L’utilità di una riforma della giustizia dovrebbe mirare a qualificare lo Stato di diritto, a fare in modo che equità e tempi di indagini e processi vadano di pari passo e che nessuno debba poter avere la tentazione di preferire la correttezza alla lunghezza, per una specie di sacro principio di incorruttibilità soltanto così dimostrabile (almeno secondo i Cinquestelle e la loro vecchia riforma firmata da Bonafede); oppure puntare all’altra finzione, quella del processo giusto solo nei tempi giusti, quindi alle calende greche.

Nel primo caso si è rischia (e si è rischiato) di fare del diritto italiano un campo di battaglia meramente giustizialista; nel secondo caso invece sono fin troppo evidenti i finti garantismi che sorreggerebbero un sistema elefantiaco, fatto di corsi e ricorsi, di ingarbugli architettati per giungere al traguardo della prescrizione, facendola somigliare propagandisticamente ad una giustizia terza, indiretta, che assolve senza aver mai assolto.

La riforma di Bondi, nel lontano 1994, andava in questa direzione perversa: adoperare ogni mezzo per trastullare la giustizia con tutti i mezzi possibili (a datisi per possibili dal legislatore stesso, si intende), creando le condizioni “legali” che consentissero di togliere dal novero dei procedimenti penali pendenti tutte quelle cause che riguardavano, per lo più, reati di corruzione, concussione, contro la pubblica amministrazione, contro – genericamente – il bene comune.

La riforma Cartabia, condivisa da un, per ora, unanime tacito assenso – chiesto da Mario Draghi come garanzia da parte di tutti i ministri per uno svolgimento dell’iter parlamentare in eguale (pseudo)sintonia – va oltre la non prevedibilità della custodia cautelare per i condannati prescritti: ritocca i tempi, li allunga ma non fornisce alcuna garanzia per la concretizzazione di una “giustizia giusta“, a misura di ogni cittadina e cittadino.

C’è della buona volontà nella ricerca tecnica, nell’esperienza cumulata in anni di servizio alla Corte Costituzionale, ma c’è anche – e si sente parecchio – la pressione partitica di un compromesso permanente che non tanto la politica, quanto le circonvoluzioni tra le forze della maggioranza dettano ad una agenda riformista che pure dovrebbe uniformare tecnicismi degli uffici ad elaborazioni successive in seno al Parlamento.

La riforma Cartabia contenta tutti per non contentare nessuno. E’ il destino delle leggi che vengono scritte da governi di unità nazionale, ancora di più rispetto alle normalissime procedure democratiche che prevedono quel tanto di dialettica che preservi, oltre alle forme, anche una sostanza del compromesso, una disciplina repubblicana del confronto libero che si fa sintesi nella proposta alle Camere.

Purtroppo, la riforma Cartabia viene segnata da questa novità irricevibile che è un artificiosa invenzione che dovrebbe sostituire la prescrizione falcidiata dal giustizialismo pentastellato e qui invece timidamente sostituita da una progressione nemmeno poi tanto tale. Si tenta di dimostrare, dati alla mano, che l’”improcedibilità” altro non sarebbe se non una nuovo elemento di garanzia per le parti, per avviare una nuova stagione di responsabilità del e nel diritto italiano, della giustizia dello Stato, della sua applicabilità anche più celere e meno farraginosa.

In realtà, se si dovesse applicare la riforma appena tacitamente approvata dal Consiglio dei Ministri a tanti processi del passato, si scoprirebbe che non basterebbero due anni per un ricorso, soprattutto in processi eclatanti e che hanno fatto la storia della Repubblica, nel bene e nel male: basti pensare al processo Cusani, a quello per la strage di Viareggio, al lungo procedimento che ha interessato uno dei tanti misteri dell’Italia moderna, la “trattativa Stato-mafia“; oppure, per venire a temi che riguarderanno questo luglio infuocato, i processi per le torture e la macelleria messicana della Diaz e di Bolzaneto ai tempi del G8 di Genova.

Guardare al passato ci permette soltanto di fare un paragone per esprimere una valutazione sulle possibili conseguenze, appunto future, della riforma che piace tanto a Forza Italia quanto al Movimento 5 Stelle. Un processo di enorme portata, pieno di testimoni da sentire, preceduto da un lavoro di indagine titanico – che dovrebbe essere ridotto al massimo a sei mesi con una proroga di altri sei e soltanto per una volta – sarebbe finito letteralmente al macero, sarebbe divenuto lettera morta. Una sorta di non luogo a procedere per decorrenza dei termini previsti, appunto, dalla legge. Nel caso della trattativa Stato-mafia questo pericolo esiste tutt’ora, visto che il processo non è affatto terminato.

E’ vero che, formalmente, la riforma non lede nessuna prerogativa della Magistratura; anzi, se ci trovassimo nelle condizioni di poter vedere funzionare la cosiddetta “macchina della giustizia” con una efficienza tale da consentire che i processi si svolgano equamente e velocemente, allora qualche pregio il testo Cartabia potrebbe pure, non senza una certa supponenza, avanzare.

