sugli effetti negativi della crisi da Covid e sulle penose conseguenze dovute alla duplice crisi del 2008 e del 2020-21. L’aumento vertiginoso della povertà in 15 anni viene dipinto come un effetto quasi inevitabile della crisi economica, e quest’ultima come un accidente imponderabile delle vicende sociali. D’altro canto, questo deliberato fatalismo nella lettura dei fenomeni economici non è affatto nuovo. Il ritornello imperante da una trentina d’anni a questa parte che ha fatto da sinfonia di sfondo ad ogni dibattito pubblico sulle più gravi piaghe della nostra società è sempre stato il medesimo: disoccupazione, povertà e disuguaglianza sono dati di fatto che andrebbero assunti come elementi strutturali del funzionamento dell’economia in quanto tale. L’obiettivo è quello di occultare i macroscopici disastri sociali del capitalismo riducendoli a circostanze imponderabili da accettare, ad un prezzo da pagare per avere in cambio un generico progresso economico e tecnologico. Volete cellulari di ultima generazione, voli low cost, vestiti a buon mercato e cibo economico di una filiera agricola basata su salari da fame? Ed allora non vi lamentate del 20% di disoccupazione, dei salari indecenti, del miliardo di persone al mondo che vive in condizioni di povertà estrema e della spaventosa e crescente disuguaglianza planetaria.

Sembra questa la favola consolatoria che ci viene raccontata per assuefarci alla presenza – data ormai per scontata – della povertà e della disoccupazione. Si può fornire al limite qualche lenitivo, qualche correttivo, ma la logica di fondo di un sistema che genera quei mali non può essere messa mai seriamente in discussione.

Questa favola maligna è però un’impostura ideologica che va smontata pezzo per pezzo. Come i dati dimostrano con evidenza, la povertà non è scoppiata all’improvviso con la crisi da Covid, ma mostra un’inquietante crescita sostenuta da più di dieci anni. La crisi economica globale del 2008 ha senza dubbio impresso una prima accelerazione ma è negli anni successivi, in particolare dopo il 2012, che l’aumento diventa ancora più intenso, con un picco nel 2013 e poi di nuovo un aumento che prosegue indisturbato dal 2014 al 2018.Occorre allora precisare due cose.

In primo luogo, che le crisi non sono eventi imponderabili, ma il prodotto di dinamiche macroeconomiche facilmente prevedibili che affondano le proprie radici nel liberismo economico, nella deregolamentazione dei mercati e nella distribuzione diseguale delle risorse, circostanze che stanno alla base delle oscillazioni e dei cali della domanda aggregata di beni e servizi e quindi della produzione e dell’occupazione. In secondo luogo, in stretta connessione con quanto appena affermato, oltre alla crisi in sé nella sua genesi è la gestione politica della crisi stessa così come delle fasi successive a determinare la capacità di ripresa dell’economia e soprattutto la distribuzione del reddito, i tassi di disoccupazione e, quindi, la diffusione o meno della povertà.

Come noto, la risposta alla crisi economia del 2008-2009 in Europa è stata una fase brutale di politiche di austerità che hanno raggiunto il loro apice nel biennio 2012-2013 e sono poi proseguite sino alla nuova crisi pandemica. Le politiche di austerità, basate su tagli alla spesa sociale, in un contesto perdurante di precariato sul mercato del lavoro, hanno determinato una ripresa economica stentata o inesistente, e un netto peggioramento non soltanto delle disuguaglianze in termini relativi, ma anche dello stato economico assoluto delle fasce più fragili della popolazione al punto tale da portare ad un aumento del 150% del numero di famiglie povere dal 2006 al 2020 e, analizzando il dato nella fase pre-Covid, del 130% dal 2006 al 2018 in soli 12 anni. Attribuire quindi il vertiginoso aumento della povertà al semplice combinato delle due crisi del 2008 e del 2020 è una chiara operazione ingannevole che serve solo a coprire la responsabilità di chi tiene le redini della politica economica. I genitori legittimi dell’aumento della povertà sono invece sempre loro, il liberismo economico e l’austerità di bilancio, due dei cardini del processo di integrazione europea, gli stessi imputati responsabili di quella stagnazione che attanaglia il nostro sistema produttivo da ben prima del 2008.

Quegli stessi imputati che, malgrado le disastrose conseguenze economiche della pandemia, continuano ad essere oggi protagonisti della gestione delle politiche economiche nonostante gli improbabili racconti di una stagione – inesistente – di nuovo interventismo pubblico a suon di spiccioli europei.

La povertà, in tempi di straordinario progresso tecnologico, non è di certo una piaga naturale ineluttabile. Invertire la tendenza alla pauperizzazione del nostro tessuto sociale è senza dubbio possibile, ma lo è soltanto invertendo drasticamente la rotta delle politiche economiche abbandonando le ricette disastrose che ci hanno portato sin dove siamo oggi

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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