Ma così, rischia di fare della giustizia, per l’ennesima volta, un elemento classista in una cornice costituzionale che prevede invece una eguaglianza di trattamenti dal primo atto di indagine fino al terzo grado di giudizio. Non è certo da oggi che chi può permettersi collegi di importantissimi avvocati difensori, alla fine qualche trabocchetto riesce a buttarlo in tasca al sistema e a venirne fuori sfruttando le intercapedini lacunose tra le norme, i vizi di forma e quant’altro si possa finalizzare all’evitamento di una condanna massima.

La debolezza della Legge, con la elle maiuscola, è anche qui, ma non solo. La fanno gli esseri umani e non è nemmeno quella virtù divina cui Robespierre, incautamente, faceva riferimento in certi suoi discorsi alla Convenzione nazionale. E, siccome è un prodotto umano, ne consegue che punta ad essere giusta, ma non lo è: trascende non tanto la volontà in tal senso, quanto le circostanze che si vengono a creare e che sono sempre enormi rispetto ad un principio scritto. Lo si evince chiaramente quando si tratta di discutere dell’applicazione della nostra Costituzione nel corso dei 75 anni di vita della Repubblica.

La riforma Cartabia, che da un certo punto di vista non è peggiorativa dei precedenti tentativi di sovvertimento del sistema giudiziario italiano, fa parti uguali tra diseguali: può appellarsi al fatto che così è e deve essere la giustizia. Uguale per tutti.

Ma sappiamo che questo è l’alibi più sfruttato nel campo della demagogia spicciola, proprio quando si infrange l’egualitarismo del diritto nei confronti della maggioranza dei cittadini che subiscono processi ingiusti perché non hanno accesso a quelle risorse che gli consentirebbero di trattare da pari a pari grandi aziende che impongono non solo il loro “prestigio” (leggasi: potere finanziario ed economico in generale) sulla bilancia della giustizia un po’ meno cieca del solito, ma soprattutto la potenza di fuoco di battaglioni di giuristi contro cui un solo individuo può davvero ben poco.

Lo strumento delle “class action“, delle azioni comuni di tanti cittadini che si uniscono per fare causa comune (in tutti i sensi), ha consentito di ridimensionare questa sfrontatezza, questo fare della giustizia una clava classista, dalla parte del potere e dei potenti, contro la povera gente. Tuttavia non è sufficiente se non si dispongono delle tutele a monte, se non si riforma la giustizia prendendo come presupposto l’intreccio costituzionale formulato dai Costituenti che hanno creato uno stretto collegamento tra persona e società e non hanno permesso che la Legge fondamentale e fondante il nuovo Stato italiano privilegiasse il singolo a discapito del pubblico e nemmeno penalizzasse il primo per assegnare alla collettività dei privilegi fintamente descrivibili come diritti inalienabili.

La giustizia voluta dal governo Draghi risponde inevitabilmente, nella forma, al quadro costituzionale, persino ineccepibilmente. E’ la sua pubblica virtù. Ma il primo campanello d’allarme che la riguarda, dovrebbe arrivare proprio dalla larghezza della condivisione tra le forze della maggioranza che sembrano quasi volerci dire che tutti i processi sono, in fondo, uguali e che quindi non è poi così artificioso mettersi d’accorso sui princìpi fondanti una nuova stagione della giustizia italiana.

Invece i processi non sono tutti uguali: non lo sono perché riguardano non soltanto fatti diversissimi tra loro, trattati da norme specifiche che dovrebbero – per l’appunto – garantire l’uguaglianza di trattamento fuori e dentro le aule dei tribunali; ma soprattutto perché gli interpreti di quei procedimenti sono persone che vivono diseguaglianze abissali nella quotidianità delle loro vite. Diseguaglianze che non possono essere espunte dall’indagine, dall’esame e dal giudizio che può riguardare chiunque di noi.

Una equa riforma della giustizia, perfettamente aderente al dettame della Carta del 1948, avrebbe anzitutto non eliminato (seppure mantenendola formalmente) la prescrizione che, seppure sia stata abusata la punto da somigliare a tanti colpi di spugna (e a finire per esserlo…), rimane un punto di principio sacro per evitare ogni accanimento giudiziario, ogni tentazione repressiva attuata con altri mezzi.

In fondo, nessuna riforma della giustizia finirebbe per essere veramente adeguata all’egualitarismo costituzionale mentre intorno si lavora per destrutturare una serie di diritti dei lavoratori, accrescendo le ingiustizie, lacerando il tessuto sociale e ampliando la forbice già larga tra percettori di tanti privilegi e raccattatori di pochi diritti. Lo smantellamento delle “causali” per i contratti a termine, approvato con fierezza dall’asse PD – Lega, la dice lunga sul senso di giustizia (sociale) che informa questo esecutivo: adesso i padroni potranno assumere precariamente chiunque, senza giustificarsi minimamente, senza dichiarare che si trovano davvero in uno stato di “necessità” tale da dover ricorrere a contratti di quella misura.

Tra ondate di populismo prima e rigurgiti neoliberisti poi, la giustizia ne esce ammaccata, mortificata a svilita. Da forze politiche che badano soltanto alla difesa dei privilegi, quindi dei profitti, davvero speriamo di avere una riforma delle giustizia giusta? Almeno abbandoniamo l’ingenuità. Per decenza, per conservare un minimo di dignità.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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